Giovanni Lo Dico al Castello di Marineo l'11.5.2013
Sabato scorso, al Castello Beccadelli di Marineo, abbiamo presentato l'autobiografia di Giovanni Lo Dico.
Di seguito potete leggere la relazione letta dal prof. Carmelo Fascella nell'occasione:
ANTROPOLOGIA E STORIA IN GIOVANNI LO DICO
Ritorno in questo castello con
molto piacere e anche con un po’ di tristezza, dopo tre anni dalla
presentazione del libro La Memoria, gli
attrezzi e gli antichi mestieri della terra. Ringrazio Giovanni Lo Dico e
Franco Virga che mi ha invitato a proporre il mio punto di vista. Tristezza
perché alcune delle persone che erano tra noi tre anni fa, oggi non ci sono
più. Mi riferisco a Pietro Fascella e a Valentino Sucato, scomparsi due anni fa
a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro. Li ricordo con molto affetto e
nostalgia e voglio aprire questa relazione con il loro ricordo, perché penso
che a pieno titolo possono entrare nella storia che stiamo raccontando. Una
storia che insieme a loro, ha avuto come protagonisti migliaia di braccianti e
di contadini. Uomini e donne che con le loro lotte e i loro sacrifici hanno
cambiato questo paese, offrendo alle generazioni future, cioè a noi, un
avvenire decisamente migliore del presente che essi avevano ereditato dal
periodo fascista e dalla monarchia.
Ho avuto l’onore di ascoltare
e raccogliere le loro testimonianze, insieme a quelle di Lo Dico e Settimo
Treppiedi, che poi abbiamo pubblicato nel libro che citavo prima. Molte cose le
conoscevo, altre me le avevano raccontate mio padre o mio zio, ma vivere l’esperienza
della Banca della Memoria, mi ha reso
migliore e più attento ad aspetti della vita, che prima sottovalutavo. Queste
persone mi hanno fatto crescere come uomo, come docente e come cittadino. Per
questo li ringrazio e cerco di trasmettere la loro storia agli altri. Erano e
sono anziani, forse anche vecchi, ma questo non deve rappresentare un ostacolo
al confronto e alla discussione, anche se spesso lo diventa, a causa del
pregiudizio nei confronti delle persone anziane. È uno strano paese l’Italia, dove
i vecchi o sono uomini di potere o non sono niente. Giovanni Lo Dico sta lì a
dimostrare l’esatto contrario. Egli non si è mai arreso, non ha mai fatto
mancare il suo contributo lucido e sempre ponderato alla comunità, alla
famiglia, all’umanità. L’esperienza della Banca della Memoria è continuata in
altre forme e presto approderà a una mostra fotografica sui luoghi antichi di
Misilmeri, di Marineo e Ciminna. Fotografie scattate dagli studenti, che
raccoglieremo in un nuovo libro ricco anche di episodi della vita quotidiana,
legati ai luoghi.
Per tornare al libro di
Giovanni Lo Dico, Finalmente le api
mangiarono il miele, credo che uno
dei sentimenti che esso suscita sia il seno di appartenenza all’umanità,
un’umanità umiliata, sottomessa, derisa, martirizzata, ma che prorompe sempre
con la forza dell’intelligenza e della passione. Oggi tendiamo a cancellare la
nostra umanità nelle mille sfaccettature della vita. Spesso non ci ritroviamo
più e ci sembra di vivere una dimensione di perenne solitudine e alienazione.
Il libro di Giovanni, nella sua semplicità e schiettezza, credo abbia anche
questo merito, di riportarci ad una dimensione più umana del nostro essere. La
vita di Giovanni ci ricorda che essere uomini significa innanzitutto stare
insieme agli altri, condividere con i nostri simili un percorso comune. Io
credo che l’avere smarrito la dimensione sociale sia una tra le cause della
crisi che oggi stiamo vivendo, in modo così drammatico. Perché, attenzione, non
si tratta solo di economia e politica,
ma di qualcosa che ha alle fondamenta una crisi più generale dei rapporti
umani, della possibilità di condividere un progetto di vita nel rispetto del
pianeta terra che ci ospita.
Ed è proprio l’aspetto della
comunanza e della coralità, quello sui cui volevo soffermarmi. Esso emerge
spesso nel racconto di Giovanni e permea tutta la vicenda umana e politica, che
abbraccia si può dire quasi un secolo di storia. Quando Giovanni inizia a
descrivere gli anni dell’infanzia, la presenza della comunità ha sempre un
ruolo centrale. La vita non è mai descritta come vita del singolo, ma è sempre
strettamente legata a quella degli altri, che vivono le stesse condizioni, che
devono lottare quotidianamente per la sopravvivenza e scontrarsi con un mondo
ostile. Nonostante questo anche la generazione di Giovanni ha avuto
un’infanzia. Breve ma intensa, rubata dalla necessità di andare a lavorare già
a otto o nove anni, alle dipendenze di quei proprietari terrieri, che nella
loro ferocia e nel loro cinismo mostravano il volto più truce del regime
fascista e di quello che si può dire essere ancora una sorta di ancien regime.
