AUTOSUFFICIENZA, SOVRANITA', AUTARCHIA
di Matteo Cazzato
Da qualche tempo tutte le lingue colte di Europa hanno un buon numero di voci comuni, massime in politica e in filosofia… tuttogiorno nella conversazione, fino nella conversazione o nel discorso meno colto… Non parlo poi delle voci pertinenti alle scienze, dove quasi tutta l’Europa conviene… questo vocabolario ch’io dico, è parte della lingua primaria e propria di tutte le nazioni, e serve all’uso quotidiano di tutte le lingue, e degli scrittori e parlatori di tutta l’Europa colta. Ora la massima parte di questo vocabolario universale manca affatto alla lingua italiana accettata e riconosciuta per classica e pura; e quello ch’è puro in tutta l’Europa, è impuro in Italia. Questo è voler veramente e consigliatamente metter l’Italia fuori di questo mondo e fuori di questo secolo. Tutto il mondo civile facendo oggi quasi una sola nazione, è naturale che le voci più importanti, ed esprimenti le cose che appartengono all’intima natura universale, sieno comuni, ed uniformi da per tutto, come è comune ed uniforme una lingua che tutta l’Europa adopera oggi più universalmente e frequentemente che mai in altro tempo, appunto per la detta ragione, cioè la lingua francese.. le scienze sono state sempre uguali dappertutto … Così sono oggi uguali (per necessità e per natura del tempo) le cognizioni metafisiche, filosofiche, politiche… Quindi è ben congruente, e conforme alla natura delle cose, che almeno la massima parte del vocabolario che serve a trattarle ed esprimerle, sia uniforme generalmente… siccome l’uso decide della purità e bontà delle parole e dei modi, io credo che quello ch’è buono e conveniente per tutte le lingue d’Europa, debba esserlo… anche per l’Italia… Si condannino (come e quanto ragion vuole) e si chiamino barbari i gallicismi, ma non (se così posso dire) gli europeismi, che non fu mai barbaro quello che fu proprio di tutto il mondo civile, e proprio per ragione appunto della civiltà, come l’uso di queste voci che deriva dalla stessa civiltà e dalla stessa scienza d’Europa…. Aggiungo che quando anche potessimo ritrovare nel nostro Vocabolario o nella nostra lingua, o formare da essa lingua altre parole che esprimessero le stesse idee, bene spesso faremmo male ad usarle perchè non saremmo intesi nè dagli stranieri, nè dagli stessi italiani, e quell’idea che desteremmo non sarebbe nè potrebbe mai esser precisa; e non otterremmo l’effetto dovuto e preciso di tali parole, che è quanto dire, le useremmo invano, o quasi come puri suoni. (26 giugno 1821)
Per li nostri pedanti il prender noi dal francese o dallo spagnuolo voci o frasi utili o necessarie, non è giustificato dall’esempio de’ latini classici che altrettanto faceano dal greco… Perocchè i nostri pedanti coll’universale dei dotti e degl’indotti tengono la lingua greca per madre della latina. Ma hanno a sapere ch’ella non fu madre della latina, ma sorella, nè più nè meno che la francese e la spagnuola sieno sorelle dell’italiana. Ben è vero che la greca letteratura e filosofia fu, non sorella, ma propria madre della letteratura e filosofia latina. Altrettanto però deve accadere alla filosofia italiana, e a quelle parti dell’italiana letteratura che dalla filosofia debbono dipendere o da essa attingere, per rispetto alla letteratura e filosofia francese. … sarebbe cosa, non solo inutile, ma stolta e dannosa, mettersi a bella posta lunghissimo tratto addietro degli altri in una medesima carriera, volersi collocare sul luogo delle mosse quando gli altri sono già corsi tanto spazio verso la meta, ricominciare quello che gli altri stanno perfezionando; e sarebbe anche impossibile, perchè nè i nazionali nè i forestieri c’intenderebbono se volessimo trattare in modo affatto nuovo le cose a tutti già note e familiari… e questo vano rinnovamento piuttosto ritarderebbe e impaccerebbe di quel che accelerasse e favorisse gli avanzamenti della filosofia, e letteratura moderna e filosofica… (18 agosto 1823)
