Vivere nell’attenzione
Uno dei punti di forza della scuola di Barbiana è stato vivere nell’attenzione attraverso il lunghissimo tempo dedicato alla ricerca comune e all’apprendimento. Cinquant’anni dopo scopriamo che ci sono città del sud e periferie in molte regioni nelle quali più della metà dei bambini e delle bambine non ha il tempo pieno e dove la dispersione scolastica supera il 30%. “Non è certo un caso – scrive Franco Lorenzoni – che nei territori maggiormente segnati dalla povertà educativa da alcuni anni si stiano sperimentando alleanze e patti tra diversi soggetti del volontariato educativo, degli enti locali e delle associazioni del terzo settore in grado di sostenere la scuola prolungando e ampliando l’offerta formativa oltre l’orario e oltre i muri della scuola…”
«Ho detto una volta che Barbiana era una realtà particolare. Ora mi vien fatto di dire che lassù si viveva nell’attenzione. (…) Le case erano lontane una dall’altra. La strada si arrampicava nella solitudine. Vivendo lassù, invece, si sapeva che era “una solitudine abitata” e chi l’abitava non era distratto, ma attento. E il più attento di tutti era il Priore di Barbiana». Parto da questa testimonianza di Adele Corradi perché l’attenzione è la qualità del lavoro di Lorenzo Milani che sarebbe importante ispirasse tutti noi che operiamo in campo educativo.
Non perdere nessuno
“La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde”. Basterebbe questa frase, accompagnata dalle documentate statistiche raccolte dai ragazzi di montagna a cui fece scuola per tredici anni don Lorenzo Milani, per comprendere che Barbiana non fu solo un luogo particolarissimo dove si faceva scuola 365 giorni l’anno, ma anche uno spazio collettivo di elaborazione culturale che ha ancora molto da dire a chi creda in una scuola all’altezza della nostra Costituzione.
Ancora oggi il 14 per cento di ragazze e ragazzi non terminano la scuola dell’obbligo e questo numero raddoppia per i figli delle famiglie immigrate. Ci sono città del sud e periferie in molte regioni dove la dispersione scolastica supera il 30 per cento. A un ragazzo su tre è dunque negata una istruzione di base perché possa esercitare con piena consapevolezza e strumenti adeguati i suoi diritti di cittadinanza. Piero Calamandrei sosteneva che la scuola è il luogo dove si compie il miracolo di trasformare i sudditi in cittadini. Negli anni Sessanta del secolo scorso un prete ha mostrato che non si tratta di un miracolo, ma di un duro lavoro quotidiano che richiede impegno e dedizione, determinazione e coerenza.
Può essere dunque importante tornare alla lezione di Don Milani a cento anni dalla sua nascita, perché ci sono azioni che intraprese, che ancora oggi ci aiutano a comprendere alcuni compiti a cui non ci possiamo sottrarre.
“I veri uomini che anticipano il futuro non sono i retori, i demagoghi, gli scrittori, gli oratori che dalla cattedra si abbandonano a fantasie, ma sono i manovali della storia, che dall’interno delle fatiche del vivere quotidiano portano un segno che si rivelerà fecondo di futuro”, ha scritto Ernesto Balducci, affermando che “Don Milani era un uomo di questo tipo”.
Manovale della storia
Se vogliamo provare ad avvicinarci al pensiero e alle opere di questo particolarissimo manovale della storia dobbiamo partire da ciò che lo colpì fin dal suo arrivo nella parrocchia di San Donato a Calenzano nel 1947, e cioè dall’impossibilità di predicare il Vangelo senza aver prima creato le condizioni per un ascolto pieno e consapevole di quelle parole.
In una lettera a Enzo Ichino del maggio 1959 Lorenzo Milani scrive:
“Quando la scuola avrà riportato alla luce quel volto umano e quella immagine divina che oggi è seppellita sotto secoli di chiusura ermetica, quando saranno miei fratelli non per un retorico senso di solidarietà umana, ma per una reale comunanza di interessi e di linguaggio, allora smetterò di far scuola e darò loro solo Dottrina e Sacramenti. Per ora questa attività direttamente sacerdotale mi è preclusa dall’abisso di dislivello umano e perciò non mi sento parroco che nel far scuola” (1).
L’idea che una vera fraternità si possa costruire solo condividendo una ricerca profonda intorno alle parole e a una intensa e prolungata costruzione comune di un linguaggio capace di sostenere pensieri che si interrogano accompagna tutta la pratica educativa di Lorenzo Milani.
