Lo scorso 1°maggio sulla rivista DIALOGHI MEDITERRANEI ho pubblicato un articolo in cui ho cercato di dire quello che penso su L'AFFAIRE MORO di Leonardo Sciascia. Ripropongo di seguito l'articolo, parzialmente modificato anche per via di alcune osservazioni critiche di Bernardo Puleio, un amico che stimo particolarmente. (fv)
L’AFFAIRE MORO di LEONARDO SCIASCIA
Francesco Virga
Lo Stato italiano è resuscitato. Lo Stato è vivo,
forte, sicuro e duro. Da un secolo, da più che
un secolo, convive con la mafia siciliana,
con la camorra napoletana, col banditismo
sardo. Da trent’anni coltiva la corruzione e
l’incompetenza disperde il denaro pubblico in
fiumi e rivoli di
impunite malversazioni e frodi.[1]
(L. Sciascia, L’affaire
Moro, Sellerio 1978, p. 63)
L’affaire Moro di Leonardo
Sciascia viene pubblicato nell’autunno del 1978, qualche mese dopo l’orribile
strage della scorta di Aldo Moro, e il sequestro e successivo assassinio del
politico democristiano. Il libro viene letto distrattamente da tanti (me
compreso) e stroncato da due grandi giornalisti.[2] Il libro apparve frutto di una mente delirante dopo che
stampa e tv erano riuscite a convincere l’opinione pubblica che le lettere di
Moro non erano state scritte da Moro.
Rileggerlo dopo 45
anni scuote più di quanto non riuscì a fare nel momento in cui vide la luce.
Adesso che si sa molto di più sull’accaduto, dopo diversi processi penali,
inchieste parlamentari e tanti libri[3] pubblicati sul
tema, appare ancora più straordinaria questa sua singolare opera. Anche se non
tutto convince, come vedremo più avanti, impressiona ancora oggi l’acuta e
originale analisi delle lettere di Moro compiuta dallo scrittore siciliano,[4] in assoluta
solitudine, quando tanti preferirono chiudere occhi e cervello.
Sciascia finisce di scriverlo, come si evince dalla
data del dattiloscritto, il 24 agosto del 1978. Convinto di avere una bomba in
mano, arriva persino a dubitare di poterlo stampare in Italia. Per questa
ragione, prima ancora di parlarne con l’editore palermitano Sellerio, si reca a Parigi
per accertare che l’editore Grasset sia disponibile a stamparlo in lingua
francese.
Appare utile, per
meglio comprendere L’affaire Moro,
tenere presente il contesto che lo prepara: nel maggio 1977, presso la
Corte di Assise di Torino, inizia il processo contro Renato Curcio e altri
presunti capi storici delle Brigate rosse. Nell’occasione alcuni membri
della giuria popolare rinunciano al mandato di giudicare gli imputati. Pochi
giorni dopo, in un’intervista, Eugenio Montale ne giustifica il comportamento
condividendo il sentimento di insicurezza dominante in quel periodo in Italia.
Si avvia così un’aspra polemica giornalistica circa il coraggio e la viltà
degli intellettuali che avrà in Leonardo Sciascia e in Giorgio Amendola i
contendenti maggiori.[5] Il durissimo
scontro tra i due avrà un peso notevole nella genesi del pamphlet. Qualche mese prima, esattamente nel febbraio 1977, all’Università
di Roma-La Sapienza viene contestato il leader sindacale Luciano Lama; nel mese
successivo, dopo un violento scontro tra studenti e polizia nel centro di
Bologna, viene ucciso il militante di Lotta Continua Francesco Lorusso.
Sono questi, sommariamente, gli esiti più
drammatici del cosiddetto Movimento del Settantasette che, tra strette
repressive della magistratura inquirente e chiusura di radio sospette di
fomentare l’illegalità, si protrarrà per almeno un biennio. Di un tale clima è
frutto l’Appello degli intellettuali francesi del luglio 1977, in cui si
chiede la «liberazione immediata
di tutti i militanti arrestati, la fine della persecuzione e della campagna di
diffamazione contro il movimento e la sua attività culturale». L’Appello
– predisposto da Maria Antonietta Macciocchi già direttrice del periodico
comunista degli anni Sessanta Vie Nuove, dove Pasolini scrisse alcuni
dei suoi pezzi più belli – viene sottoscritto, tra gli altri, da Jean Paul
Sartre, Michel Foucault, Roland Barthes, Gilles Deleuze e Félix Guattari.
In questo contesto Sciascia scrive il libro che arriva in tutte le
librerie italiane e francesi nell’ottobre del 1978. Oggi sarebbe stato
considerato un instant book perché il suo contenuto riguarda quanto
accaduto in Italia nei 55 giorni del sequestro Moro, dopo la strage della
scorta, avvenuta a Roma, in via Fani, il 16 marzo 1978.
A prima vista
siamo di fronte ad un pamphlet, il cui titolo richiama immediatamente
alla memoria il celebre libretto di Emile Zola che tanto clamore suscitò alla
fine dell’Ottocento. Ma basta leggerne le prime righe per capire che si tratta
di ben altro. I primi due
capitoli, i più letterari dell’opera, sono dominati e illuminati da due
scrittori particolarmente amati dallo scrittore siciliano: Pasolini e Borges.