Mi scuso per le due lunghe citazioni, ma volevo che le sparse considerazioni che seguiranno tenessero in sottofondo queste due lucide pagine di Leopardi. In tanti luoghi dello Zibaldone il poeta offre riflessioni linguistiche, e spesso emergono posizioni di questo tipo su quelli che oggi chiameremmo da una parte aspetti socio-culturali di una lingua, e dall’altra scelte di politica linguistica. Un idioma deve mantenere tutto il patrimonio e la bellezza della sua tradizione, soprattutto per la poesia, la cultura e il discorso storico, ma per quanto riguarda la società civile e le attività ad essa legate in modo più diretto, occorre saper guardare oltre, aprirsi e accogliere le novità, anche quando vengono dall’estero. Leopardi polemizzò sempre verso gli atteggiamenti puristi, sostenendo una lingua adattiva in grado di arricchirsi e mescolare a seconda delle circostanze diverse componenti.[1] Ci sono eccessi, quelli che al tempo si potevano chiamare – secondo l’abitudine greca – barbarismi, e che oggi sono prestiti affettati, sintomo di stupidità e mode immotivate. Questi vanno condannati ma secondo ragione, come specifica il poeta, e certo una multa non rispetta questo parametro. Poi ci sono altri casi in cui le parole straniere vanno accolte, e il criterio per valutare non può essere solo il tornaconto economico, per vendersi bene sul mercato, indice semmai di altrettanta stupida banalità. Pensiamo poi all’osservazione che viene proposta nel primo passaggio, sul rischio di isolare l’Italia in un mondo che è «quasi una sola nazione»: quanto è attuale oggi, nell’ottica europea e globale. E quanto appare problematico allora l’atteggiamento alla base di una proposta di legge come quella fatta nei mesi scorsi al Parlamento da esponenti di FdI.
Non voglio ricordare gli usi – anche ridicoli – di termini stranieri da parte della stessa maggioranza che propone di multare i forestierismi. Per questo sono sufficienti i video comici in rete. E non bastano certo le dichiarazioni del signor Rampelli circa l’utilità economica di dire “Made in Italy”, mentre in altri casi da lui stabiliti non è utile e non si deve usare terminologia straniera: questo è farsi le regole a proprio vantaggio, senza nessuna valida ragione. Tra l’altro, il fatto che gli stessi rappresentanti del governo in più occasioni si siano serviti di parole straniere, anche a sproposito, rende palese la contraddizione, mostra come quest’uso sia una realtà e bisogna prenderne atto. Quello che occorre fare è capire come gestirla, e interrogarsi in merito alla bontà di un disegno di legge a dir poco bizzarro. E lo sottolinea ancora di più l’incompetenza, fin dalle dichiarazioni fatte in aula dallo stesso Rampelli: «Per dispenser si intende dispensatore». Per poi ritornare con una precisazione su Twitter: «Alla Camera dei deputati italiana si parla #italiano. Prosegue la battaglia sull’utilizzo della nostra #lingua al posto dell’#inglese. Non si capisce perché il dispensatore di liquido igienizzante per le mani debba essere chiamato ‘dispenser’». Ora, è vero che il termine dispensatore riporta etimologicamente al valore base di “che dispensa”, e perciò potrebbe risultare applicabile a ogni cosa o persona che compie questa azione. Ma da tempo la linguistica riconosce nell’uso il criterio di validità, soprattutto in campo lessicografico, perciò evitiamo atteggiamenti conservativi fuori luogo. Ogni vocabolario al lemma dispensatore riporta i significati di “largitore, ordinatore, tesoriere o amministratore”, riferendosi dunque a persone, non a cose. Anche il vocabolario della Crusca, che dà la spiegazione “che dispensa”, negli esempi fa riferimento solo a persone. Per onestà bisogna dire che i vocabolari italiani al lemma dispenser – ormai acquisito – precisano il valore etimologico riferendosi al termine proprio dispensatore, nel valore di “che dispensa”. Ma è il valore etimologico per l’appunto, e il Devoto-Oli specifica che l’accostamento a dispensatore è valido prima del 1963.[2] Ho i miei dubbi sul fatto che il signor Rampelli abbia controllato tutti questi dati prima delle sue dichiarazioni, ma anche fosse, c’è un’ostinata visione passatista oltre che imprecisa, che non riconosce lo stesso mutamento linguistico e si rifiuta di dare importanza a l’uso come criterio-guida.[3] Se entrato in un edificio pubblico chiedessi «Scusi, c’è un dispensatore?», dubito che qualcuno mi capirebbe. Oltretutto la formula «dispensatore di liquido igienizzante» – col rifiuto anche di gel – è antieconomica nell’enunciazione, e in linguistica il principio di economia (miglior risultato funzionale nella comunicazione col minimo sforzo) resta fondamentale per l’evoluzione naturale delle lingue.[4] Ma in questa proposta di legge non c’è nulla di naturale. Il vero equivalente comunicativo del termine inglese potrebbe essere distributore (dispositivo che provvede alla distribuzione di fluido o di sostanze), e va benissimo se si sceglie di utilizzarlo.[5] Ma è anche vero che il lessico tende a specializzarsi, e se nell’uso comune il distributore è la macchinetta dove prendere snacks, caffé e altre bevande, dispenser per indicare un oggetto preciso e distinto non mi sembra così grave. Ma evidentemente la maggioranza di governo vuole intervenire – pur impreparata – anche se in parlamento dovrebbero occuparsi di problemi ben più rilevanti.