L’onda lunga dell’uguaglianza rivoluzionaria non era giunta in Sicilia, o se vi
era giunta era stata oscurata e annientata dal fascismo. Eppure quei bambini
avevano il bisogno di giocare, di inventarsi una felicità e una dimensione
infantile che cancellasse il dramma di una condizione sociale impietosa. Il
racconto di Giovanni si apre a descrivere la vita della strada come una
comunità aperta dove tutto è legato, dove ogni uomo, donna e bambino si sentono
parte di uno stesso destino e condividono il poco o niente che il sistema gli
offre. Ciò che rende ancora più efficace il racconto è che non c’è mai la
distanza letteraria, che filtra la realtà nella dimensione ideologica dello
scrittore. Nelle pagine di Lo Dico, soprattutto in quelle più lontane da noi,
vi è l’autenticità e la sincerità di chi, raccontando se stesso e il suo mondo,
finisce col raccontare l’umanità nell’eterna lotta per l’affermazione della
dignità e del diritto.
Vi è poi anche un aspetto
antropologico da non trascurare, legato alle descrizioni delle abitudini, dei
modi di vivere e di parlare. Penso per esempio alla descrizione delle case, che
solo per dare dignità a quelle persone si possono chiamare così. Venti metri
quadrati dove vivevano famiglie spesso numerose, con animali e provviste, e
bisognava essere fortunati quando c’erano. Di recente, durante una delle nostre
escursioni per i vecchi quartieri di Misilmeri, un’anziana signora ci ha aperto
la porta della sua vecchia casa, così i ragazzi hanno potuto vedere un esempio
delle abitazioni di una volta. La casa era pressoché intatta, con le pareti
azzurre, il solaio a mezza altezza, la pila per lavare, la cucina a legna, il pavimento
con mattoni di cemento e così via. Ma la cosa che ha colpito di più i ragazzi
era l’odore. Quell’odore intenso di vecchio, che nonostante tutto rimaneva
impregnato ad ogni cosa. Qualcuno ha rischiato addirittura di svenire ed è
corso fuori, all’aria aperta. E bisogna considerare che non vi erano più
animali all’interno della casa.
L’antropologia nel racconto di
Giovanni non è mai mera testimonianza, ma ha sempre alla base una visione, una
tensione morale che spinge tutti i protagonisti a lottare per riscattarsi e
cambiare quella realtà. Quando lo sguardo si allarga ad abbracciare le
condizioni disumane del lavoro e dello sfruttamento, allora la dimensione
corale diventa quasi epica. In certi momenti si ha l’impressione di trovarsi in
una Sicilia che è quasi America, come l’abbiamo conosciuta attraverso i
racconti di Steinbeck o Caldwell. L’avventura in treno verso Corleone in cerca
di lavoro, la mietitura del grano, le piazze dove ogni mattina si ripeteva una
specie di mercato umano (come lo definisce lo stesso Giovanni), sono tutti
momenti di una condizione umana che va oltre la dimensione regionale e locale,
per diventare universale. In ogni istante di questa storia l’individuo si
completa con gli altri, trova negli altri una possibilità di condivisione delle
sofferenze e delle paure, ma anche una speranza di lotta e di cambiamento.
Ed è proprio questo, secondo
me, il momento più alto. Quando nel dopoguerra, con la repubblica italiana nata
dalla Resistenza, che si va costruendo, con la ritrovata libertà dal fascismo e
dalla monarchia, questi braccianti, questo popolo direi, avrà il coraggio e la
forza di ergersi come un gigante per conquistare quella dignità legata
indissolubilmente al benessere, ai diritti, alle leggi da far rispettare. Paradossalmente
essere rivoluzionari allora significava anche questo. Non solo sovvertire
l’ordine secolare che vedeva il mondo diviso tra ricchi e poveri, nel solco di
un ideale comunista farcito di autenticità cristiana che la Chiesa di quei
tempi aveva smarrito, ma anche far rispettare le leggi che il Parlamento
approvava e che i proprietari terrieri e i sindaci non applicavano. Una
rivoluzione legalitaria che ancora oggi ha il suo valore. Ancora oggi, infatti,
in Sicilia e in Italia, cosa ci sarebbe di più rivoluzionario che far
rispettare la legge? Ma allora c’erano questi braccianti, c’era il sindacato,
c’erano il partito comunista e quello socialista che rappresentavano un
baluardo contro lo sfruttamento e la miseria. Allora c’erano soprattutto gli
uomini e le donne, dalla statura fisica minuscola, ma dalla dimensione morale
di giganti. C’era un movimento, un ideale da raggiungere, semplice e complesso
nello stesso tempo, fondamentale e radicale. C’era un movimento che esprimeva e
trovava lungo il suo percorso i dirigenti e Giovanni è stato uno di questi
dirigenti. E non era facile organizzare e dirigere, non è mai stato facile. Non
solo per il rischio di essere denunciati, arrestati, uccisi dalla mafia
agraria. Rischio che Giovanni ha corso tante volte, subendo diverse denunce per
la sua attività, ma soprattutto non era facile perché quel popolo era
psicologicamente subalterno. Aveva sulla coscienza secoli di sottomissione, era
in gran parte analfabeta, plagiato dall’ideologia più retriva di un cattolicesimo
clericale ingessato e oscurantista. Il compito dei tribuni come Giovanni, era
duplice. Organizzare, ma anche incoraggiare, stimolare, cacciare via la paura
che si annida nella coscienza del contadino. Giovanni lo ricorda sempre, come a
pag. 105, quando spiega ai mezzadri la Legge del 1971 che aboliva la mezzadria
e fissava il canone d’affitto delle terre, secondo il reddito dominicale.