Come ha ben visto
Massimo Onofri, siamo di fronte a un libro profondamente sciasciano: in esso
convergono «quella contro-storia d’Italia
tracciata dalle Parrocchie in poi» e il dialogo con
la tradizione letteraria universale (Borges, Manzoni, Tolstoj, Stendhal, per
citare solo alcuni dei nomi più cari allo scrittore), intesa come
«sistema trascendentale, repertorio di possibilità, della verità».[6] Acuta ci appare anche la lettura che ne ha fatto il critico
più amato dall’autore, Claude Ambroise, secondo cui il libro è un vero e proprio
saggio sulla tragedia e sugli equivoci generati dal linguaggio e dalla
comunicazione umana.[7] D’altra parte, in quasi tutti i
libri di Sciascia, si sono sempre intrecciati generi diversi. Ma in questo lo
stile saggistico prevale nettamente su quello narrativo.
1.
Il prologo
pasoliniano
Nelle prime sei
pagine de L’affaire Moro Sciascia riprende letteralmente brani interi
del famoso articolo Il vuoto di potere in Italia, pubblicato dallo
scrittore bolognese sul Corriere della Sera il 1° febbraio 1975,
raccolto successivamente nei suoi Scritti corsari col titolo L’articolo
delle lucciole. E sembra che sia stata proprio una lucciola intravista nella
crepa del muro della sua casa di campagna, alla Noce di Racalmuto, a
fargli tornare alla mente Pasolini:
Era proprio una lucciola […]. Ne ebbi una gioia immensa. E come
doppia. [...]. La gioia di un tempo ritrovato – l’infanzia, i ricordi, […] – e
di un tempo da trovare, da inventare. Con
Pasolini. Per Pasolini. Pasolini ormai fuori del tempo ma non ancora, in questo
terribile paese che l’Italia è diventato, […]. Fraterno e lontano Pasolini per me. Di una
fraternità senza confidenza, schermata di pudori e, credo, di reciproche
insofferenze.[8]
L’amicizia tra
Pasolini e Sciascia nasce nei primi anni Cinquanta del secolo scorso. Un’amicizia
scaturita dal comune interesse per le diverse forme della poesia popolare e
dialettale nazionale. Non a caso sarà proprio Pasolini a introdurre uno dei
primi libri dello scrittore siciliano dedicato alla poesia romanesca[9] e quest’ultimo
ad ospitarlo nella rivista nissena “Galleria” nella stessa prima metà degli anni
Cinquanta.[10] L’intesa e la
reciproca collaborazione tra i due scrittori si allenta negli anni Sessanta per
riaccendersi nel decennio successivo, fino agli ultimi giorni di vita di
Pasolini. Da qui deriva il rammarico espresso da Sciascia di non aver fatto
abbastanza per mostrare all’amico quanto egli si sentisse vicino al suo modo di
pensare.[11]
Le lucciole
conducono Sciascia a ripensare all’altra famosa metafora pasoliniana: il Palazzo.
Pasolini voleva processare il Palazzo, ossia la classe dirigente
democristiana, responsabile ai suoi occhi di aver manipolato il denaro
pubblico, di aver trafficato con la mafia, di avere distrutto il paesaggio e di
aver fatto un uso illecito dei Servizi Segreti, coprendo i responsabili delle
stragi di Milano (Piazza Fontana, 12 dicembre 1969), di Brescia (Piazza della
Loggia, 28 maggio 1974) e del treno Italicus (4 agosto 1974). Pasolini
arriverà a chiedere un vero e proprio «processo
penale» contro i dirigenti nazionali della DC.[12]
Sciascia sottolinea, inoltre, riprendendone passi interi, che
il famoso articolo pasoliniano sulle lucciole si apre con la perentoria
affermazione secondo la quale «il regime democristiano» è «la pura e
semplice continuazione del regime fascista» (AM, p.15) – tesi
questa, in più occasioni, ripresa e condivisa dal nostro autore.
Ancora più significativa appare la
citazione di un altro testo fondamentale di Pasolini della metà degli anni Sessanta,
forse uno dei più gramsciani dello scrittore bolognese, notato da Sciascia fin
dal 1965 sulle pagine del giornale palermitano L’Ora (6 febbraio), in un corsivo intitolato La lingua di Moro:
L’onorevole Moro è un uomo politico meridionale: il che è
abbastanza, ma vale la pena di sottolinearlo, se Pasolini si riferisce a un suo
testo come alla carta di Capua della lingua che nasce sull’asse Milano-Torino.
E dell’uomo politico meridionale ha tutte le qualità e principale quella del
non dire. Fino a ieri, il classico modello dell’oratoria politica meridionale
poteva considerarsi il discorso che il principe di Francalanza rivolge ai suoi
elettori nei Viceré di Federico De Roberto […]. Genialmente, bisogna
riconoscerlo, l’onorevole Moro ha inventato un più rigoroso, quasi scientifico non
dire. È sua, se non ricordo male, la trovata delle convergenze parallele
che non significano assolutamente niente, né nella logica astratta né in
quella delle cose concrete.[13]
Sciascia era rimasto talmente
colpito dal linguaggio di Moro, e dall’analisi che ne aveva fatto Pasolini nel
1965,[14] da tornarci 13 anni dopo in questo prologo de L’affaire
Moro:
Pasolini aveva parlato del linguaggio di Moro in articoli e
note di linguistica (si veda il libro Empirismo eretico[15]).
