“Autorizzare la speranza”: una lettura a più voci #3
[Per Interlinea è uscito un libro importante: Autorizzare la speranza. Giustizia poetica e futuro radicale di Italo Testa. In questo saggio, a cavallo tra teoria della poesia e esemplificazione di poetica, l’autore mette a frutto la propria duplice esperienza di poeta e filosofo. Ne risulta un libro denso di riferimenti e riflessioni, che approfondisce in modo particolare il nesso tra genere poetico e utopia. Abbiamo invitato alcuni autori a realizzare una lettura di questo saggio. I primi due interventi di Vincenzo Bagnoli e Francesco Deotto sono apparsi qui. I due seguenti a firma di Stefano Modeo e Tommaso Di Dio qui. a. i.]
La speranza e l’ellisse di Ipazia
di Maria Borio
1.
La speranza è legata alle idee e ai fatti: nella storia dell’utopia le sono state spesso attribuite capacità di influire non solo sul pensiero astratto, ma anche sull’azione sociale e politica. Tuttavia, la ragione strumentale e le scienze ci hanno assuefatto a considerare la speranza soprattutto come una manifestazione intellettiva e emotiva dell’interiorità. Possiamo autorizzare qualcosa di ideale? Per autorizzare una scelta, un’azione o persino un’idea cerchiamo elementi concreti, di cui appaiono evidenti le cause e prevedibili gli effetti. La parola autorizzare, infatti, sembra trovi giustificazione nel senso normativo del logos e la speranza in quello espressivo. Sperare dipende dalle nostre facoltà proiettive che, da limiti di una certa situazione, premono verso l’esterno un’energia e un progetto, come indica l’etimologia di esprimere: exprimĕre, propriamente “premere fuori”. “Autorizzare la speranza” è un’affermazione che pare metterci alla prova in una prospettiva piuttosto complessa. Possiamo dire che quest’ultima ha due punti di fuga: nel primo convergono le linee del cono visivo frontale – la ragione –, che si introflettono nel secondo punto, da cui nascono le linee di una corrente trasversale – l’intuizione –. I due punti di fuga sono come i fuochi controbilanciati dell’ellisse che segna le orbite celesti, indovinata per la prima volta da Ipazia. La speranza assomiglia a una prospettiva ellittica e mette in rapporto il vedere e l’apparire, la creazione e la decreazione.
2.
Se la speranza è stata spesso connessa al potere d’azione dell’utopia, oggi siamo abituati a credere che sperare possa comunque determinare dei fatti? Veniamo indotti quotidianamente a pensare in termini pragmatici e a fare fatti: ad essi è richiesto soprattutto un riscontro strumentale, non la verifica di un senso che li trascende. Dimentichiamo, però, che i fatti, per essere concepiti, hanno bisogno anche dell’attività di una vita immaginativa. L’immaginazione, allora, non riguarda solo il nostro mondo interiore, ma anche l’esistenza sociale: siamo portati a voler migliorare le cose intorno a noi, a pensare le relazioni in un orizzonte progettuale, fantastichiamo su come saremo e come saranno gli altri, su cosa faremo e faranno. Immaginiamo il futuro in misura non inferiore di come ricordiamo il passato. La vita immaginativa intesse la dimensione del vedere – a cui appartengono anche i fotogrammi memoriali – con quella dell’apparire: dell’evidente e del possibile. I limiti contingenti delle cose che vediamo sfumano nei limiti ipotetici di come appaiono. L’apparire ha un margine di errore, se cerchiamo solo l’esattezza momentanea, ma anche uno di visione, se cerchiamo la progettualità. A questi margini possiamo collegare, ad esempio, la differenza che Giacomo Leopardi indicava tra l’affettazione e l’immaginazione nell’arte: la prima dissimula e distorce il “vero”, perché persegue effetti espressionistici innaturali, mentre la seconda ne favorisce la ricerca, perché stimola la comprensione della natura delle cose e di noi stessi[1]. L’immaginazione, quindi, oltre ad avere una capacità che può indicare un “perfezionamento ontologico delle cose”[2], legando la vita immaginativa a quella sociale, rappresenta anche l’attività della mente che fa individuare l’autentico.