Gli articoli del disegno di legge, in modo non chiaro riguardo i singoli ambiti e le diverse sfumature di applicazione, impongono l’uso esclusivo della lingua italiana in tutta la sfera pubblica. Ma la nostra Costituzione tutela le minoranze linguistiche, e il territorio nazionale vede numerosi dialetti e anche altre lingue (ad esempio francese, tedesco, sloveno), per tradizione storica o vicinanza geografica ad altri stati, e tutte queste situazioni non possono vedere l’imposizione di una lingua sull’altra, in nessun senso. I parlanti di quelle aree spesso sono abituati ad una comunicazione nell’altra lingua, e se l’italiano deve sì essere presente, negli atti pubblici e nei documenti ufficiali anche l’altra lingua deve essere garantita alla pari per non creare difficoltà ai cittadini. E anche l’inglese, che pure non rientra nelle minoranze linguistiche della penisola, va garantito, soprattutto negli ambiti a carattere internazionale, per i bandi, altrimenti ci si isola con gravi conseguenze.
La normativa proposta recita in particolare all’art. 6: «Negli istituti scolastici di ogni ordine e grado e nelle università pubbliche italiane, le offerte formative che non sono specificamente rivolte all’apprendimento delle lingue straniere devono essere in lingua italiana».[6] Questo dettato non è chiaro perché non fa capire come la legge si regolerà in determinati contesti. Prendiamo i percorsi liceali con doppio titolo come l’Esabac: in questo caso gli studenti non hanno solo il corso di lingua straniera ma seguono anche altre due materie curriculari in lingua straniera. Questo percorso altamente formativo, espressione di un dialogo e una collaborazione interculturale, come dovrebbe essere gestito sulla base di questa nuova proposta? E ancora, nelle aule universitarie italiane non solo i corsi di lingua sono svolti – come naturale – nella lingua di studio, ma anche i corsi mirati all’apprendimento della letteratura e civiltà straniere in molti casi vengono tenuti nell’idioma relativo. Questo non capita all’estero e chi studia la storia della letteratura o la civiltà italiane segue quasi solo corsi tenuti nella sua lingua. Anche negli elaborati finali, nemmeno l’argomento scelto incide, e se in Italia si può scrivere la tesi in italiano ma anche in altre lingue, all’estero si è quasi sempre obbligati ad usare la lingua nazionale nel campo umanistico: anche chi fa un dottorato sulla letteratura italiana in un ateneo in Francia o Germania deve lavorare alla stesura in francese o tedesco, ed è controproducente l’imposizione. Si tratta di un valore aggiunto di molti nostri atenei, perché il percorso risulta più formativo per gli studenti: studiare in un’altra lingua consente di confrontarsi con forme di organizzazione del pensiero e del lavoro differenti. Come si regolerà su questi vari aspetti la legge secondo gli esponenti di FdI?
Senza considerare il fatto che l’apertura verso l’estero, la volontà di attrarre studenti e ricercatori in Italia per soggiorni o vere e proprie opportunità di lavoro, sono gli obbiettivi che dovremmo porci come sistema paese. Ma questa prospettiva si può attuare solo in condizioni comunicative favorevoli, con la disponibilità a far coesistere più lingue, e lo stesso discorso vale anche per altri settori economici e produttivi. Se uno straniero viene in Italia perché studia materie umanistiche è anche giusto pensare che conosca o sia interessato ad apprendere l’italiano, e nelle aule dove si insegna la letteratura italiana è fondamentale. Per materie come filosofia, letterature classiche e storia, l’italiano riveste un ruolo altrettanto importante, e la tradizione degli studi in lingua va valorizzata, ma la limitazione non dovrebbe essere così stringente. Chi studia all’estero queste materie non è tenuto a conoscere la lingua italiana, ma nel nostro paese potrebbe comunque trovare studiosi validissimi con cui collaborare. Le cose però diventano difficili se tutte le attività devono essere svolte solo in italiano. Se ci spostiamo nel campo medico e scientifico la circolazione di persone verrebbe ostacolata ancora di più da una scelta di questo tipo. Non si deve assolutamente perdere il patrimonio linguistico italiano in questi settori, sarebbe un danno irreparabile: un medico o un fisico devono saper comunicare i loro studi nella loro lingua, e quando ci sono manuali ben fatti in lingua italiana sarebbe sbagliato ignorarli. Ma spesso le conoscenze di queste materie sono veicolate dall’inglese oggi, come in passato dal latino, e non si può ignorare questo fatto. Il nostro paese dovrebbe puntare sulla ricerca, la formazione, mirare a diventare un polo internazionale per la cultura e gli studi medici e tecnologici, un polo in grado di attrarre persone dal fuori. Ma non si investe, e adesso la maggioranza manda segnali confusi, proprio perché su vari punti la norma proposta non dà informazioni dettagliate, e indica una direzione preoccupante.
