16 maggio 2013

A FUTURA MEMORIA...

Giovanni Lo Dico al Castello di Marineo l'11.5.2013

Sabato scorso, al Castello Beccadelli di Marineo, abbiamo presentato l'autobiografia di Giovanni Lo Dico.
Di seguito potete leggere la relazione letta dal prof. Carmelo Fascella nell'occasione:

    ANTROPOLOGIA E STORIA IN GIOVANNI LO DICO                                                                                                      
    Ritorno in questo castello con molto piacere e anche con un po’ di tristezza, dopo tre anni dalla presentazione del libro La Memoria, gli attrezzi e gli antichi mestieri della terra. Ringrazio Giovanni Lo Dico e Franco Virga che mi ha invitato a proporre il mio punto di vista. Tristezza perché alcune delle persone che erano tra noi tre anni fa, oggi non ci sono più. Mi riferisco a Pietro Fascella e a Valentino Sucato, scomparsi due anni fa a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro. Li ricordo con molto affetto e nostalgia e voglio aprire questa relazione con il loro ricordo, perché penso che a pieno titolo possono entrare nella storia che stiamo raccontando. Una storia che insieme a loro, ha avuto come protagonisti migliaia di braccianti e di contadini. Uomini e donne che con le loro lotte e i loro sacrifici hanno cambiato questo paese, offrendo alle generazioni future, cioè a noi, un avvenire decisamente migliore del presente che essi avevano ereditato dal periodo fascista e dalla monarchia. 

    Ho avuto l’onore di ascoltare e raccogliere le loro testimonianze, insieme a quelle di Lo Dico e Settimo Treppiedi, che poi abbiamo pubblicato nel libro che citavo prima. Molte cose le conoscevo, altre me le avevano raccontate mio padre o mio zio, ma vivere l’esperienza della Banca della Memoria, mi ha reso migliore e più attento ad aspetti della vita, che prima sottovalutavo. Queste persone mi hanno fatto crescere come uomo, come docente e come cittadino. Per questo li ringrazio e cerco di trasmettere la loro storia agli altri. Erano e sono anziani, forse anche vecchi, ma questo non deve rappresentare un ostacolo al confronto e alla discussione, anche se spesso lo diventa, a causa del pregiudizio nei confronti delle persone anziane. È uno strano paese l’Italia, dove i vecchi o sono uomini di potere o non sono niente. Giovanni Lo Dico sta lì a dimostrare l’esatto contrario. Egli non si è mai arreso, non ha mai fatto mancare il suo contributo lucido e sempre ponderato alla comunità, alla famiglia, all’umanità. L’esperienza della Banca della Memoria è continuata in altre forme e presto approderà a una mostra fotografica sui luoghi antichi di Misilmeri, di Marineo e Ciminna. Fotografie scattate dagli studenti, che raccoglieremo in un nuovo libro ricco anche di episodi della vita quotidiana, legati ai luoghi. 

    Per tornare al libro di Giovanni Lo Dico, Finalmente le api mangiarono il miele,  credo che uno dei sentimenti che esso suscita sia il seno di appartenenza all’umanità, un’umanità umiliata, sottomessa, derisa, martirizzata, ma che prorompe sempre con la forza dell’intelligenza e della passione. Oggi tendiamo a cancellare la nostra umanità nelle mille sfaccettature della vita. Spesso non ci ritroviamo più e ci sembra di vivere una dimensione di perenne solitudine e alienazione. Il libro di Giovanni, nella sua semplicità e schiettezza, credo abbia anche questo merito, di riportarci ad una dimensione più umana del nostro essere. La vita di Giovanni ci ricorda che essere uomini significa innanzitutto stare insieme agli altri, condividere con i nostri simili un percorso comune. Io credo che l’avere smarrito la dimensione sociale sia una tra le cause della crisi che oggi stiamo vivendo, in modo così drammatico. Perché, attenzione, non si tratta solo di  economia e politica, ma di qualcosa che ha alle fondamenta una crisi più generale dei rapporti umani, della possibilità di condividere un progetto di vita nel rispetto del pianeta terra che ci ospita. 

