IL POETA DELLE CENERI.
Da Le ceneri di Gramsci (1957) al Poeta
delle ceneri (1966)
Nel 1956, sul n.17-18 della rivista Nuovi
Argomenti, diretta da Alberto Carocci e Alberto Moravia, escono alcuni
versi di Pier Paolo Pasolini intitolati Le ceneri di Gramsci, scritti
nel 1954 dopo aver visitato la tomba del pensatore sardo nel cimitero inglese
di Roma.
Italo Calvino, qualche giorno dopo la pubblicazione
delle terzine pasoliniane, su Rinascita scrive: «sono convinto che con Le ceneri di Gramsci si apre
una nuova epoca della poesia italiana”. [1]
Nel 1957 esce in
volume, per i tipi della Garzanti, una nuova raccolta di versi di Pasolini, che
si aggiungono a quelli pubblicati l'anno precedente su Nuovi Argomenti, con
lo stesso titolo. Il libro registra immediatamente un successo di
pubblico e di critica.
Questi i versi centrali
del poemetto:
Lo scandalo del
contraddirmi, dell'essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere;
del mio paterno stato traditore
- nel pensiero, in un'ombra di azione -
mi so ad esso attaccato nel calore
degli istinti, dell'estetica passione;
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione
la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza; è la forza originaria
dell'uomo, che nell' atto s'è perduta,
a darle l'ebbrezza della nostalgia,
una luce poetica: ed altro più
io non so dirne, che non sia
giusto ma non sincero, astratto
amore, non accorante simpatia...
Come i poveri povero, mi attacco
come loro a umilianti speranze,
come loro per vivere mi batto
ogni giorno. Ma nella desolante
mia condizione di diseredato,
io possiedo: ed è il più esaltante
dei possessi borghesi, lo stato
più assoluto. Ma come io possiedo la storia,
essa mi possiede; ne sono illuminato:
ma a che serve la luce?"
Sbaglia, secondo me, chi pensa di trovare in questi versi la spiegazione del conflitto vissuto da Pasolini di fronte a Gramsci.
Ancora più lucidi e profetici appaiono i versi conclusivi di questo straordinario testo, laddove Pasolini tornerà a parlare dell' attrazione profonda - anche se, in primo luogo, istintiva - provata per il brusio della vita scoperta nei primi anni cinquanta nei quartieri periferici romani, che descriverà nei minimi dettagli e con le stesse parole romanesche dei suoi protagonisti in Ragazzi di vita e Una vita violenta. Il poeta, pur essendo attratto dalla serenità mostrata dai persi, miseri e inermi, sa che soltanto nella storia si ha vita; ma drammaticamente si domanda:
potrò mai più con pura
passione operare,
se so che la nostra storia è finita?
Tra i tanti interventi critici fece
clamore immediatamente quello di Franco Fortini, amico e collaboratore di
Pasolini nella rivista OFFICINA[2], che il corsaro aveva creato
nel 1955, insieme a Francesco Leonetti, Roberto Roversi e Gianni Scalia.
Spesso
si dimentica che il visionario Pasolini aveva gli occhi più aperti di quanto
comunemente si crede e, pur avendo sognato un PCI diverso da quello reale,
sapeva - molto meglio di tanti intellettuali operaisti che criticavano
da sinistra il Pci (Alberto Asor Rosa, Mario Tronti e lo stesso Franco Fortini)
– che «gli operai vogliono il PCI com'esso in sostanza è».[3]
[1]CALVINO
Italo,
[2]Una
fondamentale ricostruzione storica e critica della rivista si deve a Gian Carlo
Ferretti: “Officina”, Cultura, letteratura e politica negli anni cinquanta, Einaudi,
Torino 1975. Va ricordato anche il giudizio pieno di entusiasmo dato da
Leonardo Sciascia alla stessa rivista che aveva ospitato diversi suoi scritti.
[3]PASOLINI,
Trasumanar e organizzar, Garzanti, Milano 1971, p. 69. In queste pagine
Pasolini polemizza duramente con questi intellettuali.
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