24 maggio 2023

L'UNICO SE' CHE HA VALORE E' IL SE' BORGHESE?

 


“L’UNICO SÉ CHE HA VALORE È IL SÉ BORGHESE?”: UN ESTRATTO DA “LA VENDETTA DI ZARATHUSTRA” DI HAKIM BEY

Pubblichiamo, ringraziando l’editore, la prefazione di Marco Philopat a La vendetta di Zarathustra di Hakim Bey (traduzione di Alessandro Mazzi e Gianluca Didino, pubblicato da Agenzia X in collaborazione con Ampère Books)

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Per chi ha partecipato all’esperienza controculturale, la lettura dei testi di Hakim Bey è simile all’osservazione di un quadro di Jackson Pollock. Nel caleidoscopio cromatico lanciato sulla tela e sugli occhi del pubblico, si può ritrovare un’intuizione annidata nel cervello chissà da quanto tempo, un’idea che magicamente si trasforma nel momento della lettura in un pensiero sublime e spiazzante.

La sua scrittura è una lama frattalica di luce, un flusso inarrestabile di tesi e controtesi, di ragionamenti collegati con fili più sottili di capelli, concatenazioni che si affidano al caso e si ricompongono in un puzzle di associazioni mentali che l’autore ha avuto nel momento stesso in cui muoveva la penna sul foglio. La sua sfilata di immaginari e percorsi interiori, attraverso tutti i suoi scritti, musiche e azioni, vanno molto al di là del lessico e del razionale, proprio come in un dipinto realizzato in modo impulsivo e istintivo, facendo sgocciolare i colori su una tela.

Nato a Baltimora nel 1945 con il nome di Peter Lamborn Wilson, si era interessato fin da giovane alla filosofia e all’islamismo e aveva stabilito contatti con la rete controculturale dei primi anni sessanta, conoscendo fra gli altri Timothy Leary. Disgustato dal clima di repressione che colpiva i movimenti rivoluzionari statunitensi a seguito dell’assassinio di Martin Luther King, era andato in India con l’intenzione di studiare il sufismo, passando il resto del tempo a fumare grasse cime di cannabis, come lui stesso ci disse quella volta che lo ospitammo a Milano per una serie di conferenze.

Dopo qualche anno in Pakistan, nel 1974 si era fermato in Iran traducendo in inglese diversi classici persiani e sufi. Allo scoppio della rivoluzione khomeinista era stato costretto a rimpatriare, trovando casa a New York con William Burroughs come coinquilino. In quel periodo aveva iniziato ad appassionarsi alle punkzine, così si era messo a scrivere pezzi come se fossero comunicati politici e psichedelici sotto lo pseudonimo di Hakim Bey, in uno stile letterario molto particolare a metà tra cut-up burroughsiani e collage punk. Grazie ai suoi contenuti esplosivi e rigorosamente no copyright, quei testi erano diventati molto popolari tra i giovani ribelli dell’epoca, infatti per qualche tempo si potevano leggere su volantini attacchinati per le strade dell’East Village di Manhattan. Fu quella la prima notizia su Hakim Bey che ci giunse nei nostri covi punk milanesi.

Quel linguaggio quasi subliminale e quella capacità di mischiare teorie, pensieri e informazioni come fossero un mazzo di carte da gioco è ancora presente ne La vendetta di Zarathustra. Da Plotinio e Giamblico al wabi delle tazze di tè, dalla differenza tra escapismo passivo e quello attivo, fino ad arrivare ai terrificanti incubi degni di Max Ernst o a Felix the Cat, ma non prima di averci portato lungo una spirale cerebrale con una disquisizione sulle tradizioni celtiche e celtoscettiche.

Dentro queste pagine ci si può perdere come un’Alice nella scrittura delle meraviglie, andare sulla luna, infilarsi in una fumeria d’oppio in Cina, danzare come un derviscio sotto l’influenza psicoverbale dell’esperienza globale dell’autore, vedere sprazzi di meravigliosa anarchia nel panorama nuvoloso del millennio, fare un viaggio senza ritorno con una massiccia dose di Lsd… Una porzione aliena ben cucinata con decine e decine di ingredienti misteriosi e sovversivi, una miscela esplosiva per qualsiasi cervello nutrito dalle utopie dell’undergound passate e presenti, a partire dal suo libro più importante e influente: T.A.Z.

Hakim Bey diceva di non aver inventato quel termine, aveva semplicemente notato che, all’epoca dei primi rave party di fine anni ottanta, i giovani realizzavano e rendevano possibili ampi spazi di libertà e in quel modo si allontanavano dalla farsa della società dello spettacolo e dal controllo del potere, almeno per brevi periodi di tempo. Il potere per lui era la somma tra capitale e stato, una macchina di distruzione di massa sempre attenta a sfruttare ogni aspetto della vita degli individui, sbranando chi non si mette in fila nelle cattedrali del consumo. Un mostro ben rappresentato in questi anni dalla diffusione dei social e da tutto ciò che lui definiva tecnopatocrazia, come una pistola puntata alla tempia ogni ora del giorno per ammazzare sul nascere lo spirito libero e contraddittorio della nostra umanità.

Attraverso l’esposizione di un progetto spazio-temporale tra storia, politica di movimento, filosofia, religione e sufismo, Bey proponeva un’azione di attacco sotterraneo, una controrete che chiamava tela, capace di installarsi laddove la voracità del potere lasciava delle bolle d’aria all’interno della stasi universale dell’immaginario. Una controrete autogenerata come tante ragnatele che si riproducono negli interstizi o nelle crepe dei muri, unite da una struttura non gerarchica e decentralizzata.