Le lingue evolvono incessantemente e così i loro rapporti reciproci, in base a dinamiche socio-culturali che poco alla volta preparano il terreno per nuovi assetti comunicativi. Attualmente assistiamo ad una situazione che si è prodotta nell’arco dell’ultimo secolo, e che ha dato sulla base di certi fattori una posizione privilegiata all’inglese. In passato le cose erano diverse, e altre lingue hanno occupato quella posizione, in un certo periodo anche l’italiano. Ma forme di nostalgia nazionalistica sono fuori luogo, e non si può avere l’arroganza infondata di agire su questi fenomeni per legge. Tra l’altro, il mutamento è incessante e questo significa che in futuro le cose cambieranno ancora, in base a come evolverà il panorama geopolitico e culturale. Se vogliamo che l’italiano mantenga un suo ruolo importante e un uso vivo e attivo a livello sociale, da una parte bisogna evitare di far isterilire la lingua permettendole di innovarsi (e imposizioni restrittive di ogni tipo alla fine sarebbero più controproducenti che altro), dall’altra gli investimenti del paese devono mirare a fare dell’Italia un riferimento attrattivo e valido.
Accettare di lavorare anche in un’altra lingua, comunque, non significa rinunciare alla propria – è una paura assurda – perché le due strade possono proseguire in sinergia: nelle università ad esempio una soluzione potrebbe essere quella di avere in parallelo corsi in lingua italiana e corsi in lingue straniere, affinché l’offerta risulti più accattivante sia per chi da fuori vuole venire a studiare in Italia, sia per gli studenti italiani motivati a fare il loro percorso in un certo modo, con libertà di scelta.
Nessuno nega che ci sia un uso eccessivo e viziato di anglicismi in contesti dove non sarebbero necessari: sono dovuti a mode e impoverimento lessicale della cittadinanza. Ma di fatto la soluzione non è sanzionare gli usi linguistici, che per loro natura non sono disciplinabili a norma di legge. Questo governo sembra reagire alle parole straniere che entrano in contatto con la nostra lingua con lo stesso atteggiamento tenuto nel sostenere la presunta tesi della sostituzione etnica, e questo è grave. In Italia esiste un precedente storico ineludibile, tanto più se la maggioranza è legata a quel passato. Di fatto durante il ventennio la questione della lingua divenne un’altra faccia della questione della razza per i politici.[7] L’idea di multe per chi usa termini stranieri in determinati ambiti non è poi così distante dalle misure del tempo, come eliminazione di scene dei film in lingua straniera, sorveglianza, liste di parole proscritte e sostituzione forzata di termini. Ma per la lingua, come davanti ai migranti o ad altre situazioni, questo governo sembra vedere la prima e unica risposta nel creare nuovi reati per ciò che a loro non piace, inasprire pene, senza riflettere sui fenomeni e eventualmente cercare soluzioni più strutturali e complete.