[…]. «Come sempre – dice Pasolini – solo nella lingua si sono avuti dei
sintomi». I sintomi del correre verso il vuoto di quel potere democristiano
che era stato, fino a dieci anni prima, «la pura e semplice continuazione del
regime fascista». Nella lingua di Moro, nel suo linguaggio completamente nuovo
e però, nell’incomprensibilità, disponibile a riempire quello spazio da cui la
Chiesa cattolica ritraeva il suo latino proprio in quegli anni. [...]. Pasolini
non sa decifrare il latino di Moro, quel «linguaggio completamente nuovo»: ma
intuisce che in quella incomprensibilità, […], si è stabilita una «enigmatica
correlazione» tra Moro egli altri; tra colui che meno avrebbe dovuto cercare e
sperimentare un nuovo latino (che è ancora il latinorum che fa scattare
d’impazienza Renzo Tramaglino) e coloro che invece necessariamente, per
sopravvivere sia pure come automi, come maschere, dovevano avvolgervisi. In
questo breve inciso di Pasolini – «per una enigmatica correlazione» – c’è come
il presentimento, come la prefigurazione dell’affaire Moro. Ora sappiamo
che la «correlazione» era una «contraddizione»: e Moro l’ha pagata con la vita.
Ma prima che lo assassinassero, è stato costretto, si è costretto, a vivere per
circa due mesi un atroce contrappasso: sul suo «linguaggio completamente nuovo»,
sul suo nuovo latino incomprensibile quanto l’antico. Un contrappasso diretto:
ha dovuto tentare di dire col linguaggio del nondire, di farsi
capire adoperando gli stessi strumenti che aveva adottato e sperimentato
per non farsi capire. Doveva comunicare usando il linguaggio dell’incomunicabilità.
Per necessità: e cioè per censura e autocensura. Da prigioniero. Da spia in
territorio nemico e dal nemico vigilata.[16]
2.
Letteratura e
storia. Borges, Pasolini e le ossessioni di Sciascia
Indubbiamente la grande letteratura
ha aiutato spesso a comprendere le cose e la stessa verità storica dei fatti
più di tanti libri di storia, di sociologia e di scienza della politica.
Sciascia ne è stato sempre consapevole e, in una intervista rilasciata a un
celebre giornale francese, ha ben sintetizzato il suo punto di vista:
Credo che all’uomo – all’uomo umano – non resti
che la letteratura per riconoscersi e riconoscere la verità. Il resto è
macchina, statistica, totalitarismo. È il sistema della menzogna: la grande
mostruosa macchina che ingoia tante verità per restituirle in menzogna. E lo
stato finirà per identificarsi in questa macchina, se non si è già identificato.
Non avrà niente a che fare con l’uomo, con la nozione dell’uomo che ancora abbiamo
e che troviamo nella letteratura.[17]
Ma Sciascia ne L’affaire Moro, ripensando
a due suoi precedenti racconti, Il Contesto e Todo modo, scritti
nei primi anni Settanta (rispettivamente, 1971 e 1974), afferma che con essi
era riuscito a prevedere quanto accaduto in Italia negli anni successivi (le
cosiddette Stragi di Stato, già ricordate, e quella di via Fani col susseguente
sequestro Moro).[18]
Qui diventa opportuno ricordare la
recensione di Todo modo, fatta proprio da Pasolini, che, evidentemente,
ha tanto influenzato Sciascia. In un passaggio di essa lo scrittore corsaro
afferma:
Questo
romanzo giallo metafisico di Sciascia (scritto tra l’altro magistralmente, come
diranno i futuri critici letterari ad usum Delphini, perché Todo modo è destinato
a entrare nella storia letteraria del Novecento come uno dei migliori libri di Sciascia) è anche,
credo, una sottile metafora degli ultimi trent’anni di potere democristiano, fascista
e mafioso, con un’aggiunta finale di cosmopolitismo tecnocratico (vissuta però
solo dal capo, non dalla turpe greggia alla greppia). Si tratta di una metafora
profondamente misteriosa, come ricostituita in un universo che elabora fino
alla follia i dati della realtà. I tre delitti sono le stragi di
Stato, ma ridotte a immobile simbolo. I meccanismi che spingono ad esse
sono a priori preclusi a ogni possibile indagine, restano sepolti nell’impenetrabilità
della cosca, e soprattutto nella sua ritualità.[19]
Che questa lettura pasoliniana di Todo
modo abbia suggestionato Sciascia è indubbio. I suoi amici romani riferiscono
che, nei 55 giorni del sequestro Moro, Sciascia era davvero ossessionato dall’idea
che l’immaginazione e la scrittura abbiano straordinari poteri creativi.[20]
Nel libro che stiamo analizzando lo
stesso autore, facendo riferimento ad un racconto di Borges contenuto nelle sue
Ficciones (Pierre Menard, autore del Chisciotte), scrive:
come il Don Chisciotte,
l’affaire Moro si svolge irrealmente
in una realissima temperie storica e ambientale. Allo stesso modo che don
Chisciotte dai libri della cavalleria errante, Moro e la sua vicenda sembrano
generati da una certa letteratura. Ho ricordato Pasolini. Posso anche – non
rallegrandomene ma nemmeno rinnegandoli – ricordare due miei racconti, almeno
due: Il contesto e Todo modo […]. Lasciata, insomma, alla
letteratura la verità, la verità – […] – sembrò generata dalla letteratura.[21]
Massimo Onofri ha intravisto in queste parole
di Sciascia un nuovo modo di intendere la letteratura che, invece di
rispecchiare la realtà, profeticamente la crea.[22] Ancora più discutibile mi sembra il punto di vista di Bruno
Pischedda secondo il quale lo scrittore siciliano ha ripreso da Pasolini l’«attitudine
vaticinante, il «piacere inorgoglito del presentimento e della prefigurazione».[23]
Io credo che, se si vuole davvero cercare di comprendere il
valore di quest’opera, occorre evitare gli opposti estremismi dell’esaltazione
e della denigrazione. Dal punto di vista strettamente letterario non credo che
si tratti del capolavoro dello scrittore siciliano. Vale la pena, al riguardo,
ripetere quanto scrisse lo stesso Sciascia contro Eugenio Scalfari che, subito
dopo le prime anticipazioni giornalistiche del contenuto del libro ancora
inedito, ne elogiava ipocritamente la forma letteraria per contestarne meglio
il contenuto. Al giornalista il maestro di Racalmuto – ribadiamolo – replicò
così: «Ma è possibile […] che il libro non abbia qualità letterarie; che sia
soltanto una
nuda e dura ricerca della nuda e dura verità»..[24] Penso, inoltre, che sia sbagliato ritenere che Sciascia, con
questo libro, abbia cambiato il suo modo d’intendere la letteratura.