Immaginazione e autenticità sono fra i motori della cultura moderna. L’autenticità, ad esempio, è stata a lungo considerata un valore. Ci ha aiutato a scoprire il nostro sé individuale – ciò che in una persona è realmente e intrinsecamente lei –, e a saperlo esprimere. Ci ha svincolato dai vecchi sistemi che determinavano in modo archetipico la società e la politica. Pensare la società composta da individui, dando credito al potere della libera scelta di ognuno, ha favorito le democrazie. Ma perché è necessaria l’immaginazione? Grazie all’immaginazione abbiamo potuto prefigurare e costruire i progetti in cui realizzare noi stessi in modo autentico e iniziare a vivere autenticamente. La morale si è interiorizzata. Essere in accordo con il nostro sé autentico, infatti, non significa solo comportarsi sinceramente in base a quello che sentiamo come individui, ma vuol dire provare che le azioni sono davvero in armonia con il sé, dandone un riscontro morale nella nostra vita[3]. Non è questo ciò a cui aspirava Walt Whitman quando sognava la democrazia futura come risultato di “un’utopia dell’individualità”[4]?
Da qui all’individualismo il passo è stato breve. Charles Taylor ha messo in evidenza come nella cultura dell’autenticità abbia prevalso l’interesse del singolo: l’ideale si è corrotto in un soggettivismo morale, in un relativismo e in un “liberalismo della neutralità”[5]. La prova che l’essere autentici richiede alla coscienza è alta: un test costante di integrità. Ma l’essere umano è labile, spesso non vuole mettersi in discussione, tende facilmente a perdonarsi, a trovare giustificazioni nei contesti e nelle influenze sociali, per sopravvivere. L’autenticità è diventata, allora, qualcosa di ingenuo e di scomodo: discreditata come ideale, si è iniziato a considerarla una caratteristica non tanto dell’individuo, quanto della materia. L’autenticità assomiglia a un’etichetta che certifica la consistenza e il beneficio strumentale delle cose e dei fatti. E ha perso rilevanza anche l’immaginazione, rinchiusa nei processi inconsci: le è stato strappato il potere proiettivo di un progetto, che ne riconosceva l’importanza nella vita sociale e nella costruzione utopica.
Non facciamo più progetti a lunga scadenza: non siamo più abituati a cercare quello che appare, che si può immaginare o prefigurare, che possa raggiungere una sua manifestazione autentica. Il mondo in cui viviamo ci impone di osservare quello che si vede e seguire la logica utilitaria dei fatti e dei risultati immediati. Siamo informati da valanghe di fatti, notizie il cui contenuto non è necessariamente autentico: le fake news seguono una routine funzionalista, non hanno un interesse ermeneutico. La speranza si atrofizza. Ma fino a che punto riusciremo a essere convinti che l’autenticità sia solo una qualità materiale e non un valore che, per pragmatismo o per una vita meno responsabile, abbiamo scelto di non perseguire? Con un’affermazione come “autorizzare la speranza” possiamo aprire un varco dentro a un sistema avvolto dagli strilli dei fatti, un sentiero di rughe su un volto anestetizzato alle opinioni superficiali, che nasconde l’intelligenza.
3.
“Il fine utopistico della metafisica è l’immaginazione”[6]. Attraverso l’immaginazione la metafisica riesce a concepire la speranza? Ma ogni utopia, sociale o politica, osservata solo secondo i parametri dell’argomentazione filosofica, finisce sempre con l’imbattersi in aporie. Nell’estetica, però, il fine utopistico della metafisica può diventare più intenso e in questa veste particolare farsi conoscere: l’immaginazione estetica può raggiungere una perfezione, che possiamo comprendere grazie all’identità di idea e forma, concetto e percezione. La forma estetica è quella del possibile: essa tende ad essere perfetta in quanto utopica, corrisponde a ciò che appare e si prefigura, non a ciò che si vede ed è unicamente pragmatico. Nell’estetica la realtà viene trasfigurata e l’immaginazione delinea una dimensione radicale di ciò che può accadere: attraverso l’estetica si dà credito all’immaginazione e alla mente si riconosce il potere di dare forma alla potenzialità delle cose[7]. L’immaginazione estetica fa combaciare il poetico e la realtà in una concordia che mostra il possibile come un’espressione di autenticità. La forma estetica compiuta è autentica.
