martedì 30
maggio 2023
Astolfo
“Da Paese di risparmiatori siamo diventati un Paese di indebitati”, è
osservazione marginale di Antonella Sciarrone Alibrandi, docente alla Cattolica
di Milano di Diritto dell’Economia, a pranzo con un intervistatore. E invece
no, non marginale. È il segno del mutamento profondo dell’Italia negli ultimi
quarant’anni, uno dei segni.
Dei tre miracoli economici del dopoguerra, dei tre paesi sconfitti, l’Italia
condivideva col Giappone il record mondiale del risparmio tra la varie forme di
distribuzione del reddito. In una con gli assetti familiari, monogamici, anche
contro le evidenze di fatto, comunque improntati alla continuità. A differenza
della Germania, dove il consumo prevaleva sul risparmio. Ora l’italiano – anche
l’italiano – è in mano alle banche, tra fondi comuni, fondi pensione
e polizze vita che sarebbero da codice penale, e assicurazioni che non
assicurano nulla - non valgono al bisogno, servono solo a salvare il posto di
lavoro ai residui impiegati di banca, che altrimenti lo perderebbero. Cioè è,
progressivamente certo, poco per volta, senza farsi accorgere, derubato
legalmente.
L’univa forma di risparmio è tenersi liquidi – tenere i soldi “sotto il
materasso”. È sciocco, ma è vero.
Le banche non remunerano più i depositi. E in qualche modo, più o meno
surrettiziamente, li tassano. Un conto ad attività medio bassa, da pensionato,
paga ogni anno un migliaio di euro: 900 alla banca, per servizi ordinariamente
in automatico, e 100 allo Stato per bolli. Si pagano alla banca (prelievi,
bonifici, incassi, compravendite di titoli): 140 euro per il conto corrente, 60
per la carta di credito (40 per l’emissione, 24 per gli addebiti mensili), 40
per i servizi di investimento, 400 per la gestione del deposito titoli, 250 per
gli incassi per conto del cliente. Bonifici e bancomat a un costo hanno
sostituito gli assegni che invece erano gratuiti, e non sono nemmeno tanto più
pratici. Si paga per niente, un addebito o un accredito costa sempre uno e due
euro.
Nel recente rialzo dei tassi primari il fatto è di evidenza sconcertante: pochi
centesimi ai correntisti, contro un tasso medo sui prestiti al 4 per cento – di
fatto all’8-12. E senza alternative: il risparmiatore italiano, contrariamente
alla vulgata, pigramente diffusa dai giornali, è il meno invischiato tra i
“capitalisti europei in fuga”, in Svizzera, negli Usa, nelle varie isole ma
opportunamente indolori. Le tensioni di metà marzo, che hanno registrato in
tutta Europa fughe in massa dei grandi depositi verso la Svizzera e gli Usa,
sono stati irrilevanti in Italia - malgrado la minima, o nessuna,
remunerazione. Il piccolo calo dei depositi tra marzo e aprile si calcola che
sia andato sui Btp, le cui emissioni si sono intensificate nel periodo, pari a
un decimo delle emissioni totali in cantiere al Tesoro nel 2023.
È l’effetto nefasto della banca universale, che nell’ondata di regolamentazioni
anglosassoni che ci ha seppelliti a fine Novecento (privatizzazioni,
liberalizzazioni, e appunto la banca universale) è arrivata in fretta
all’annientamento del risparmio. Non più casse di risparmio, popolari, rurali.
Risparmio non remunerato, in nessuna forma. Con rendimenti, se in obbligazioni,
al di sotto dell’inflazione. Di quella nominale ma già prima e di più di quella
reale – che non con i sistemi di rilevazione adottarti in parallelo è
costituzionalmente sottostimata.
Il credito approssima di fatto, anche quando legalmente si tiene al disotto,
l’usura, è costosissimo, tra interessi e spese. Sempre a fronte della nessuna
remunerazione del risparmio, e anzi delle pratiche tese a sottrarlo.