Il pregio maggiore de L’affaire
Moro, secondo me, va invece ricercato soprattutto nel coraggio mostrato
dall’autore di andare controcorrente nell’interpretazione delle lettere scritte
da Moro durante il suo sequestro, di cui rifiuta la presunta e propalata
apocrifìa, dando così prova ancora una volta di non avere mai avuto timore di
contrapporsi a qualsiasi potere costituito.[25]
E sta qui una delle cifre distintive dell’intera produzione letteraria di
Leonardo Sciascia, come è dimostrato anche da una intervista rilasciata negli
stessi giorni in cui scrive L’affaire
Moro:
Le fa piacere passare per uno scrittore
impegnato? (Domanda dell’intervistatore)
Certo, io mi sento “impegnato”: ma con me stesso
e con gli altri “me stessi”. I due più grandi scrittori impegnati che io
conosco sono André Gide e Georges Bernanos, ed essi lo furono veramente, fino
in fondo. Tuttavia, il primo, che si sentiva comunista, scrisse la verità sull’Unione
Sovietica, e il secondo, che era cattolico, scrisse contro il mondo cattolico
che esaltava la crociata di Franco.
Ben vengano dunque gli
intellettuali impegnati, ma purché si battano sempre contro il Principe, contro
i Poteri, contro le Chiese, anche se si tratta di quelle in cui credono.[26]
Io sono sempre più convinto che la
cosa meno sciasciana che si possa e debba fare di fronte a tutti i suoi libri è
quella di prendere per verità assolute tutte le sue affermazioni, le sue
opinioni, i suoi giudizi politici, storici e letterari. Credo che non sia mai
stato ben compreso il senso pirandelliano dell’originaria intenzione di far
incidere sulla propria tomba queste parole: «contraddisse e si contraddisse».[27]
3.
L’analisi critica delle lettere di Moro. Sciascia
diviso tra filologia e ideologia
Sciascia non ha dubbi sull’autenticità
delle lettere scritte da Moro durante la sua detenzione nella cosiddetta
“prigione del popolo”. Moro naturalmente sa di essere usato dai suoi carcerieri
e di non potere, pertanto, scrivere tutto quello che vuole. Allora si
autocensura «adattando alla funzione del dire il suo antico linguaggio
del nondire».[28] Lo scrittore siciliano, pur non avendo mai stimato né
provato alcuna simpatia per l’uomo politico, di fronte al prigioniero inerme,
di fronte all’«uomo solo, tradito, dato per pazzo dai suoi stessi amici»,[29] prova
pietà e intravede nelle lettere che i suoi carcerieri gli consentono di scrivere
la disperata ricerca di salvare la sua vita.
Sciascia nell’occasione dimostra una
lucidità straordinaria. Quasi da solo, grazie alla sua antica e radicata
diffidenza nei confronti dello Stato e di ogni forma di potere costituito,
comprende le ragioni che spingono Moro, rinchiuso nella prigione del popolo
«sotto un dominio pieno e
incontrollato»,[30] a cercare, con la sua
collaudata arte del dire e non dire, una via per salvarsi; e comprende
benissimo il doppio gioco dei brigatisti che fanno finta di consentire al
prigioniero di scrivere in modo riservato quelle lettere al vero scopo di
screditarlo definitivamente.
Tutto questo Sciascia lo comprende
subito dopo la prima lettera indirizzata al Ministro dell’Interno Francesco
Cossiga (definito «capo degli sbirri» nel comunicato delle BR che
accompagna la lettera) e inviata di proposito dagli stessi brigatisti in più
copie ai principali quotidiani nazionali per renderla pubblica. Sciascia, prima
di analizzare il testo della lettera di Moro, è colpito da un passo del
messaggio delle BR (il cosiddetto terzo comunicato dalla prigione del
popolo) che riproduce:
«Ha chiesto di scrivere una lettera segreta (le manovre
occulte sono la normalità per la mafia democristiana) al governo ed in
particolare al capo degli sbirri Cossiga. Gli è stato concesso, ma siccome
niente deve essere nascosto al popolo ed è questo il nostro costume, la
rendiamo pubblica.»[31]
Moro, secondo Sciascia, non è mai
stato uno statista ma un mediocre politicante. E le stesse lettere che invia alla
famiglia e ai suoi amici di Partito stanno a dimostrarlo. Ma la vera ragione
per cui Sciascia stima poco Moro è dovuta principalmente al severo giudizio ch’egli,
in tutti i suoi precedenti libri e in tutta la sua attività giornalistica, ha
sempre espresso sul partito di cui Moro è stato uno dei massimi dirigenti.