La valorizzazione della lingua e la sua tutela contro gli eccessivi forestierismi sono operazioni giuste e meritorie, ma quando vengono portate avanti da chi è competente, senza fini politici. In Italia l’Accademia della Crusca svolge questo ruolo benissimo, attraverso la promozione e l’educazione. Questa è la strada giusta, senza rincorrere velleitarie ideologie puriste.[8]
D’altronde la Crusca ha definito ridicola la proposta di legge, che rischia di vanificare gli sforzi messi in campo per promuovere la lingua italiana contro l’eccesso di anglicismi immotivati.[9] Una multa come strumento di educazione linguistica e culturale è un’idea senza alcun fondamento pedagogico, oltre che di buon senso. La soluzione davanti all’eccessivo uso di parole straniere non è un divieto, anche perché se si usano parole straniere vuol dire che bene o male le persone stanno assimilando anche un’altra lingua, e ciò è un fatto sempre positivo. Poi, come scelgono di servirsene è un altro conto: ricorrere alla lingua straniera quando è utile, oppure stupidamente farne uno status symbol da sfoggiare per essere alla moda. Ma certo la stupidità non può diventare un reato, e quanto dico va anche a vantaggio di molti parlamentari. In ogni caso, come ha riconosciuto tempo fa l’attuale presidente della Crusca, «è meglio lasciare che la lingua vada da sola dove vuole, o meglio, dove la porta il consenso dei più, non foss’altro perché a guidare il dirigismo si candidano troppo sovente i più fanatici».[10]
La strada da percorrere è solo quella della scuola, incentivare la formazione di individui competenti e curiosi, dotati di spirito critico, e perciò consapevoli, perché da tutto ciò viene come conseguenza naturale una padronanza più solida della propria lingua, una maggior ricchezza di vocabolario, mentre una multa andrebbe solo a ridurlo, anche se in modo volontario e selettivo.
La strada educativa sembra però impossibile in un paese in cui non si ha alcuna intenzione di investire sull’università e la ricerca visto che negli ultimi dibattiti sul Pnrr si è detto che fra le ipotesi di tagli nell’attuazione ci sono anche i maggiori finanziamenti previsti per i dottorati, per disincentivare ancora di più i ragazzi nel percorso dello studio, il primo su cui il nostro paese dovrebbe mettere i soldi.[11] Ma questo governo sembra volere un paese di soli produttori e consumatori, tanto che l’ultima proposta è quella del liceo del “Made in Italy” (alla faccia della multa per forestierismo nella sfera pubblica!), una scuola orientata al turismo e al commercio per promuovere i prodotti italiani nel mondo (in un mondo ampio e vario quanta autoreferenzialità!). A detta della presidente del consiglio durante il Vinitaly, questo sarebbe il “vero liceo”. Ma se vogliamo valorizzare e promuovere la nostra lingua, dovremmo anche conoscerla bene. La parola liceo viene dal nome della scuola ateniese di Aristotele, dove i giovani studiavano la filosofia per ricoprire una funzione intellettuale, esercitare spirito critico sulla realtà, e questo nei licei di oggi si ottiene sulla base di una conoscenza approfondita della realtà culturale, a partire dal nostro passato come momento imprescindibile, incluso quello classico. Gli istituti tecnici e professionali sono importantissimi, scuole di grande valore sociale e umano – forse anche prima che economico –altamente formative, e non c’è nessuna graduatoria. Ma non sono licei, sono un’altra cosa e per questa loro diversità vanno valorizzati, a partire dalla terminologia. Le parole hanno il loro peso e il loro significato, evitiamo la confusione.
Una delle motivazioni addotte in seconda battuta per la proposta di legge è stato il diritto di comprensione da garantire nella gestione e nei servizi pubblici. Ma questa sembra più che altro una scusa, perché non sono certo le parole straniere il vero problema, quanto l’annosa questione del burocratese e del politichese, ossia la tendenza in ambito amministrativo e legislativo ad usare una lingua – in molti casi volutamente – confusa, contorta, oscura. Questo governo fin dai suoi primi atti ha fatto proposte di legge in cui lo stile è questo, con un’ambiguità forse cercata per poter impiegare la norma nel modo più comodo per il proprio interesse.[12] Prima di pensare all’effetto di qualche parola inglese negli atti pubblici occorre pensare agli altri problemi, perché paradossalmente in certi casi proprio quei forestierismi – semmai con l’ausilio di un vocabolario – potrebbero rivelarsi l’unico appiglio per la comprensione di un testo per il resto fumoso.[13]
Quando si parla di parole straniere usate nella propria lingua siamo davanti al fenomeno del prestito linguistico, che non riguarda solo il presente ma l’intera storia di una lingua.[14] Il vocabolario dell’italiano si è costruito su più componenti nel corso del tempo: lessico venuto direttamente dal latino, parole formate all’interno del sistema per derivazione o composizione, e infine i prestiti. La cosa interessante è che la distinzione non sempre è così semplice come si potrebbe pensare e «varie parole di origine latina sono entrate in italiano attraverso un’altra lingua».[15] Il vocabolario si costruisce per intrecci e contatti di culture, e ne reca testimonianza. In fenomeni di questo tipo intervenire per legge sarebbe stato ed è anche oggi un gesto insensato, che ignora programmaticamente la complessità culturale. Solo alcuni prestiti poi restano, perché altri forestierismi sono vere e proprie mode passeggere e dopo un po’ di tempo decadono da sé, e allora direi che una multa è una vera e propria esagerazione.
