Sinistra, movimenti e guerra in Ucraina
I curdi siriani del Rojava che pure sono stati essenziali per sconfiggere lo Stato islamico (Isis) in Siria hanno sempre ricevuto numerose critiche. Una delle più importanti ha riguardato il loro rifiuto di sostenere sia l’autocrate siriano, Bashar al-Assad, sia i ribelli, attirandosi in fin dei conti la diffidenza di entrambi e contribuendo alla narrativa delle opposizioni siriane per cui chi non sta dalla parte dei ribelli finisce per sostenere al-Assad.
Una parte della sinistra europea ha sposato la causa curda, messa a rischio nel suo progetto di autonomia democratica, teorizzata da Abdullah Ӧcalan che marcisce in isolamento nelle carceri turche e di cui è stato pubblicato in queste settimane il libro, Sociologia della Libertà (Edizioni Punto Rosso, 2023), dai continui raid turchi, dalle operazioni militari a partire da «Ramoscello d’Ulivo» (2018), dall’occupazione del Cantone di Afrin e, sin dall’inizio dei movimenti iraniani anti-governativi (settembre 2022), anche dall’esercito iraniano. Invece c’è chi da sinistra continua a professare il suo scetticismo e a criticare la posizione dei curdi siriani: appoggiando apertamente al-Assad o additandoli come gruppi militarizzati, sostenuti dalla Coalizione internazionale, guidata dagli Stati Uniti, che in verità poco ha fatto per i curdi del Rojava.
E così ancora una volta la guerra in Siria rappresenta il banco di prova centrale per valutare anche come la sinistra europea ha reagito al conflitto in Ucraina, quale ruolo hanno i movimenti e cosa resta della neutralità tra Russia e Nato.
La Russia di Putin e la guerra in Siria
È vero che, così come è successo con i curdi, chi ha assunto a sinistra una posizione di neutralità rispetto alla guerra in Ucraina, soprattutto criticando l’invio di armi a Kiev che inevitabilmente avrebbe trasformato il paese in una nuova area di conflitto a tempo indeterminato, così come è avvenuto in Siria, si è trovato ad essere accusato di fare il gioco del presidente russo, Vladimir Putin. E così l’atteggiamento prevalente di molti, rispetto al conflitto in corso, ha riguardato il desiderio di una certa, e forse momentanea, sovrapposizione a sostegno delle posizioni atlantiste della Nato, come le uniche accettabili o il «male minore», in un contesto di guerra di aggressione, quale è stata quella avviatasi con gli attacchi russi del 24 febbraio 2022 in Ucraina.
Appoggiando questa interpretazione che vede chi a sinistra esprime posizioni di neutralità come un sicuro sostenitore di Putin, si compie però un errore importante. Criticare l’invio di armi a Kiev non significa automaticamente sostenere le decisioni russe in Ucraina. Se Putin ha potuto attaccare l’Ucraina è principalmente dovuto al fatto che la comunità internazionale gli ha sempre permesso di fare il bello e cattivo tempo in Siria e in Libia dopo il 2011. In realtà è stato con l’intervento di Putin in Siria, e l’appoggio iraniano, così come con l’intervento russo in Libia, e l’accordo con la Turchia, che i due stati falliti del Mediterraneo centrale e orientale hanno trovato un precario equilibrio che ha bloccato fin qui qualsiasi processo elettorale, la mediazione delle Nazioni Unite in Libia, e riaccreditato al-Assad in Siria, anche dopo il terribile terremoto del 5 febbraio scorso in cui il presidente siriano ha giocato di nuovo l’arma dell’emergenza umanitaria per ricoprire il ruolo del «salvatore» dalle macerie della guerra.
E così è evidente che Putin, così come al-Assad, e gli altri autocrati regionali, da Abdel Fattah al-Sisi al nuovo discorso «fascista» e anti-democratico del presidente tunisino, Kaes Saied, non rappresenteranno mai un’alternativa credibile all’anti-americanismo che una parte della sinistra ancora spera di incarnare nel suo posizionamento rispetto alle dinamiche geopolitiche regionali. Quindi nel caso specifico, se suona ridondante credere che la stessa Nato che ha distrutto la Libia con i disastrosi attacchi del 2011 sia migliore della Russia di Putin, è altrettanto scorretto credere che il pacifismo e la contrarietà all’invio di armi in Ucraina significhi appoggiare le posizioni di Mosca. Si tratta di una sorta di guerra impari per chi è peggiore tra i due fronti del conflitto. In uno scontro che non esprime due posizioni davvero alternative. In altre parole, non solo si tratta di una guerra al ribasso, a chi fa peggio dell’avversario ma anche uno scontro in cui più che trovare chi ha ragione, è meglio partire dal presupposto che in realtà hanno tutti torto.
E così ancora una volta le dinamiche di conflitti e movimenti che hanno attraversato il Nord Africa e il Medio Oriente sono utili per analizzare le attuali dinamiche interne alla sinistra rispetto alla guerra in Ucraina e stigmatizzare sia il posizionamento di chi ha ancora nostalgie «putiniane» o «assadiane» sia di chi ha sposato completamente le ragioni della Nato, difendendo invece le posizioni di una neutralità che riconosca i torti di entrambi e non le ragioni di qualcuno.