Al riguardo merita di essere
ricordato un particolare riferito da Matteo Collura nella sua eccellente
biografia del maestro di Racalmuto. Il giornalista racconta in maniera
documentata che Sciascia apprende la notizia del rapimento di Moro e della
strage di via Fani in casa di amici siciliani che avevano un vivo ricordo delle
polemiche suscitate tanti anni prima dalla candidatura di Don Peppino Genco
Russo nelle liste locali della Democrazia Cristiana di Mussomeli (CL). In
quel periodo Moro era Segretario Nazionale del Partito e venne personalmente
investito dalle polemiche perché, dopo aver declinato ogni responsabilità e
competenza sul caso specifico, ebbe l’imprudenza di affermare che «non sembra
che ci sia qualcuno disposto ad affermare e a provare quanto si addebita a
Genco Russo».[32]
Chi non poteva avere dubbi sul carattere mafioso del padrino di
Mussomeli, erede di Don Calò Vizzini, era proprio Sciascia che nel 1965 aveva
avuto modo di intervistarlo per conto del settimanale Mondo nuovo.[33]
Comunque, dopo le polemiche, Genco Russo venne giudicato socialmente
pericoloso e allontanato dalla Sicilia.
L’analisi critica compiuta da
Sciascia delle lettere scritte da Moro nel periodo del suo sequestro,
parzialmente pubblicate dalla stampa, è davvero esemplare. Particolare
attenzione il nostro autore presta alla lettera pubblicata
dai giornali il 10 aprile 1978, che lascia intravedere una chiave di lettura de
L’affaire Moro completamente diversa da quella accreditata dall’opinione
pubblica e, almeno in parte, dallo stesso scrittore. La lettera viene
riprodotta quasi per intero dallo scrittore siciliano[34], riconoscendone immediatamente l’autenticità e
l’importanza, in polemica con Montanelli, Antonello Trombadori e un gruppo di «amici di Moro» che
ripetono di non riconoscere nella lettera il Moro che hanno conosciuto.
A prima vista il
documento sembra un attacco personale di Moro al senatore Paolo Emilio Taviani,
uno dei principali esponenti della DC contrari all’ipotesi di trattare con le
BR; una delle tante
polemiche interne tra le correnti democristiane cui quel partito aveva abituato
l’opinione pubblica. Nella
lettera si ricostruisce sommariamente la carriera politica del senatore che,
nel periodo in cui era stato Ministro della Difesa e dell’Interno, aveva avuto
contatti frequenti con il «mondo americano» e con «Centri di potere e diramazioni
segrete».[35] Alla fine della lettera
Moro si pone una domanda inquietante: «Vi è forse, nel tener duro contro di me,
una indicazione americana e tedesca?».[36]
Insomma, leggendo
attentamente la lettera, sembra che lo stesso Aldo Moro sia arrivato a sospettare
«interferenze di ambienti americani»[37] nel suo sequestro. Sciascia lascia cadere la pesante domanda di Moro senza trarne tutte le
conseguenze; si limita soltanto ad osservare:
se
Moro formalmente, retoricamente, se lo domanda, non vuol dire che
sostanzialmente ne è certo? E dunque l’azione delle BR – nell’aver catturato
Moro, nel tenerlo prigioniero – corrisponde anche a un disegno americano e tedesco,
vi concorre involontariamente, casualmente lo agevola o addirittura ne è parte?[38]
Sciascia non va oltre
questi punti interrogativi. Ma l’ipotesi della regia e della diretta
partecipazione dei servizi segreti americani nell’affaire Moro sarà
ripresa vent’anni dopo da un magistrato, fratello di Aldo Moro.[39] Né
può essere dimenticata la testimonianza della vedova Eleonora Moro che, di
fronte alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani,
il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, affermerà candidamente che l’assassinio
del consorte «è stato deciso molto in alto», convinta che le BR hanno soltanto
svolto l’apparente funzione di esecutori e manovali di morte.[40] .
È strano che Sciascia su questo punto appaia evasivo e
finisca per contraddirsi. Infatti, dimenticando quanto affermato precedentemente,
sposta la sua attenzione critica dalla DC al PCI, accusando quest’ultimo
d’essere stato il principale ostacolo ad una trattativa con le BR che potesse
salvare la vita di Moro. Così nella parte finale del libro la polemica
e la critica al partito comunista di Enrico Berlinguer supera in veemenza
quella contro la DC.