Per un attimo mettiamo da parte l’attualità, e guardiamo alla lingua in diacronia. I vari prestiti, oggi non più percepiti, inizialmente sono arrivati nella lingua come vere e proprie parole straniere, mantenendo anche la forma d’origine per un certo tempo. Poi alcuni hanno subito un processo di adattamento, la parola si è stabilizzata assumendo una forma grammaticale in linea con quella delle parole direttamente a base latina, altri invece non si sono adattati. E così sarà per i prestiti presenti e futuri, ma questo incide poco. Tante parole che oggi usiamo normalmente in realtà sono frutto di un prestito avvenuto durante l’evoluzione storica della lingua.
Così, per gioco, prendiamo alcune parole, anche di attualità oggi perché legate a questioni all’ordine del giorno, per fare qualche esempio.
C’è un grande parlare di normative in ambito alimentare per quanto riguarda i nuovi alimenti e la carne sintetica, in difesa della nostra tradizione culinaria: la bella bistecca che ci piace ordinare al ristorante è in realtà una parola tutta inglese, beef-steak, arrivata nell’Ottocento e adattata nella forma, ma altre parole nella lingua italiana indicavano e indicano una fetta di carne, costoletta (a derivazione latina, ma giunto in italiano per il tramite francese di cotelette) o il regionale e autoctono braciola.
La guerra ci accompagna da ormai un anno in modo ineludibile, e ogni giornale e telegiornale ne parla. L’italiano e tutte le lingue romanze hanno abbandonato, in seguito ai meccanismi innescati dalle invasioni germaniche medievali, il termine latino bellum, salvo recuperi dotti in forma di aggettivo, e si parla per l’appunto di guerra – cioè war – termine tutto straniero, dal germanico werra.
Se vogliamo considerare aspetti più belli e sempre presenti, prendiamo coraggio e gioia. La loro origine è latina certo, ma non arrivano in italiano da lì: entrano come prestiti durante il medioevo dal provenzale coratge e dal francese joie, quando l’italiano nella sua evoluzione autonoma avrebbe avuto solo core e gaudio.
Nel discutere le misure fiscali il problema costante è di chi evade, e dunque ruba soldi allo stato. Rubare in italiano viene etimologicamente dal germanico raubon.
Una parola diffusissima e semplice come ragazzo è stata ricondotta, dopo un dibattito complesso, alla voce araba raqqas, per indicare chi ha il compito di corriere o messaggero. E altri termini arabi che la nostra lingua ha preso in prestito sono quelli di alimenti che fanno parte della tradizione gastronomica nostrana, da difendere contro ogni attacco straniero (ma evidentemente è il frutto di contatti e incontri continui che si rispecchiano poi nella lingua): carciofo, melanzana, ma anche zucchero.[16]
Parole in uso nel gergo politico in vari contesti, come spia e derivati, alfiere o golpe, per fare alcuni esempi fra gli altri possibili, sono ormai parte del vocabolario della lingua italiana senza problemi, ma in realtà sono entrate come prestiti nel passato più o meno lontano, da germanico, arabo o spagnolo.
Tante altre parole appartengono in realtà ad altre lingue, e spesso come parlanti non ne siamo consapevoli, parole arabe, germaniche.
In tutti i casi che abbiamo visto e che si potrebbero vedere, la parola straniera non è entrata senza motivo ma a seguito di dinamiche storiche e culturali – a livello alto o basso – che iniziano ad agire nella società, introducendo nuove realtà o nuove prospettive su realtà già presenti, apporti culturali che si sono poi depositati nella lingua, oltre che in usi e abitudini. In molti casi sono termini entrati già nel latino durante il Medioevo, e certo venivano considerati al tempo elementi barbari rispetto ad una purità presunta (e irreale, il latino aveva parole provenienti da altri sostrati). Ma senza questi contatti non ci sarebbero neanche le lingue romanze, e l’italiano. Le innovazioni prodotte da mutamenti e prestiti non possono assolutamente esser demonizzate, sono normali dinamiche storiche, sempre in atto. La maggioranza parlamentare non ha proposto un’‘epurazione’ retroattiva del vocabolario per tornare a fantomatiche e inesistenti origini, questo sarebbe un livello di follia inimmaginabile. Il problema è che l’atteggiamento mostrato in sede normativa è discutibile, proprio perché – con buona pace dei nostri politici – non si riconosce che ogni lingua è un organismo evolutivo, non conservativo, e acquisisce anche materiali stranieri.