L’anno successivo però molti altri mezzadri trovarono il coraggio di imporre il
rispetto della legge. Oppure quando risponde per le rime alla marchesa
Bongiordano che vorrebbe fedeli i contadini: “Fedeli sono i cani, le getta in
faccia Giovanni, questi sono uomini che devono difendere la loro dignità!”
Certo un’analisi storico
politica più attenta e documentata potrà sempre trovare i limiti e gli errori
di quel periodo. Limiti dovuti alla mancanza di una formazione teorica e
politica di quei dirigenti. Il partito comunista li formava con corsi sui
maestri del socialismo, l’intensa vita delle sezioni era una palestra culturale
, gli scontri con gli avversari nelle piazze e nei comizi lo erano altrettanto,
ma certo il tarlo dello stalinismo pesava come un macigno e condizionava le
scelte più importanti. Del resto il mondo nel dopoguerra entrò in quella fase
chiamata “guerra fredda”, che impediva di fatto il libero sviluppo democratico
degli stati che orbiatavano nell’una e nell’altra “sfera di influenza”. Un
periodo la cui storia e i cui effetti nelle vicende nazionali deve essere
ancora indagato dagli storici. Ma certo lo stalinismo è stato un male che ha
permeato per decenni la sinistra italiana e l’ha resa succube di una ideologia
controrivoluzionaria. Tuttavia queste colpe non si possono certo imputare a
dirigenti come Giovanni Lo Dico. Essi agivano a stretto contatto con le masse,
ne erano l’avanguardia cosciente e lucida e da esse non si sono mai
allontanate. Proprio questa comunanza e questo essere dentro la vita del popolo
credo sia l’aspetto più significativo che emerge dal racconto di Giovanni. È
uno dei valori fondamentali che ha permesso a quei braccianti di conquistare i
diritti e di ricostruire l’Italia nel dopoguerra. Giovanni, che non ha mai
perso la sua lucidità e la capacità di capire le dinamiche politiche e sociali,
è consapevole di questo, infatti quando descrive la deriva politica e sociale
della sinistra, che inizia negli anni Settanta, punta l’indice proprio
sull’individualismo. Avere smarrito la dimensione umana della lotta politica,
la solidarietà e la comunanza, tra chi vive un destino comune; avere invece
inseguito interessi individuali, è stata la vera causa che ha portato alla
sconfitta storica del movimento operaio e contadino del secolo scorso.
L’inganno e la violenza stalinista, con la loro rozzezza teorica e il disprezzo
per la democrazia, nascondevano una prassi che diventerà dominante:
l’opportunismo. Quando all’interno del movimento e soprattutto all’interno del
partito comunista, che di quel movimento era la punta più avanzata,
cominceranno a prevalere le logiche dell’interesse personale, allora tutto va
in frantumi e quella fiducia che le masse avevano verso gli ideali comincia a
svanire e a lasciare il posto all’egoismo.
Per concludere, io credo che
proprio dalla esperienza di uomini come Giovanni, dallo studio delle loro vite,
sia possibile ricostruire una nuova speranza per le generazioni future.
Raccontare ai giovani, cercando di trarre dalla storia dei valori attuali, può
costituire una base di partenza per battere la deriva individualista che oggi
rischia di travolgere ogni conquista del passato. D’altro canto l’ideale per
Giovanni continua ancora. Da vecchio egli è diventato punto di riferimento per
tanti anziani. Quando, passando dalla piazza, Giovanni li vedeva seduti sulle
panchine, senza un luogo di incontro, senza un circolo in cui potersi riunire,
ecco che il vecchio lottatore torna a far sentire la sua voce. Ancora una volta
la spinta all’azione viene dalla presa di coscienza di un destino collettivo,
prima che di una condizione personale. Mettere al centro della vita culturale
di una comunità questi ideali, attraverso le testimonianze di uomini come
Giovanni, io credo sia oggi un compito fondamentale, che gli adulti devono
assolvere nei confronti delle nuove generazioni e del futuro stesso
dell’umanità.
Carmelo Fascella
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