I redditi da capitale sono tassati al 21-26 per cento. Già questo è uno
scoraggiamento ad accumulare. Col ridicolo che la vincita al lotto è esentasse,
l’investimento in titoli è tassato al dividendo, e tassato al valore aggiunto
seppure di Borsa, e paga bolli in continuo, come una colpa.
L’immobiliare è ancora relativamente protetto dal vecchio catasto. Ma la casa è
da tempo nel mirino di un fisco perennemente indebitato, per una spesa pubblica
sempre più gonfia e sempre meno produttiva – basta vedere come sono praticati e
quanto sono pagati gli appalti pubblici. Tra Imu, Tari, Tasi, redditi
dominicali.
Peggio va la casa, il bene degli italiani – l’investimento di tutti, il
risparmio, anche dei poveri. L’82 per cento degli italiani possiede la casa in
proprio, poteva vantare Andreotti in uno dei suoi tanti governi attorno al
1980, confortato dal “Reddito delle famiglie”, l’annuario statistico della
Banca d’Italia. Oggi il 70 per cento possiede l’immobile in cui vive. Le quotazioni
del settore sono scese del 20 per cento tra il 2010 e il 2022. E solo il 28 per
cento ha anche altre case.
La contrazione è l’effetto delle tre “ultime tre recessioni” che la
Banca d’Italia rileva nei “Bilanci delle famiglie”, la crisi bancaria, quella
del debito, e quella del covid. “Nel 2020 il
reddito medio delle famiglie italiane a prezzi costanti e corretto per
confrontare tra loro nuclei familiari di diversa composizione, era più alto del
3,7 per cento di quello del 2016, ultimo dato disponibile, ma ancora inferiore
di quasi 8 punti percentuali rispetto al picco raggiunto nel 2006, prima delle
ultime tre recessioni che hanno colpito l'economia italiana”. Ma, di
più, anche se la Banca d’Italia non lo rileva, il reddito disponibile,
risparmio compreso, arranca per via della tassazione, che il governo Amato nel
1992 e il governo Monti dodici anni fa hanno dispensato sulle case, seconde e
anche prima.
Sulla prima casa i governi successivi hanno rimediato. Quella delle “seconde
case” è invece una storia a parte. Sono in larghissima maggioranza non il
casale in Umbria o in Toscana, o in Lomellina o in Brianza, sulla Riviera o
sulla Costiera. Sono le case familiari di origine, che gli italiani, pur
emigrando volentieri, non hanno abbandonato. Sempre nel quadro di una cultura
della durata: della famiglia, della continuità, del risparmio. Tutt’oggi,
ancora, il 55 per cento delle famiglie con reddito da primo quintile, quello da
minore condizione economica, possiede la casa di abitazione. La statistica non
c’è, ma lo stesso quintile ha anche la “seconda casa”, quella di origine,
magari solo un rudere.
È una continuità che fa l’immagine, e anche la maniera di essere, dell’Italia
rispetto ad altre culture, anche europee, anche prossime: la continuità del
paesaggio, degli insediamenti, della storia. Il radicamento, la stabilità,
anche nell’emigrazione. Molte sono ogni anno in abbondanza crescente
abbandonate, per i carichi fiscali che il governo Amato ha imposto e il governo
Monti ha triplicato. Disfarsene è impossibile, non c’è mercato, ma
disappropriarsene diventa un obbligo.
Col risparmio, anche il paesaggio e la storia vengono disfatte. Per quale buon
esito?
Non solo il paesaggio, la società cambia: non più figli, pet in
cambio. E il modo di vivere: si vive per sé stessi, per un arco di tempo
comunque breve. Cambia la coppia, cambia la psicologia. La demografia cambia,
dove ancora si procrea: già la famiglia “cinese”, la coppia con un solo figlio,
dopo due generazioni è isolata. Il risparmio perde la funzione generazionale –
“pensare ai figli” (con la casa, certo, la casa di famiglia, dei genitori, dei
nonni). Ma la deriva non è inevitabile. Se la stabilità non è più a premio e si
vive nell’instabilità stabile, questo è il peggio di tutto: non è uno sviluppo
accrescitivo ma diminutivo – è il consumo fatto vita.
Pubblicato
da Giuseppe Leuzzi
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