È innegabile, oggi ci sono molti anglicismi diffusi: dalla politica all’economia, nell’ottica globale il vocabolario sta accogliendo sempre più espressioni inglesi; in diversi settori scientifici la letteratura è sempre più in lingua inglese; nella vita quotidiana compaiono espressioni come day hospital, talk show o week-end. Personalmente non parlo mai di talk show ma non per un fastidio linguistico, semplicemente perché non ho alcun interesse per i salotti televisivi e le loro conversazioni. Cerco sempre di dire fine settimana, perché non sento il bisogno di usare l’espressione inglese, ma ci sono altre situazioni in cui non faccio lo stesso. Alla fine la scelta spetta al singolo, e se ci saranno persone che ricorreranno a sproposito ai forestierismi, ci saranno anche altri che avranno un atteggiamento di maggior equilibrio, ed è questo l’obbiettivo a cui mirare, nella vita privata come nel pubblico. Ad esempio negli articoli accademici, è giusto che i risultati del proprio studio siano in alcuni casi anche in lingua straniera, per ampliarne la diffusione, ma non bisogna smettere di valorizzare la ricerca nella nostra lingua, e allora occorre solo che ci sia misura. Quello che gli atenei potrebbero fare è fornire linee guida, indicazioni di massima, ma la questione in nessun campo può essere gestita per imposizione.
Una parola che oggi sta entrando nella nostra quotidianità come straniera, fra un secolo potrebbe essere parte effettiva dell’italiano, potrebbe anche venir stabilizzata nel suo aspetto morfologico, e arricchirà la lingua, come è già successo in passato. Non possiamo saperlo e non avrebbe senso arrestare possibili sviluppi. I prestiti passeggeri, dovuti a mode e stupidità, saranno usati il tempo che dureranno, poi scompariranno da soli. Non va punito, occorre semmai promuovere la scuola per contrastare l’impoverimento culturale. Ma il prestito non va visto come un elemento negativo, rappresenta invece una possibilità di arricchimento, e occorre cautela nel gestire la presenza di forestierismi nella comunicazione dei parlanti. Le politiche linguistiche dovrebbero solo promuovere l’abitudine all’equilibrio fra le diverse componenti del vocabolario. La parola straniera non deve andare a sostituire qualcosa, ma affiancarsi al patrimonio già a disposizione della lingua, ampliare il vocabolario nella sinergia di più scelte possibili scelte. Forme di interventismo arbitrarie e incompetenti potrebbero in realtà rivelarsi dannose. Il processo deve essere solo monitorato, e la cosa più importante resta la formazione, e dunque la scuola e la divulgazione rivolta alla società, senza leggi strampalate. Il governo pensasse a investire di più in questi settori
Concludo ritornando al pensiero leopardiano, nella convinzione che «il posseder più lingue dona una certa maggior facilità e chiarezza di pensare seco stesso», perché «nessuna lingua ha forse tante parole e modi da corrispondere ed esprimere tutti gl’infiniti particolari del pensiero», e allora «trovata la parola in qualunque lingua, siccome ne sappiamo il significato chiaro e già noto per l’uso altrui, così la nostra idea ne prende chiarezza e stabilità e consistenza e ci rimane ben definita e fissa nella mente, e ben determinata e circoscritta». Tant’è che il poeta riconosce la sua stessa abitudine, a ricorrere nello stesso scritto in lingua italiana a parole straniere di varie lingue perché «rispondevano più precisamente alla cosa». Se arrivano parole dall’estero è perché l’estero offre modelli per fenomeni e processi di grande impatto – pur se con dei difetti alle volte – nelle vite quotidiane di tutti. Preservare un’illusoria purezza e isolarsi è un’idiozia, bisogna guardare alle novità e su quei materiali costruire qualcosa di nuovo, formando prima lo spirito critico delle persone. Allora l’Italia diventerà modello per la nascita di nuove spinte culturali e tecnologiche, e si aprirà un nuovo ciclo: invece di concentrarci su come ostacolare l’ingresso di parole straniere, confrontiamoci con le altre realtà culturali e linguistiche e al tempo stesso cerchiamo di impegnarci per tornare a dare anche noi in prestito parole ad altre lingue, in ogni settore, come già è accaduto in passato.