L’erosione di porzioni di territorio al nemico e la creazione di esperienze collettive contro l’ordinamento civilizzato erano alla base del suo studio: covi di pirati, quartieri liberati, comunità rurali, i comunardi di Parigi, le popolazioni native o quelle nomadi, i falansteri di Charles Fourier, le occupazioni e tutte le storie di movimento, ma anche i gruppi che si basano sul misticismo e sulla magia, tutto ciò che nasce e si riproduce “al di fuori della realtà dominante dell’oppressione e della noia”.

Una mappa di informazioni sulle leggi del caos, con continui rimandi a quelle che compaiono nel mondo delle comunicazioni: un rullo compressore di notizie su cataclismi ambientali, crisi politiche, guerre, virus… Per lui era necessario un processo caotico, alimentato dalla guerriglia hacker, per generare la controrete destinata poi a prosperare nel momento in cui la rete del potere cominciava a sgretolarsi fino a soccombere.

“È possibile hackerare il denaro?” “Ci sono ancora zone non mappate della terra in cui si può scappare per sfuggire ai padroni?” Come si può rispondere a tali domande? Ormai rapiti dalle sue turbolenze rivoluzionarie, a chi non viene voglia per davvero di trasferirsi in un’area remota insieme a centinaia di altri soci, rovesciare il governo locale, eleggere politici e giudici solidali, fondare una società per il mutuo beneficio e i piaceri estatici, in grado di sovvenzionarsi con l’hacking finance o la coltivazione di funghi allucinogeni… “Meglio godersela finché dura. So per certo che questo piano viene attuato in diversi luoghi in America, ma ovviamente non dirò dove.”

Il suo mix di utopie psichedeliche era sempre venato da una sorta di humour macabro: “La natura sta scomparendo, anzi forse è già scomparsa ed è stata rimpiazzata dai documentari sugli animali”, “Il progresso è reazione”, “La civiltà è i suoi nemici”.

Il concetto di terrorismo poetico, non violento nella pratica ma violentissimo nel linguaggio, colpiva persino i militanti del movimento, scagliandogli contro uno sciame di vespe per demolire la base etica di chi si proponeva come avanguardia.

Alle volte il suo flusso di critica radicale era intriso di provocazioni taglienti: “La rivoluzione del 1968 fallì per essere repressa dal capitalismo e dal comunismo, il suo gemello malvagio”. Oppure quando se la prendeva con l’icona pop di Che Guevara, criticando aspramente chi ancora si appiattiva nel culto di quel personaggio. E come dimenticare le polemiche sulla presupposta origine libertaria dell’impresa di D’Annunzio a Fiume che aveva fatto imbufalire molti circoli anarchici.

Coltivava inoltre un disprezzo totale per le nuove tecnologie portatili: “Un’intelligenza aliena in tasca per 200 euro, tutto su un piccolo schermo, il nostro specchio magico portatile. Siamo o no i più belli del reame?”, “Il dominio delle macchine impazzite, la tecnopatocrazia, ci permette di vivere tutti come zombie felici, mangiatori dei nostri stessi cervelli, consumatori dei nostri falsi Sé. Sotto il segno del Valore Universale, il denaro, la lunga e triste storia della coscienza vacilla verso una piagnucolosa conclusione”.

Proprio come le tele di Pollock che venivano inchiodate a terra, i suoi testi erano strettamente legati alla dura realtà di outsiders, diseredati e soprattutto dei dissidenti.

Bey si schiera continuamente su quelle barricate dove agli ideali di efficienza e profitto si preferiscono le sfere dell’emozione e della realizzazione di un’unità con la natura. Poveri e dissidenti che sebbene oppressi, sono meno repressi dei loro padroni: “Hanno i loro piaceri: il sesso, le droghe, le feste sfrenate e il caos. […] I nativi con le loro danze degli spiriti senza speranza, i contadini con le loro stupide ribellioni agrarie, sono davvero in qualche modo più in contatto con la “divina natura” di quanto lo sia la borghesia? Io dico di sì”.

Per chi ancora non ha avuto il piacere di soffiare via la nebbia viola che nasconde la bellezza della letteratura di Hakim Bey, consiglio di leggere come primo approccio il capitolo Odio i borghesi. Sono le pagine più deflagranti del libro. “L’unico Sé che ha valore è il Sé borghese.” Sono sputi d’inchiostro velenoso contro il presente, grumi di rabbia generati dal troppo osservare il fondo del precipizio in cui la nostra società è sprofondata: “[La coscienza malata della borghesia] si preoccupa solo del Sé, lo gestisce come fosse un portafoglio di investimenti ma lo teme come un Mr. Hyde”.

Fantastico.

In ultimo, dimenticavo di dirvi, quello che colpisce le nostre corde emotive più nascoste quando leggiamo pagine simili a quelle di Odio i borghesi, sono i suoi racconti autobiografici, qui esposti nella forma più semplice per dare risalto alla tenerezza che ti avvolge quando scorri le righe con gli occhi. E non si risparmia di certo con l’autocritica, cercando di mettersi a nudo per scovare l’inconscio borghese che si nasconde in lui come un fantasma. Una sincerità disarmante, alla quale debbono ora abdicare anche i suoi più accaniti detrattori, talmente tanti che è impossibile farne un elenco. Li potete incontrare ovunque, vi circondano. Dopo tanta bile e dopo tanto tribolare… Raggiunto il nirvana, Bey è capace di darti qualche dritta: “Riusciamo a immaginare un Sé più ‘primitivo’ e autentico, spontaneo, che agisce diret- tamente il desiderio eppure che desidera una vera communitas con gli altri, un Sé allo stesso tempo più libero e non-alienato?”.

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