Propaganda mediatica e movimenti
Che la guerra in Ucraina sia principalmente una guerra mediatica lo ha dimostrato l’atteggiamento chiaramente provocatorio che il presidente russo ha assunto dall’inizio del conflitto. È sembrato subito evidente che la guerra in Ucraina fosse più che altro una dimostrazione di forza, la prova che la Russia continua ad avere il pieno controllo in quella regione, come è sempre stato. E la debole e ambigua reazione occidentale non ha fatto altro che accreditare questa posizione.
Lo stesso fanno le autorità iraniane che continuano a provocare giovani e attivisti, difendendo l’imposizione dell’obbligo dell’hejab, tentando di scoraggiare la partecipazione femminile nelle proteste di piazza con arresti, violenze in carcere, e avvelenamenti di centinaia di studentesse, come di recente è avvenuto nelle scuole di Qom. Eppure il movimento «Donna, vita, libertà», iniziato dopo la brutale uccisione della giovane curda, Mahsa Amini, da parte della polizia morale lo scorso settembre, è la sfida più estesa e significativa alla Repubblica islamica dopo la rivoluzione del 1979. Un movimento che va ben oltre l’obbligo del velo e coinvolge giovani, studenti, minoranze curde, baluchi e arabe, lavoratori e commercianti, diaspore all’estero.
Anche in questo caso, la leadership iraniana non fa altro che alimentare le proteste, innescare nuove mobilitazioni, per esempio non accettando la diffusa pratica di molte donne iraniane di non voler più portare il velo, per mostrare in ultima analisi di essere in grado di ristabilire l’ordine in caso di alta conflittualità. E le mobilitazioni continueranno, come ha assicurato l’avvocata per la difesa dei diritti umani in libertà vigilata, Nasrin Sotudeh. Mentre le autorità iraniane sembrano sempre più allineate sulle posizioni di Mosca, per superare l’isolamento internazionale, anche dopo l’ammissione dell’invio di droni che sono stati utilizzati dalla Russia di Putin per attaccare Kiev, sebbene, nelle dichiarazioni ufficiali, Teheran continui ad affermare la sua neutralità nel conflitto.
Iran e Arabia Saudita: rivalità e amicizia
A questo si aggiunge il riavvicinamento tra Iran e Arabia Saudita, dopo la crisi diplomatica del 2016, che si sono rincontrati nelle scorse settimane in via ufficiale grazie alla mediazione cinese, a conferma che i due paesi, nei momenti critici, o quando è necessario stabilire per esempio i livelli di produzione e i prezzi del petrolio in sede Opec, trovano sempre un accordo che assicuri benefici sia per Teheran sia per Riyad.
In altre parole, così come Russia e Stati Uniti non rappresentano modelli alternativi nella gestione dei conflitti geopolitici regionali, non lo sono neppure Iran e Arabia Saudita, impegnati entrambi a sostenere i rispettivi attori politici di riferimento per procura in Siria, Libia, Iraq, Afghanistan, Libano e Yemen. I grandi nemici, o dipinti come tali dai media occidentali, riescono sempre ad accordarsi invece quando sono in gioco i loro interessi. E hanno entrambi torto quando hanno a che fare con i movimenti di contestazione e non rappresentano in nessun caso un’alternativa l’uno all’altro. Così come le rivendicazioni per i diritti e l’uguaglianza dei lavoratori e delle donne saudite, qatarine e del Golfo non sono meno rilevanti di quelle delle donne iraniane.
Proprio la disastrosa guerra degli Stati Uniti in Iraq del 2003, di cui ricorre il ventennale, e il progressivo disimpegno di Washington dal Medio Oriente che ha contribuito per esempio al ritorno dei talebani in Afghanistan nell’agosto 2021, hanno lasciato uno spazio senza precedenti alle autorità iraniane nei paesi vicini. E così le proteste giovanili e con una grande presenza femminile del 2019 in Libano e in Iraq oltre ad essere anti-americane erano anche mobilitazioni contrarie all’influenza dell’Iran nei due paesi. In altre parole, scegliere con chi stare tra Turchia, Iran e Arabia Saudita, così come schierarsi tra Russia e Nato, non è una vera scelta tra due alternative. E non è su questo su cui dovrebbe interrogarsi la sinistra oggi.
Appartenere alla sinistra nel 2023 significa, come sempre invece, essere contro la guerra, in Iraq come in Ucraina, sostenere la società civile e le opposizioni in questi paesi, e in particolare i movimenti. Significa stare con gli oppositori russi, con i curdi del Rojava, con le migliaia di prigionieri di coscienza, come Alaa Abdel Fattah in Egitto, con il fronte «anti-fascista» in Tunisia, inclusi giornalisti, sindacati e con tutti coloro che combattono la xenofobia di Kaes Saied che ha messo a rischio i migranti subsahariani nel paese, costringendoli a una fuga senza precedenti, e con i movimenti iraniani che chiedono la fine dei limiti imposti ai diritti di tutti da parte degli ayatollah che hanno tradito la rivoluzione del 1979.
Articolo tratto da Effimera e da https://www.nazioneindiana.com/2023/05/10/sinistra-movimenti-e-guerra-in-ucraina/
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