A proposito di Esperienze pastorali, il libro messo all’indice dalla curia fiorentina che gli costò l’esilio a Barbiana imposto dal cardinale Florit, scrive:
“Devo tutto quello che so ai giovani operai e contadini cui ho fatto scuola. Quello che loro credevano di aver imparato da me, son io che l’ho imparato da loro. Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi mentre loro mi hanno insegnato a vivere. Son loro che mi hanno avviato a pensare le cose che sono scritte in questo libro”.
Con la chiarezza che caratterizza ogni suo scritto don Milani assume la reciprocità come fondamento dell’esperienza educativa, convinto che “ogni anima è un universo di dignità infinita” ed è “da questo riconoscimento che bisogna partire”.
Si delineano così alcuni elementi che noi, oggi, siamo tenuti a tenere in gran conto: la reciprocità tra chi insegna e chi apprende come fondamento di una scuola attiva e una ricerca espressiva di gruppo come pratica quotidiana in grado di dare la parola a ciascuno migliorando la capacità di pensiero e di scrittura di tutti.
Nel ricostruire il metodo seguito a Barbiana per la stesura di Lettera a una professoressa, anni dopo Adele Corradi, scriverà: “Lo stile mi pare proprio che glielo abbiano dato i ragazzi. Ma certo nessuno di loro avrebbe saputo scrivere in quel modo senza l’aiuto degli altri. E anche a don Lorenzo non gli sarebbero certo nate in testa tante idee senza parlare con i ragazzi, senza ascoltarli, senza confessarli, senza discutere con loro […]. Per questo è giusto che di quegli otto che per nove mesi, tutte le mattine, hanno lavorato a quel libro, non si sappiano i nomi. (2) È importante ricordare che il metodo della scrittura collettiva don Milani lo aveva appreso da Mario Lodi, maestro elementare del Movimento di Cooperazione Educativa che si recò a Barbiana nell’estate del 1963, con cui il Priore scambiò lettere di grande rilievo pedagogico (3). Quell’incontro e l’assunzione di quel metodo di lavoro cooperativo, quella tecnica piccina – come viene definito nella Lettera – rese possibile, nell’Italia del boom economico, l’elaborazione di una scrittura nitida e dirompente che si fondava su un incontro generativo tra due culture che nulla avevano in comune: la millenaria cultura materiale dei contadini di montagna, in quegli anni già in via d’estinzione, e la vasta cultura borghese e cosmopolita, di radice ebraica, incarnata da Lorenzo Milani, figlio di un ricco possidente fiorentino. Quell’incontro tra figli di analfabeti e un cultore quasi maniacale della parola precisa, capace di indagare e denunciare i mali del mondo, ha portato alla creazione di un testo straordinariamente efficace che divenne, anche grazie alle rivolte studentesche del ’68, il più letto e discusso manifesto contro la scuola di classe in diversi paesi europei.
Ciò che stava più a cuore al Priore di Barbiana, nelle quattro settimane che separarono l’uscita della Lettera dalla sua morte, fu che fosse riconosciuta come un’opera collettiva perché tutti potessero riconoscere che, in questo caso, il mezzo era davvero il messaggio. O meglio, il modo in cui era stato forgiato il mezzo era il messaggio (4).
Un tempo lungo per colmare le distanze culturali
Il segreto della scuola di Barbiana, oltre alla straordinaria dedizione del suo creatore, stava nel lunghissimo tempo dedicato alla ricerca comune e all’apprendimento.
Per arrivare a conquistare parole comprese pienamente, parole che dialogano e che ricercano c’è bisogno di tempo, molto tempo. E poiché al Priore era ben chiaro che solo una ricchezza di linguaggio poteva fondare su basi solide l’autonomia di pensiero dei suoi ragazzi ecco che la questione del tempo si presenta come elemento imprescindibile per contrasto ogni forma di discriminazione.
“Vediamo a chi giova che la scuola sia poca. Settecentoquaranta ore l’anno sono due ore al giorno. Nelle famiglie privilegiate sono quattordici ore di assistenza culturale di ogni genitore. Per i contadini sono quattordici ore di solitudine e silenzio a diventare sempre più timidi. Per i figlioli degli operai sono quattordici ore alla scuola dei persuasori occulti (nota. La pubblicità si chiama persuasione occulta quando convince i poveri che cose non necessarie siano necessarie). Un milione e 31.000 respinti l’anno. È un vocabolo tecnico di quella che voi chiamate scuola. Ma è anche un vocabolo di scienza militare. Respingerli prima che afferrino le leve. Non per nulla gli esami sono di origine prussiana”.