Avrà sicuramente
influito ad alimentare questa polemica sia lo scontro durissimo di Sciascia con
uno dei massimi dirigenti del PCI, Giorgio Amendola, avvenuto nel giugno del
1977, che l’ottuso attacco del Direttore comunista del Paese Sera, Aniello
Coppola, che in un corsivo pubblicato sul suo giornale tre giorni dopo il
sequestro Moro, chiede conto allo scrittore siciliano del suo silenzio. Il
polemista Sciascia, la iena dattilografa – come, con invidia e fastidio
insieme, denominavano il suo inconfondibile stile giornalistico, i suoi
colleghi de L’ORA di Palermo – replicando al giornalista romano lo stenderà
a tappeto dandogli dello stalinista:
Con mezzi terroristici, polemizzando col mio silenzio, vogliono
che io dica o che bisogna difendere questo Stato così com’è o che hanno ragione
le BR. Tutta la mia vita, tutto quello che ho pensato e scritto, dicono che non
posso stare dalla parte delle BR. E in quanto a riconoscermi nello Stato com’è
(e sarebbe più esatto dire com’era fino al rapimento dell’on. Moro) continuo a
dire di no […]. Il fatto è che questa specie di terrorismo verbale è stato
battezzato nella stessa parrocchia in cui è stato battezzato quello che spara:
La parrocchia dello stalinismo innestatosi con indefettibile continuità sul
fascismo e sul nazismo.[41]
Qualche giorno dopo,
in una intervista rilasciata a Bernardo Valli, più pacatamente preciserà:
La ragione del mio silenzio è questa: che mi è venuto nei riguardi
dello scrivere una specie di repulsione, di rigetto. Quando mi si dice, a
titolo di complimento, che io ho previsto, dolorosamente mi dico che la sola
cosa che non ho previsto è che la previsione si realizzasse. […]. E so cosa
farò appena avrò ritrovato la voglia di scrivere. Un’analisi delle lettere di Moro
che sono state pubblicate – come se fossero documenti di archivio – lontani quanto
quelli sui pugnalatori di Palermo o sulla morte di Raymond Roussel. Perché io
credo che le lettere di Moro non siano state lette bene, che ci siano dentro
dei messaggi non decifrati.[42]
Queste polemiche
lasciano il segno in Sciascia; così, un anno dopo il suo Affaire Moro, tornando
sulle polemiche intorno al coraggio e alla viltà degli intellettuali[43],
nella sua Sicilia come metafora scriverà:
Quali garanzie offriva
questo Stato, non soltanto ai fini della protezione dei cittadini che si
assumevano il rischio di far parte di una giuria, ma per quanto attiene all’applicazione
del diritto, della legge, della giustizia? […]. L’impunità che copriva i
delitti commessi contro la collettività e contro i beni pubblici, era degna di
un regime di tipo sudamericano: neppure uno dei grandi scandali scoppiati in
trent’anni aveva avuto un chiarimento, nessuno dei responsabili era stato
punito; alla testa dello Stato stava un uomo assai discusso, Giovanni Leone, il
quale sarebbe stato costretto a rassegnare le dimissioni il 15 giugno 1978; in
ogni città e in ogni villaggio, era possibile compilare un lungo elenco di
malversazioni, di casi di concussione e di abusi rimasti impuniti; i cittadini
che facevano il proprio dovere, innanzitutto come semplici contribuenti, si
vedevano regolarmente presi in giro prima, e ridicolizzati poi, non soltanto
perché altri non compivano il loro dovere fiscale, ma anche perché le leggi
promosse dalla Repubblica erano esse stesse ingiuste. Il condono fiscale non
finiva forse per depenalizzare tutti quelli che avevano frodato il fisco, […].
Ed è in questo
Paese, che vive in condizioni simili, che Amendola giudica vile affermare
che questo stato non merita di essere difeso! Incredibile! Per lui lo Stato
deve essere una sorta di entità mitica e metafisica, che si colloca al di là
dei servizi resi. Lo Stato, per me, non è invece che un insieme ben coordinato
di servizi. E quando i suoi servizi sono deficitari o del tutto assenti, bisogna
o correggerli o crearne di nuovi. Se questo non avviene, si difende null’altro
che la corruzione e l’inefficienza, con il pretesto della difesa dello Stato.[44]
A provocare la dura polemica di Sciascia con il PCI ha
avuto anche la sua parte il discutibile editoriale di Rossana Rossanda apparso
su il manifesto del 28 marzo 1978 che attribuiva ai brigatisti una
patente marxista-leninista di stampo sovietico. Ecco perché Sciascia ideologicamente
li considera «figli, nipoti o pronipoti del comunismo stalinista»,
che si fanno grottescamente interpreti di «un’etica […] carceraria maturata
sulla lettura – o sul sentito dire – dei testi di Foucault», per introdurre un’«esile
vena libertaria nella loro pietrificata ideologia».[45]
4.
Brigate rosse e mafia
Nel penultimo capitolo de L’affaire Moro Sciascia
analizza acutamente le somiglianze tra il comportamento delle Brigate rosse e
quello della mafia siciliana (Cosa nostra):
Le BR funzionano perfettamente ma (e il ma ci
vuole) sono italiane. Sono una cosa nostra, quali che siano gli addentellati
che possono avere con sette rivoluzionarie o servizi segreti di altri paesi.[46]
Evidentemente questo passo finale del suo libro
dimostra tante cose:
1) Sciascia non ha dimenticato il contenuto
inquietante della lettera di Moro del 10 aprile 1978, precedentemente
analizzata, in cui, parlando dei rapporti del senatore Taviani coi servizi
segreti americani e tedeschi, arriva a ipotizzare la regia straniera del suo
sequestro.
2) Lo scrittore siciliano, pur avendo sempre rifiutato
d’essere considerato un mafiologo, è stato uno dei maggiori esperti di cosa
nostra e non c’è un suo libro dove, in un modo o in un altro, non c’entri
la mafia.