[1] Per ogni aspetto della riflessione linguistica di Leopardi resta fondamentale punto di riferimento Stefano Gensini, Linguistica leopardiana, Bologna, Il Mulino, 1984. L’edizione usata per lo Zibaldone è quella uscita per Donzelli nel 2014 a cura di Fabiana Cacciapuoti.
[2] Il termine dispensatore deriva dal verbo dispensare con l’aggiunta del suffisso -tore, che ha valore agentivante, cioè indica l’agente, la persona che compie l’azione espressa dal verbo iniziale, come amatore banditore o calciatore.
[3] D’altronde non solo nella lingua, in ogni ambito questa maggioranza sembra rifiutarsi di guardare la realtà e gli usi in atto, di farci i conti (nel negativo e nel positivo), per inseguire il pericoloso mito di una tradizione da salvaguardare ad ogni costo e contro tutto.
[4] Rimando alla voce relativa nel Dizionario di linguistica e di filologia, metrica, retorica, diretto da G. L. Beccaria, Torino, Einaudi, 2004. Forse i nostri politici, se vogliono parlare di lingua e cultura, più che pensare a fuorvianti principi dell’economia di mercato, dovrebbero pensare agli studi sull’economia comunicativa.
[5] I dizionari inglesi alla voce dispenser danno traduzioni per i due significati: se si parla di persona dispensatore, ma se si parla di oggetti contenitore, distributore, dosatore. Per l’inglese abbiamo fatto riferimento al dizionario Ragazzini edito da Zanichelli, per l’italiano abbiamo usato quello Treccani, disponibile online, e poi il Devoto-Oli e l’etimologico Cortelazzo-Zolli.
[6] Per il testo completo del disegno di legge si rimanda a https://www.orizzontescuola.it/multa-per-chi-usa-parole-non-italiane-rampelli-ce-la-ricerca-spasmodica-per-fare-i-fighetti-con-le-parole-straniere-nelle-pa-non-si-deve-escludere-nessuno-dalla-comprensione/.
[7] G. Klein, La politica linguistica del Fascismo, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 122.
[8] In altri paesi europei le cose non stanno così, e penso all’Academie Française che ha sempre portato avanti una politica di nazionalismo linguistico sul mito della grandeur, eccessiva e ingiustificata nel rifiutare anche termini delle nuove tecnologie digitali provenienti dal mondo anglosassone e sostituendoli con parole autoctone. È un totale rifiuto di prestiti che si basa su un sentimento di orgoglio linguistico in contrasto con la naturale evoluzione delle lingue.
[9] Si fa riferimento all’intervista rilasciata da Claudio Marazzini ad AdnKronos, https://www.adnkronos.com/lingua-italiana-la-crusca-multare-chi-usa-parole-straniere-ridicolo_5QkP7DMdlY4y5oVmJqCnfz.
[10] C. Marazzini, La lingua italiana. Profilo storico, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 430-431.
[11] Facciamo riferimento a quanto riportato da Repubblica il 4 aprile.
[12] Si veda la norma anti-rave, così fumosa da suscitare preoccupazioni per i reali limiti di applicazione.
[13] Altro discorso è quello relativo alle sigle, ma indipendentemente dalla lingua il problema è la loro proliferazione eccessiva. Ma pensiamo ad alcuni esempi di grande diffusione. NATO rispetta la lingua d’origine, ed è a tutti comprensibile. Se dovessimo convertirla all’italiano verrebbe OTAN, come hanno fatto in francese e spagnolo, ma non mi sembra necessario. AIDS è ormai ben nota, e l’alternativa SIDA, pur proposta, non ha preso piede, così come nel caso di DNA e ADN. La difficoltà delle sigle non risiede nella lingua di riferimento, perché anche SIDA e ADN risultano poco chiare. Ciò che fa la differenza è la disponibilità da parte dei mezzi di comunicazione a fornire una spiegazione.
[14] È molto chiara la definizione data nel Dizionario di linguistica. Utile anche il capitolo dedicato al lessico in P. D’Achille, L’italiano contemporaneo, Bologna, Il Mulino, 2010.
[15] P. D’Achille, cit., p. 73.
[16] Si rimanda ai volumi già menzionati per trovare molti altri esempi, e si invita come esperimento curioso a consultare in autonomia un dizionario etimologico, per scoprire in base ai propri interessi le varie parole che in realtà nella nostra lingua sono prestiti.
Articolo ripreso da https://www.leparoleelecose.it/?p=46817
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