Su Il Sole 24 Ore di oggi ho trovato una splendida pagina di Umberto Eco dedicata a Italo Calvino. Secondo il filosofo si deve all’ autore del Barone rampante l’idea del ruolo dell’intellettuale, né organico né pifferaio della rivoluzione ma distaccato osservatore critico della realtà.
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Umberto Eco – Sulla leggerezza di Italo Calvino
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Vorrei parlare del libro di Calvino che amo di
più, Il barone rampante, e spiegare perché è rimasto sempre un testo
che mi ha accompagnato durante tutta la mia vita, come una sorta di manifesto
politico e morale.
Capisco che possa suonare strano parlare di
lezioni morali e politiche per un libro che, al momento della sua
pubblicazione, portò molti intellettuali impegnati italiani a lamentarsi del
fatto che II visconte dimezzato (uscito sei anni prima) non
rappresentasse più una parentesi nel lavoro di un narratore caratterizzato da
una vena realista. Con questo nuovo romanzo, Calvino abbandonava
definitivamente II sentiero dei nidi di ragno per una poetica del
fantastico muovendosi per mondi possibili, galassie cosmicomiche, città
invisibili e traiettorie astrali zenoniane.
Si fa fatica, oggi, a immaginare quanto la
sinistra ufficiale italiana fu disturbata dal Barone rampante; è
sufficiente ricordare che, nello stesso decennio, Luchino Visconti, che era un
intellettuale comunista, osò rivolgersi, con il suo Senso, non a una
storia di lavoratori, ma alla passione romantica e decadente di due amanti del
XIX secolo, e ne ottenne, in pratica, la scomunica da parte dei difensori del
cosiddetto realismo socialista. Vorrei farvi capire perché, per un giovane di
venticinque anni – tanti ne avevo quando lessi II barone rampante nel
1957 – questo libro ebbe un impatto tanto devastante sulla mia nozione di
impegno politico, o del ruolo sociale dell’intellettuale.
È superfluo ricordare che il libro mi colpì come
uno stupendo lavoro letterario, facendomi sognare quei boschi incantati di
Ombrosa, che digradavano superbi verso il mare. Alcuni giorni fa ho riletto il
romanzo, ricavandone la stessa sensazione di felicità, «catturata nuovamente
dall’incantesimo di una lingua trasparente, attraverso la quale (e non certo
contro la quale) mi pareva di arrampicarmi, in maniera quasi fisica, di ramo in
ramo con Cosimo, e di diventare poi un rigogolo, uno scoiattolo, un gatto
selvatico, un passero, o persino una foglia d’ulivo o di ciliegio.
Quella del Barone rampante è una lingua
cristallina, e Calvino (si veda la terza delle sue Lezioni americane)
ha detto che il cristallo, con la sua sfaccettatura precisa e la sua
capacità di riflettere la luce, era il modello di perfezione che aveva sempre
accarezzato, come un simbolo. Ma nel 1957 la mia reazione principale fu,
più che estetica, di natura filosofica - il che non dovrebbe stupire
nessuno, dato che ero alle prese non con una fiaba (come molti la
considerarono) ma con un grande conte philosophique.
Tra gli anni Quaranta
e Cinquanta, i giovani intellettuali (poco importa se cattolici o comunisti)
erano ossessionati dal dovere morale di essere – come si usava dire –
“organici” al proprio gruppo ideologico. Davvero, era facile avvertire il
ricatto di questa chiamata generale alle armi, al dovere della militanza, di
usare il proprio potere intellettuale nella lotta contro i nemici ideologici.
Solo due voci si erano levate contro questa concezione del ruolo degli
intellettuali. Una, negli anni Quaranta, era stata quella di Elio Vittorini,
con il quale Calvino aveva collaborato in gioventù e, più tardi, nel corso
degli anni Sessanta, curando insieme «Il menabò», una rivista che doveva
influenzare enormemente il corso della letteratura italiana di quel decennio.
Vittorini disse, nel 1947, che gli intellettuali non dovevano suonare il
piffero della rivoluzione. Con questo, egli intendeva dire che non dovevano
diventare gli agenti stampa del loro gruppo politico, ma invece incarnarne la
coscienza critica. Vittorini, all’epoca, apparteneva al partito comunista e
curava una rivista abbastanza indipendente e dalla vita breve, «Il
Politecnico». Ovviamente venne considerato un traditore del proletariato. «Il
Politecnico» morì, e l’appello di Vittorini rimase a lungo inascoltato.
Nel 1955, fummo affascinati da un libro di
filosofia politica, Politica e cultura di Norberto Bobbio, che
disegnava in maniera più rigorosa il profilo di un intellettuale che fa il
proprio dovere cercando una verità che non si identifica con la verità
ideologica del proprio gruppo. Laddove Vittorini aveva solo lanciato uno
slogan, Bobbio sviluppava una severissima argomentazione filosofica.
Rispettivamente troppo poco, o troppo, per produrre un’epifania. Questa fu
prodotta dal Barone rampante, che aveva il potere persuasivo di una
parabola, l’attrattiva profonda del mito, il fascino della fiaba e la forza
gentile della poesia.