3) Particolarmente illuminante risulta il riferimento
al bandito Giuliano e alla strage di Portella – nodo cruciale della storia d’Italia,
secondo Sciascia – quando scrive:
è
facile sentir dire, specialmente in Sicilia, che questa delle Brigate rosse
è tutta una storia come quella di Giuliano:[47]
e ci si riferisce a tutte quelle acquiescenze e complicità dei pubblici poteri
che i siciliani conoscevano ancor prima che diventassero risultanze (queste sì,
risultanze) nel famoso processo di Viterbo. Atteggiamento che si può anche
disapprovare, non poggiando su dati di fatto; ma che trova giustificazione in quel
distico di Trilussa che dice la gente non fidarsi più della campana poiché
conosce la mano che la suona.[48]
4) Infine, mostrando di non aver mai preso sul serio
la matrice rossa del brigatismo italiano, conclude con una battuta che ritorna
frequentemente negli ultimi suoi scritti:
La
loro ragion d’essere, la loro funzione (delle BR), il loro servizio stanno
esclusivamente nello spostare dei rapporti di forza […]. Di spostarli nel senso
di quel cambiare tutto per non cambiar nulla che il principe di Lampedusa
assume come costante della storia siciliana e che si può oggi assumere come
costante della storia italiana.[49]
Ritengo pertanto che non
sia forzato concludere questa mia lettura critica de L’affaire Moro con
queste parole dello stesso Sciascia:
[…]
c’è in Italia un iperpotere cui giova, a mantenere una determinata gestione del
potere, l’ipertensione civile, alimentata da fatti delittuosi la cui
caratteristica, che si prenda o no l’esecutore diretto, è quella della
indefinibilità tra estrema destra ed estrema sinistra, tra una matrice di
violenza e l’altra […]. La prefigurazione (e premonizione) di un tale
iperpotere l’abbiamo avuta nella restaurazione democratica, in Sicilia, negli
anni Cinquanta. Chi non ricorda la strage di Portella, la morte del bandito
Giuliano, l’avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta? Cose tutte, fino ad
oggi, avvolte nella menzogna. Ed è da allora che l’Italia è un paese senza verità.
Ne è venuta fuori, anzi, una regola: nessuna verità si saprà mai riguardo a
fatti delittuosi che abbiano, anche minimamente, attinenza con la gestione del
potere.[50]
Palermo 15 aprile 2023
FRANCESCO VIRGA
[1]
Queste parole Sciascia le scrive, con palese sarcasmo, nel suo pamphlet, in risposta agli ottusi
statolatri, di destra e di sinistra, che si opposero a trattare con le BR in
nome di un fantomatico Stato che lo scrittore siciliano aveva già deriso nel
suo Todo
modo: «Ma signori […] spero che non mi darete
il dolore di dirmi che lo stato c’è ancora… Alla mia età, e con tutta la
fiducia che ho avuto in voi, sarebbe una rivelazione insopportabile. Stavo così
tranquillo che non ci fosse più» (Ivi, p. 115).
[2]
Sarà lo stesso Sciascia, in un suo tagliente corsivo, facendo riferimento agli
editoriali di Eugenio Scalfari e di Indro
Montanelli, pubblicati sui loro giornali nel settembre 1978, a
mettere alla berlina il malcostume di gran parte della stampa nazionale: «Ma è possibile che i due illustri giornalisti
– e quanti altri si sono occupati di questo libro senza averlo letto – sbaglino:
e cioè che il libro non affascini, non commuova, non abbia qualità letterarie;
che sia soltanto una nuda e dura
ricerca della nuda e dura verità»
(Leonardo Sciascia, La palma va a Nord, Articoli e interventi 1977-1980, Gammalibri, Milano1982, p. 61, grassetto mio, qui e in tutto il testo, se non
altrimenti segnalato).
[3]
Sul caso è stato scritto tanto. Tra i numerosi libri pubblicati il più attendibile,
secondo me, rimane quello di Alfredo Carlo Moro, fratello di Aldo, già
presidente del Tribunale per minorenni di Roma e presidente di sezione della
Corte di Cassazione, che – nel suo Storia
di un delitto annunciato. Le ombre del caso Moro, Editori Riuniti,
Roma 1998 (nuova ed., Intr. di Guido Formigoni, 2018), attraverso l’analisi
puntuale degli atti giudiziari, già disponibili vent’anni dopo i fatti,
partendo dalle incertezze e dalle contraddizioni in cui sono caduti i presunti
carcerieri di Moro – arriva persino a ipotizzare che il sequestro del
Presidente della DC sia stata opera di Servizi Segreti stranieri più che delle
BR. Molto meno convincente appare invece quanto scritto recentemente da Miguel Gotor,
Io ci sarò ancora. Il delitto Moro e la crisi della Repubblica [2019],
Premessa di Marco Bellocchio e Prefazione di Gian Carlo Caselli, 2ª ed., Paper
FIRST, Roma 2022.
[4]
«Bisogna prima sgombrare la nostra mente dal pregiudizio […]
che Moro non era sé stesso, che era diventato un altro» (La palma va a Nord, op. cit., p. 61).
[5]
Gran parte del dibattito sarà raccolto da Domenico Porzio in Coraggio e viltà degli intellettuali, Mondadori,
Milano 1977.
