Il bisogno di sconfinare
Il tema dei confini è quanto mai vasto e complesso. Un confine diventa visibile mediante segni che lo rendano individuabile: cartelli stradali, filo spinato, muri. Ma esistono confini anche culturali, linguistici, religiosi… Intanto, se da un lato merci e denaro circolano più liberamente, i movimenti delle persone sono soggetti a controlli sempre più capillari e a restrizioni. L’introduzione di un saggio, decisamente attuale, di Marco Aime e Davide Papotti: Confini. Realtà e invenzioni (ed. Gruppo Abele)
Se il confine crea di frequente problemi e produce diversità, a volte anche la sua mancanza o la sua indeterminatezza è fonte di incomprensioni. Ci sono casi, infatti, in cui i confini non sono condivisi dalle parti in causa, in quanto non sanciti da accordi bilaterali. Nel loro Atlante delle frontiere, Bruno Tertrais e Delphine Papin riportano molti casi in cui la linea del cessate il fuoco tracciata alla fine di un conflitto, per fare tacere le armi, finisce poi per diventare un limite definitivo, anche se i contendenti non la riconoscono. In Africa, ad esempio, circa i due terzi dei confini nazionali non sono ancora stati delimitati. Un’altra regione in cui i confini sono fortemente contestati è il Kashmir, dove le carte geografiche di Cina, India e Pakistan si sovrappongono su territori che ciascuno considera propri. […]
Tale indeterminatezza non permette di stabilire e limitare i diritti degli uni e degli altri; non a caso, quando due popoli vicini fanno la pace dopo un conflitto, prima di ogni altra cosa stabiliscono un confine tra i rispettivi territori. Anche l’Unione Europea opera in una situazione di confini non sempre chiari. Il trattato di Schengen ha eliminato i confini interni, permettendo la libera circolazione. Le frontiere di Schengen sono però diverse da quelle dell’Unione Europea e queste, peraltro, non coincidono con la Zona euro. Per quanto riguarda l’esterno, la politica europea degli ultimi anni è stata essenzialmente finalizzata a «esternalizzare» i propri confini, delegandone il controllo ad altri Paesi, come Libia e Turchia. La frontiera europea si moltiplica così in molte sottofrontiere. […]
Tale continuo spostamento dei confini, finisce per creare un’area di frontiera, meno determinata, in cui le regole sono meno definite. Qui il confine non è così immediatamente percepibile come nella maggior parte dei casi, ma è sfumato, anche se non per questo meno efficace nel contrastare i movimenti degli individui. Nella realtà quotidiana, infatti, un confine diventa visibile solo mediante segni che lo rendano individuabile: cippi, pietre di confine, cartelli stradali, filo spinato, muri… È grazie a questi segni che la sovranità nazionale viene percepita sensorialmente. Molti di noi si erano illusi che, dopo la caduta del Muro di Berlino nel novembre del 1989, l’epoca dei muri fosse sostanzialmente finita, ma così non è stato: per ogni chilometro del Muro di Berlino abbattuto, ne sono nati centosettantadue di nuove frontiere. Solo in Eurasia sono sorti ventisettemila chilometri di nuovi confini. La cosa appare ancora più paradossale se pensiamo che il processo di globalizzazione, per certi versi, ha reso meno rilevanti le frontiere storiche, geografiche e culturali. Al contempo, però, certi confini diventano sempre più insuperabili. Se da un lato merci e denaro circolano più liberamente, i movimenti delle persone sono soggetti a controlli sempre più capillari. In seguito alla crescita, a scala globale, dei processi migratori, sono nati in molte parti del mondo partiti e movimenti che si oppongono all’ingresso di stranieri nei loro confini, facendo un uso politico di questo fenomeno. Accade così che, come scrive Michel Foucher: «Ristabilire la visibilità delle frontiere placa l’ansia culturale di fronte ai rumori e ai furori del mondo».
È il caso di Lampedusa, diventata confine, limite ultimo di un’Europa che neppure aveva coscienza di estendersi geograficamente così a sud, e di un’Italia che di quell’isola quasi ignorava l’esistenza fino a pochi anni fa. Lampedusa non era confine, lo è diventata a seguito di un processo di frontierizzazione. Non è stata certo la natura a fare di Lampedusa il confine che oggi conosciamo. Il «grado di confinità» qui viene innalzato fino al massimo grado. Come? Con una progressiva istituzionalizzazione, mediatizzazione e politicizzazione degli eventi. Con il passare del tempo sull’isola è aumentato il numero di operatori, forze dell’ordine, giornalisti, ricercatori. La copertura mediatica ha trasformato uno scoglio fino a quel momento pressoché ignorato in una sorta di avamposto della difesa nazionale ed europea. È stato costruito un muro in mezzo al mare.
«Lei non è del Castello, lei non è del paese, lei non è nulla. Eppure, anche lei è qualcosa, sventuratamente, è un forestiero, uno che è sempre di troppo e sempre fra i piedi, uno che vi procura un mucchio di grattacapi».
Con queste parole l’ostessa de Il castello di Franz Kafka si rivolge all’agrimensore K. Un confine produce inevitabilmente stranieri. Dal momento che migrare significa attraversare i confini, ecco che le migrazioni producono, agli occhi dei locali, un’alterazione dell’equilibrio, una contaminazione del noi. Lo straniero è dunque uno che non appartiene, che è fuori luogo; è proprio un confine spaziale, culturale, ideologico che fa di lui uno straniero.
Non sempre sono necessarie le mura di un castello per definire un dentro e un fuori. Se i confini visibili creano indubitabilmente una percepibile differenza, non tutte le linee di divisione sono necessariamente materiali: esistono confini culturali, linguistici, religiosi, di genere. La differenza può dunque essere costruita anche senza essere demarcata in uno spazio fisico. Pur vivendo a livello mentale, le delimitazioni non sono per questo meno efficaci. Basti pensare al razzismo, che classifica e inferiorizza altri gruppi umani sulla base di un errato pregiudizio o del colore della pelle. […]
Il tema dei confini è quanto mai vasto e complesso e siamo ben consci dei limiti che questo piccolo saggio porta con sé. Abbiamo cercato di rendere il più possibile l’idea su cosa sono e come funzionano diversi tipi di confini e di frontiere, senza pretesa di esaustività. […] Il lavoro è nato da discussioni comuni e sebbene ci sia stata una divisione dei compiti, non è semplice tracciare il confine tra il lavoro dell’uno e quello dell’altro. Il nostro è stato un percorso a sua volta a zigzag sul confine tra discipline; muovendosi tanto sul terreno della geografia quanto su quello dell’antropologia culturale, senza cercare di definire nettamente i due approcci […]
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