Il 22 maggio cade il 150° della morte di Alessandro Manzoni.
ALFIO SQUILLACI ricorda opportunamente sul suo diario facebook una lettura di Leonardo Sciascia, condotta sulla scia del libro di Angelandrea Zottoli "Il sistema di don Abbondio", in cui lo scrittore siciliano segnala che la figura centrale è proprio lui, don Abbondio, l'italiano del "particulare" guicciardininano, senza principî ma convenienze, che la vince su tutto e su tutti: il vaso di coccio, apparentemente più fragile, ma che, alla distanza, frantuma quelli di ferro. Don Abbondio che appare dunque come il rappresentante idealtipico dell'Italia di sempre, del nostro carattere nazionale, in questo romanzo che "è un libro angoscioso e, in un certo senso, disperato; ma è anche un libro felice".
P.S. Ma poi una meditazione misericordiosa e aggiuntiva va fatta: quanto don Abbondio c'è in noi? Quanto "realismo" de la croûte du pain (diceva nel suo saggio su Stendhal e l'italianità Michel Crouzet), il "realismo della michetta", che ci fa derogare dai nostri inflessibili e verbali principî, di fronte alla violenza dei donrodrighi di questo mondo? E quanto siamo pronti a indicare, col ditino puntato, la vigliaccheria dei donabbondi, dimenticando la nostra?
Da "Cruciverba", di Leonardo Sciascia, Adelphi, ed. digitale, 2021.
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A scuola, il libro si riduceva a una specie di scacchiera su cui figure che non arrivavano ad essere personaggi venivano mosse da invisibili mani dal buio alla luce, dalla sventura alla salvezza. Le mani della Grazia, le mani della Provvidenza. E con una precisa divisione di compiti: la Grazia a muovere padre Cristoforo e l’Innominato, la Provvidenza a guidare a buona sorte la «gente meccanica e di piccolo affare», ma a condizione della purezza di cuore. E benché senza le illuminazioni della Grazia non molto potesse fare la Provvidenza, a questa veniva attribuito il ruolo primario. «Protagonista del libro è la Provvidenza» assicuravano commentatori e professori. Io invece il libro lo avevo letto, prima, con la convinzione che protagonista ne fosse don Abbondio, personaggio perfettamente refrattario alla Grazia e che della Provvidenza si considerava creditore; né c’è stato, da allora ad oggi, commentatore o professore che sia riuscito a farmela mutare. Ad un certo punto, anzi, mi sono imbattuto in un saggio che me l’ha confermata e motivata: quel "Sistema di don Abbondio" che per me resta la migliore introduzione alla lettura dei "Promessi sposi". Naturalmente, nelle storie e antologie della critica italiana, nei libri che la scuola impone o consiglia, nei corsi universitari, si trovano sparutissime tracce, o nessuna, di Angelandrea Zottoli, autore, oltre che del "Sistema di don Abbondio", di altri notevoli saggi su "Umili e potenti nella poetica del Manzoni", su Boiardo, su Casanova, su Leopardi. Ma come la nostra storia civile, anche la nostra storia letteraria è fatta di dimenticanze, omissioni e disguidi. Ma torniamo a don Abbondio. «Figura circospetta e meditativa», dice Zottoli, che si mostra appena Adelchi cade e che da Adelchi apprende che «una feroce forza il mondo possiede» e che «loco a gentile, ad innocente opra non v’è: non resta che far torto o patirlo». Ma questa visione della vita, questo pessimismo, è per don Abbondio un riparo e un alibi: don Abbondio è forte, è il più forte di tutti, è colui che effettualmente vince, è colui per il quale veramente il «lieto fine» del romanzo è un «lieto fine». Il suo sistema è un sistema di servitù volontaria: non semplicemente accettato, ma scelto e perseguito da una posizione di forza, da una posizione di indipendenza, qual era quella di un prete nella Lombardia spagnola del secolo XVII. Un sistema perfetto, tetragono, inattaccabile. Tutto vi si spezza contro. L’uomo del Guicciardini, l’uomo del «particulare» contro cui tuonò il De Sanctis, perviene con don Abbondio alla sua miserevole ma duratura apoteosi. Ed è dietro questa sua apoteosi, in funzione della sua apoteosi, che Manzoni delinea – accorato, ansioso, ammonitore – un disperato ritratto delle cose d’Italia: l’Italia delle grida, l’Italia dei padri provinciali e dei conte-zio, l’Italia dei Ferrer italiani dal doppio linguaggio, l’Italia della mafia, degli azzeccagarbugli, degli sbirri che portan rispetto ai prepotenti, delle coscienze che facilmente si acquietano... Anni addietro Cesare Angelini, dopo più di mezzo secolo di amorosa, attenta e sottile lettura dell’opera manzoniana, fu come folgorato da una domanda: perché se ne vanno? perché Renzo e Lucia, ormai che tutto si è risolto felicemente per loro, ormai che nel castello di don Rodrigo c’è un buon signore e nulla più hanno da temere, lasciano il paese che tanto amano? Non seppe trovare risposta. E pure la risposta è semplice: se ne vanno perché hanno già pagato abbastanza, in sofferenza, in paura, a don Abbondio e al suo sistema; a don Abbondio che sta lì, nelle ultime pagine del romanzo, vivo, vegeto, su tutto e tutti vittorioso e trionfante: su Renzo e Lucia, su Perpetua e i suoi pareri, su don Rodrigo, sul cardinale arcivescovo. Il suo sistema è uscito dalla vicenda collaudato, temprato come acciaio, efficientissimo. Ne saggiamo la resistenza anche noi, oggi: a tre secoli e mezzo dagli anni in cui il romanzo si svolge, a un secolo e mezzo dagli anni in cui Alessandro Manzoni lo scrisse.
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