[6]
Massimo Onofri, Storia di Sciascia, Editori Laterza, Bari 2004, nuova ed.
arricchita rispetto alla prima uscita nel 1994, p. 213.
[7]
Claude Ambroise, Invito alla lettura di Sciascia, Mursia, Milano 1996, pp. 231-239.
[8]
L. Sciascia, L’affaire Moro, Sellerio editore, Palermo 1978, p. 12.
Sciascia tornerà a parlare di queste
reciproche insofferenze nel suo diario pubblico Nero su nero, Einaudi, Torino
1979, pp. 175-176. D’ora in poi il libro che stiamo analizzando verrà citato con
l’abbreviazione: AM.
[9]
Leonardo Sciascia, Il fiore della poesia romanesca: Belli, Pascarella,
Trilussa, Dell’Arco, Salvatore Sciascia, Caltanissetta 1952.
[10]
Pier Paolo Pasolini, Dal diario: 1945-47, Salvatore Sciascia,
Caltanissetta 1954 (I quaderni di Galleria).
[11]
Un’analisi più approfondita di questa singolare amicizia si trova nel mio
recente libro Eredità dissipate. Gramsci Pasolini Sciascia, Diogene
Multimedia, Bologna 1922, nel capitolo intitolato Pasolini e Sciascia. Storia di un’amicizia, pp.
295-299.
[12]
Pier Paolo Pasolini, «Il Processo»,
Corriere della Sera, 24 agosto 1975, poi raccolto in Lettere
luterane, Einaudi, Torino 1976, pp. 114-123.
[13]
Ora in Leonardo Sciascia, Quaderno, Intr. di Vincenzo Consolo,
Nota di Mario Farinella, Nuova Editrice Meridionale, Palermo 1991, pp. 36-37.
[14]
Cfr. al riguardo anche il mio «Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini», Quaderns
d’Italià, 16 (2011), 175-196.
[15]
Nel libro Empirismo eretico, pubblicato
da Garzanti nel 1972, Pasolini inserisce il capitolo Diario linguistico che comprende
diversi pezzi scritti intorno al 1965.
[16]
AM, pp. 15-16.
[17]
Leonardo Sciascia, intervista a Le Monde del
4 febbraio 1979.
[18]
AM, p. 27.
[19]
Pier Paolo Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Einaudi, Torino 1979,
pp. 459-460.
[20]
Cfr. Matteo Collura, Il maestro di Regalpetra, Longanesi, Milano 1996, p. 271; Felice
Cavallaro, Sciascia l’eretico. Storia e profezie di un siciliano scomodo, RCS
MediaGroup, Milano 2021, p. 157.
[21]
AM, pp. 27-28. Ma sono da leggere anche le pp. 23-26.
[22]
M. Onofri, Storia di Sciascia, op. cit., p. 218.
[23]
Bruno Pischedda, Scrittori polemisti. Pasolini, Sciascia, Arbasino, Testori, Eco,
Bollati Boringhieri, Torino 2011, pp. 102-118.
[24] La palma va a Nord, op. cit., p. 61.
[25]
Nel 1981 Sciascia dirà all’amico Davide Lajolo: «Quel
che mi ha indignato e mi ha fatto scrivere un libro che sarà […] sempre più
vero è stata l’operazione da regime, e complice quasi totalitariamente la
stampa, di far diventare Moro un altro, un uomo che non sapesse quel che
dicesse, un uomo che aveva soltanto paura. Questa è stata una atroce
mistificazione» (Leonardo Sciascia -
Davide Lajolo, Conversazione in una stanza chiusa, Sperling & Kupfer,
Varese 1981, p. 31).
[26] Epoca, 5 luglio 1978.
[27]
Un’eco dell’epigrafe scartata anche nel titolo del saggio: Rosario Castelli, Contraddisse
e si contraddisse. Le solitudini di Leonardo Sciascia, Cesati, Firenze
2016.
[28]
AM p. 22.
[29]
La palma va a nord, op. cit.,
p. 144.
[30]
AM, p. 50.
[31]
AM p. 38.
[32]
M. Collura, Il maestro di Regalpetra, op. cit., p. 260.
[33]
La celebre intervista è stata riproposta nel dicembre 2007 dal periodico di
Racalmuto Malgrado tutto.
[34] AM pp. 68-72.
[35] AM p. 71.
[36] AM p. 72.
[37]
AM p. 71.
[38]
AM pp. 74-75.
[39]
Cfr. A. C. Moro, Storia di un delitto
annunciato, op. cit.
[40]
L. Sciascia-D. Lajolo, Conversazione in una stanza chiusa, op.
cit. p. 26.
[41]
Matteo Collura, op. cit., p. 265
[42]
Ivi, p.266
[43]
I numerosi interventi sul dibattito svoltosi nel 1977 intorno a questo tema,
come abbiamo ricordato in una nota precedente, vennero raccolti da Domenico
Porzio e pubblicati lo stesso anno da Mondadori.
[44]
Leonardo Sciascia, La Sicilia come metafora. Intervista di Marcelle
Padovani, Mondadori, Milano 1979, pp.102-3.
[45]
AM p. 17.
[46]
AM p. 128.
[47]
Attenzione: il grassetto è mio, ma il corsivo è di Sciascia.
[48] AM p. 129.
[49] AM p. 130, corsivo dell’A.
[50]
L. Sciascia, Nero su nero, op. cit., pp. 130-131.
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