    Ed è proprio l’aspetto della comunanza e della coralità, quello sui cui volevo soffermarmi. Esso emerge spesso nel racconto di Giovanni e permea tutta la vicenda umana e politica, che abbraccia si può dire quasi un secolo di storia. Quando Giovanni inizia a descrivere gli anni dell’infanzia, la presenza della comunità ha sempre un ruolo centrale. La vita non è mai descritta come vita del singolo, ma è sempre strettamente legata a quella degli altri, che vivono le stesse condizioni, che devono lottare quotidianamente per la sopravvivenza e scontrarsi con un mondo ostile. Nonostante questo anche la generazione di Giovanni ha avuto un’infanzia. Breve ma intensa, rubata dalla necessità di andare a lavorare già a otto o nove anni, alle dipendenze di quei proprietari terrieri, che nella loro ferocia e nel loro cinismo mostravano il volto più truce del regime fascista e di quello che si può dire essere ancora una sorta di ancien regime. L’onda lunga dell’uguaglianza rivoluzionaria non era giunta in Sicilia, o se vi era giunta era stata oscurata e annientata dal fascismo. Eppure quei bambini avevano il bisogno di giocare, di inventarsi una felicità e una dimensione infantile che cancellasse il dramma di una condizione sociale impietosa. Il racconto di Giovanni si apre a descrivere la vita della strada come una comunità aperta dove tutto è legato, dove ogni uomo, donna e bambino si sentono parte di uno stesso destino e condividono il poco o niente che il sistema gli offre. Ciò che rende ancora più efficace il racconto è che non c’è mai la distanza letteraria, che filtra la realtà nella dimensione ideologica dello scrittore. Nelle pagine di Lo Dico, soprattutto in quelle più lontane da noi, vi è l’autenticità e la sincerità di chi, raccontando se stesso e il suo mondo, finisce col raccontare l’umanità nell’eterna lotta per l’affermazione della dignità e del diritto.
    Vi è poi anche un aspetto antropologico da non trascurare, legato alle descrizioni delle abitudini, dei modi di vivere e di parlare. Penso per esempio alla descrizione delle case, che solo per dare dignità a quelle persone si possono chiamare così. Venti metri quadrati dove vivevano famiglie spesso numerose, con animali e provviste, e bisognava essere fortunati quando c’erano. Di recente, durante una delle nostre escursioni per i vecchi quartieri di Misilmeri, un’anziana signora ci ha aperto la porta della sua vecchia casa, così i ragazzi hanno potuto vedere un esempio delle abitazioni di una volta. La casa era pressoché intatta, con le pareti azzurre, il solaio a mezza altezza, la pila per lavare, la cucina a legna, il pavimento con mattoni di cemento e così via. Ma la cosa che ha colpito di più i ragazzi era l’odore. Quell’odore intenso di vecchio, che nonostante tutto rimaneva impregnato ad ogni cosa. Qualcuno ha rischiato addirittura di svenire ed è corso fuori, all’aria aperta. E bisogna considerare che non vi erano più animali all’interno della casa.
    L’antropologia nel racconto di Giovanni non è mai mera testimonianza, ma ha sempre alla base una visione, una tensione morale che spinge tutti i protagonisti a lottare per riscattarsi e cambiare quella realtà. Quando lo sguardo si allarga ad abbracciare le condizioni disumane del lavoro e dello sfruttamento, allora la dimensione corale diventa quasi epica. In certi momenti si ha l’impressione di trovarsi in una Sicilia che è quasi America, come l’abbiamo conosciuta attraverso i racconti di Steinbeck o Caldwell. L’avventura in treno verso Corleone in cerca di lavoro, la mietitura del grano, le piazze dove ogni mattina si ripeteva una specie di mercato umano (come lo definisce lo stesso Giovanni), sono tutti momenti di una condizione umana che va oltre la dimensione regionale e locale, per diventare universale. In ogni istante di questa storia l’individuo si completa con gli altri, trova negli altri una possibilità di condivisione delle sofferenze e delle paure, ma anche una speranza di lotta e di cambiamento.
    Ed è proprio questo, secondo me, il momento più alto. Quando nel dopoguerra, con la repubblica italiana nata dalla Resistenza, che si va costruendo, con la ritrovata libertà dal fascismo e dalla monarchia, questi braccianti, questo popolo direi, avrà il coraggio e la forza di ergersi come un gigante per conquistare quella dignità legata indissolubilmente al benessere, ai diritti, alle leggi da far rispettare. Paradossalmente essere rivoluzionari allora significava anche questo. Non solo sovvertire l’ordine secolare che vedeva il mondo diviso tra ricchi e poveri, nel solco di un ideale comunista farcito di autenticità cristiana che la Chiesa di quei tempi aveva smarrito, ma anche far rispettare le leggi che il Parlamento approvava e che i proprietari terrieri e i sindaci non applicavano. Una rivoluzione legalitaria che ancora oggi ha il suo valore. Ancora oggi, infatti, in Sicilia e in Italia, cosa ci sarebbe di più rivoluzionario che far rispettare la legge? Ma allora c’erano questi braccianti, c’era il sindacato, c’erano il partito comunista e quello socialista che rappresentavano un baluardo contro lo sfruttamento e la miseria. Allora c’erano soprattutto