In teoria, già con l’introduzione della scuola media unica nel 1962, il tempo della scuola avrebbe dovuto essere aumentato. A questo proposito nella Lettera a una professoressa si rileva che
“c’è un filo di speranza nell’articolo tre. Istituisce un doposcuola di almeno dieci ore settimanali. Subito, lo stesso articolo vi offre la scappatoia per non farlo: il doposcuola verrà attuato “previo accertamento delle possibilità locali…”.
La dannazione italiana delle riforme lasciate a metà viene qui intuita e denunciata perché l’introduzione per legge del tempo pieno nella scuola elementare dal 1971 produrrà disparità mai sanate. Nelle città industriali del nord, infatti, si diffusero rapidamente le scuole a tempo pieno, che spesso divennero luoghi di sperimentazioni innovative. Ma poiché la legge prevedeva, assai ingiustamente, che l’opzione del prolungamento dell’orario fosse a discrezione delle scuole e dei Comuni, si è arrivati al paradosso per il quale oggi assistiamo a una assurda e ingiusta disparità per la quale i nevecentomila studenti che usufruiscono del tempo pieno sono così distribuiti: il 58 per cento frequenta le scuole del nord, il 26 per cento quelle del centro e solo il 15 per cento quelle del sud e delle isole, cioè delle regioni in cui ci sarebbe maggior bisogno di istruzione.
Non è certo possibile immaginare una scuola totale come quella realizzata da don Milani, ma se siamo consapevoli di quanto tempo sia necessario per affinare l’uso del linguaggio e dare la parola davvero a tutte e tutti, dobbiamo impegnarci a scoprire e sperimentare le forme che oggi può assumere una educazione democratica diffusa senza esclusioni all’altezza delle sfide dell’oggi. Non è certo un caso che nei territori maggiormente segnati dalla povertà educativa da alcuni anni si stiano sperimentando alleanze e patti tra diversi soggetti del volontariato educativo, degli enti locali e delle associazioni del terzo settore in grado di sostenere la scuola prolungando e ampliano l’offerta formativa oltre l’orario e oltre i muri della scuola.
Eduecare alla disobbedienza
Un’ultima ragione per tornare all’esperienza di Barbiana è forse la più necessaria e dimenticata. Riguarda il rapporto con la legge e dunque con la storia. Sulla necessità di educare alla disobbedienza, don Milani usa parole inequivocabili nella Lettera ai giudici:
“Non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate. (…) E quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede. (…) Questa tecnica di amore costruttivo per la legge l’ho imparata insieme ai ragazzi mentre leggevamo il Critone, l’Apologia di Socrate, la vita del Signore nei quattro Vangeli, l’autobiografia di Gandhi, le lettere del pilota di Hiroshima. Vite di uomini che son venuti tragicamente in contrasto con l’ordinamento vigente al loro tempo non per scardinarlo, ma per renderlo migliore”.
Lorenzo Milani fu accusato e condannato e per arrivare alla legge che permise l’obiezione di coscienza al servizio militare ci vollero anni. Ma quella conquista la dobbiamo a lui e a testimoni persuasi come lui. È figlia di un maestro capace di insegnare con l’esempio ad avere coraggio, convinto che i ragazzi “bisogna che si sentano ognuno responsabile di tutto”.
Sentirsi responsabili di tutto è l’eredità di Barbiana più difficile da raccogliere. In un tempo in cui è venuta meno l’adesione di massa a grandi organizzazioni collettive, torna con forza la necessità di educare alla responsabilità, sapendo compiere scelte coerenti riguardo al futuro del pianeta e alla convivenza tra gli esseri umani. Ci sono una grande quantità di leggi ingiuste che perpetuano disuguaglianze e discriminazioni di fronte alle quali, per dare spazio a una società più aperta, abbiamo bisogno del coraggio di testimoni capaci di ribellioni all’ingiustizia concrete e puntuali.
Note
1 Vanessa Roghi, La lettera sovversiva (Laterza, 2017); 2 Adele Corradi, Non so se Don Lorenzo (Feltrinelli, 2012); 3 Cosetta Lodi, Francesco Tonucci, L’arte dello scrivere (Casa delle Arti e del gioco – Mario Lodi, 2017); 4 Franco Lorenzoni, Educare controvento (Sellerio, 2023)
Articolo uscito sul quindicinale “LA ROCCA” della Cittadella di Assisia cento anni dalla nascita di Lorenzo Milani
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APPUNTAMENTI Lunedì 29 maggio, dalle ore 17 alla Scuola Simonetta Salacone di Roma (via Francesco Ferraironi), Franco Lorenzoni dialoga con MCE Roma, MaTeMu/CIES, studenti, insegnanti, docenti di CPIA 1 e genitori intorno ai difficili compiti che attendono la scuola e l’intera comunità educante.
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