Nella poesia l’immaginazione estetica fa raggiungere all’ordine del possibile una forma estremamente intensificata. Perciò la poesia può essere considerata, come sembra suggerire Italo Testa, uno dei linguaggi più autentici della speranza. La poesia può indicare il possibile come assoluto oppure parte di una serialità. La parola di Paul Celan, ad esempio, ne è un’espressione assoluta: la lingua rappresenta una creazione del possibile e la scrittura si svolge come un’invenzione di realtà. Invece, le differenze specifiche tra le parti in serie nei testi di Francis Ponge rappresentano una decreazione del possibile: ogni tassello delle serie contribuisce a decostruire un sistema, la realtà come dato di fatto unitario, e la riconfigura attraverso un processo differenziale di possibilità.
Il poeta che crea o decrea è simile a un giudice: ma, nell’uno e nell’altro caso, non applica pedissequamente le tavole della legge, non schiaccia l’esperienza sotto i postulati, non si accontenta di seguire la ragione strumentale. Da un lato, il giudice è un “arbitro del diverso”[8], come per Whitman: chi a partire dalla conoscenza dell’individuale, dalla specificità del singolo, dalla sua libertà democratica e dal potere della soggettività immagina un mondo nuovo. Dall’altro lato, è un “mediatore”, come per Simone Weil e Cristina Campo[9]: chi pone la sua individualità in ascolto attento dei rapporti, senza stravolgerli con un’immaginazione febbrile e egocentrica. A partire, dunque, dal potere dell’intersoggettività chi media partecipa a una rete di relazioni prefigurandone delle nuove. Il poeta può essere un giusto perché scardina le griglie utilitariste delle informazioni senza autenticità. Nella poesia si lega la lingua al possibile, l’esattezza alla visione, come i due fuochi dell’ellisse di Ipazia. Si insegue così quel “vero” con cui Leopardi cercava l’autentico, provando a esprimere nel modo più umano possibile un’intelligenza. Thomas Rymer, nel 1678, in The Tragedies of the Last Age Considered, parlava di “giustizia poetica”, formula ripresa da Martha Nussbaum[10]. La poesia – che nei fatti giustizia non ne può fare e, direbbe ancora con ironia Patrizia Cavalli[11], non può cambiare il mondo – è uno dei pochi linguaggi che ci restano per intuire l’autentico, senza il quale, in fondo, non ci sarebbero nemmeno una giustizia o una coscienza.
Note
[1] Cfr. Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, vol. I, a cura di A. M. Moroni, saggi introduttivi di S. Solmi e G. De Robertis, Milano, Mondadori, 1983, pp. 18-20.
[2] Italo Testa, Autorizzare la speranza. Giustizia poetica e futuro radicale, Novara, Interlinea, 2023, p. 21.
[3] Cfr. Lionel Trilling, Sincerità e autenticità, trad. it. di R. Ariano, con un saggio di A. Tagliapietra, Milano, Moretti & Vitali, 2018.
[4] Italo Testa, cit., p. 25.
[5] Charles Taylor, The Ethics of Authenticity, Cambridge and London, Harvard University Press, 1991, p. 17.
[6] Italo Testa, cit., p. 19.
[7] Ivi, p. 37.
[8] Ivi, p. 26.
[9] Cristina Campo, Gli imperdonabili [Attenzione e poesia, 1961], Milano, Adelphi, 1987, p. 165; Ead., Sotto falso nome [Introduzione a Simone Weil, “Attesa di Dio”, 1966], Milano, Adelphi, 1998, p. 177.
[10] Cfr. Martha Nussbaum, Giustizia poetica. Immaginazione letteraria e vita civile, a cura di C. Greblo, trad. it. di G. Bettini, Mimesis, Milano, 2012.
[11] Cfr. Patrizia Cavalli, Le mie poesie non cambieranno il mondo, Torino, Einaudi, 1974.
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