gli uomini e le donne, dalla statura fisica minuscola, ma dalla dimensione morale di giganti. C’era un movimento, un ideale da raggiungere, semplice e complesso nello stesso tempo, fondamentale e radicale. C’era un movimento che esprimeva e trovava lungo il suo percorso i dirigenti e Giovanni è stato uno di questi dirigenti. E non era facile organizzare e dirigere, non è mai stato facile. Non solo per il rischio di essere denunciati, arrestati, uccisi dalla mafia agraria. Rischio che Giovanni ha corso tante volte, subendo diverse denunce per la sua attività, ma soprattutto non era facile perché quel popolo era psicologicamente subalterno. Aveva sulla coscienza secoli di sottomissione, era in gran parte analfabeta, plagiato dall’ideologia più retriva di un cattolicesimo clericale ingessato e oscurantista. Il compito dei tribuni come Giovanni, era duplice. Organizzare, ma anche incoraggiare, stimolare, cacciare via la paura che si annida nella coscienza del contadino. Giovanni lo ricorda sempre, come a pag. 105, quando spiega ai mezzadri la Legge del 1971 che aboliva la mezzadria e fissava il canone d’affitto delle terre, secondo il reddito dominicale. L’anno successivo però molti altri mezzadri trovarono il coraggio di imporre il rispetto della legge. Oppure quando risponde per le rime alla marchesa Bongiordano che vorrebbe fedeli i contadini: “Fedeli sono i cani, le getta in faccia Giovanni, questi sono uomini che devono difendere la loro dignità!”
    Certo un’analisi storico politica più attenta e documentata potrà sempre trovare i limiti e gli errori di quel periodo. Limiti dovuti alla mancanza di una formazione teorica e politica di quei dirigenti. Il partito comunista li formava con corsi sui maestri del socialismo, l’intensa vita delle sezioni era una palestra culturale , gli scontri con gli avversari nelle piazze e nei comizi lo erano altrettanto, ma certo il tarlo dello stalinismo pesava come un macigno e condizionava le scelte più importanti. Del resto il mondo nel dopoguerra entrò in quella fase chiamata “guerra fredda”, che impediva di fatto il libero sviluppo democratico degli stati che orbiatavano nell’una e nell’altra “sfera di influenza”. Un periodo la cui storia e i cui effetti nelle vicende nazionali deve essere ancora indagato dagli storici. Ma certo lo stalinismo è stato un male che ha permeato per decenni la sinistra italiana e l’ha resa succube di una ideologia controrivoluzionaria. Tuttavia queste colpe non si possono certo imputare a dirigenti come Giovanni Lo Dico. Essi agivano a stretto contatto con le masse, ne erano l’avanguardia cosciente e lucida e da esse non si sono mai allontanate. Proprio questa comunanza e questo essere dentro la vita del popolo credo sia l’aspetto più significativo che emerge dal racconto di Giovanni. È uno dei valori fondamentali che ha permesso a quei braccianti di conquistare i diritti e di ricostruire l’Italia nel dopoguerra. Giovanni, che non ha mai perso la sua lucidità e la capacità di capire le dinamiche politiche e sociali, è consapevole di questo, infatti quando descrive la deriva politica e sociale della sinistra, che inizia negli anni Settanta, punta l’indice proprio sull’individualismo. Avere smarrito la dimensione umana della lotta politica, la solidarietà e la comunanza, tra chi vive un destino comune; avere invece inseguito interessi individuali, è stata la vera causa che ha portato alla sconfitta storica del movimento operaio e contadino del secolo scorso. L’inganno e la violenza stalinista, con la loro rozzezza teorica e il disprezzo per la democrazia, nascondevano una prassi che diventerà dominante: l’opportunismo. Quando all’interno del movimento e soprattutto all’interno del partito comunista, che di quel movimento era la punta più avanzata, cominceranno a prevalere le logiche dell’interesse personale, allora tutto va in frantumi e quella fiducia che le masse avevano verso gli ideali comincia a svanire e a lasciare il posto all’egoismo.  
    Per concludere, io credo che proprio dalla esperienza di uomini come Giovanni, dallo studio delle loro vite, sia possibile ricostruire una nuova speranza per le generazioni future. Raccontare ai giovani, cercando di trarre dalla storia dei valori attuali, può costituire una base di partenza per battere la deriva individualista che oggi rischia di travolgere ogni conquista del passato. D’altro canto l’ideale per Giovanni continua ancora. Da vecchio egli è diventato punto di riferimento per tanti anziani. Quando, passando dalla piazza, Giovanni li vedeva seduti sulle panchine, senza un luogo di incontro, senza un circolo in cui potersi riunire, ecco che il vecchio lottatore torna a far sentire la sua voce. Ancora una volta la spinta all’azione viene dalla presa di coscienza di un destino collettivo, prima che di una condizione personale. Mettere al centro della vita culturale di una comunità questi ideali, attraverso le testimonianze di uomini come Giovanni, io credo sia oggi un compito fondamentale, che gli adulti devono assolvere nei confronti delle nuove generazioni e del futuro stesso dell’umanità.

Carmelo Fascella

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