Calvino ha eliminato dalle prime versioni delle
proprie opere certi paragrafi moraleggianti che avrebbero potuto rendere le sue
lezioni troppo invadenti. Cosimo Piovasco di Rondò non insegna nulla, almeno,
non ai lettori. Si limita a incarnare un esempio. Solo in due punti il romanzo
suggerisce una possibile lettura/interpretazione morale. Il primo punto (nel
capitolo XX) è quello in cui si dice che Cosimo riteneva che, se si voleva
osservare la terra nel modo giusto, bisognava mantenere la giusta distanza da
essa. Il che mi rimanda a un’osservazione dalle Lezioni americane: «È
sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo, ma non
in un rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato di vivere,
una realtà che egli porta con sè, che assume come proprio fardello». Il secondo
punto (nel capitolo XXV) è quello in cui il fratello di Cosimo si domanda,
senza trovar risposta, come la passione di Cosimo per gli affari sociali possa
essere riconciliata con la sua fuga dalla società.
Cosimo decide di trascorretela propria intera
vita aerea sugli alberi, volando via dal mondo terreno. Ma quegli alberi non
sono per lui una torre d’avorio. Dalle loro cime, osserva la realtà,
acquistando una saggezza superiore, proprio perché la gente che egli vede gli
appare piccolissima, e comprende meglio di chiunque altro i problemi dei poveri
esseri umani che hanno la sventura di dover camminare sui propri piedi. Stando
sugli alberi, Cosimo è spinto a prendere attivamente parte alla vita sulle
proprie terre. Nella sua qualità di aristocratico, condivide i problemi degli
emarginati. Trasformandosi in una sorta di dio dispettoso, o di “Schelm”, non
così dissimile dagli animali che gli danno amicizia, nutrimento e vestimento,
trasforma la natura in cultura senza distruggerla, e passo dopo passo è spinto
a impegnarsi nella vita sociale, non solo nel suo piccolo territorio, ma
sull’intera Europa.
Vivendo come un buon selvaggio, si fa uomo
dell’Illuminismo, fuggendo dalla società diventa un leader
rivoluzionario - ma uno che rimarrà sempre capace di criticare coloro che
combattono dalla sua parte, e capace di provare dispiacere e disincanto per gli
eccessi dei propri idoli.
Non nel romanzo, ma in un successivo commento
degli anni Sessanta, Calvino riconobbe che, per essere un personaggio
interessante, Cosimo non sarebbe dovuto essere un misantropo ma piuttosto un
uomo coinvolto nei problemi del proprio tempo. E notò che la solitudine e la
scomoda soggettività erano la vocazione del poeta, dell’esploratore e del
rivoluzionario.
Questo tipo di lezione fu per me fondamentale.
Ricordo che anni dopo, in una di quelle assemblee studentesche
ultrapoliticizzate del 1968, quando mi fu chiesto di definire il ruolo
dell’intellettuale, proposi il romanzo di Calvino come il solo testo affidabile
e, citando Cosimo come modello, dissi che il primo dovere
dell’intellettuale impegnato era quello di vivere sugli alberi per tenersi a
distanza dai propri compagni, per poterli criticare innanzitutto, e non di
fornire slogan contro gli avversari – pronto a fronteggiare un plotone di
esecuzione per testimoniare che le proprie convinzioni sono vere. A quel tempo
non si trattava certamente di una presa di posizione popolare, ma molti degli
studenti che mi fischiarono oggi lavorano per Berlusconi, il leader della
destra italiana.
Perché la lezione suggerita da questo romanzo fu
così convincente per me (e penso, per molti altri in seguito)? Calvino l’ha
spiegato, indirettamente, nelle sue Lezioni americane. Le lezioni
morali sono, di solito, molto pesanti, e l’unica virtù di coloro che riescono a
renderle memorabili è il dono della leggerezza. Aerea come il Barone, la prosa
di Calvino non ha peso, è plus vague et plus soluble dans l’air – sans rien
en lui qui pèse et qui pose, come avrebbe detto Verlaine. O, per
concludere con le parole di Calvino: «Nei momenti in cui il regno dell’umano mi
sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un
altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale. Voglio
dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra
ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica. Le immagini
di leggerezza che io cerco non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla
realtà del presente e del futuro».
Questo Calvino ha saputo farlo, ed è questa
l’eredità che ci lascia.
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Il canone oltre l’Italia
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di Bruno Pischedda
di Bruno Pischedda
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In terra nordamericana,
Italo Calvino e Umberto Eco procedono insieme. Si traducono e si studiano in
maggior misura degli altri connazionali, sono al tempo stesso i più letti e i
più accreditati presso le maggiori fondazioni universitarie, tanto da lasciar
prevedere una comune e durevole canonizzazione. La notizia non sarà nuova, ma
traspare con inattesa limpidezza dal volume Tra Eco e Calvino. Relazioni
rizomatiche, a cura di Rocco Capozzi e desunto da un convegno tenutosi a
Toronto nel 2012. Qui, tra le molte voci autorevoli, spicca quella di Linda
Hutcheon, a cui la vicenda dei due piemontesi o piemontesizzati suona così: «Si
potrebbe dire che Eco romanziere ereditò il mondo letterario che Calvino aveva
contribuito a creare»; mentre Eco, semiologo e teoreta del testo, «contribuì
senza dubbio a creare il mondo critico nel quale il lavoro di Calvino ha
prosperato».
Convincono i tanti
accoppiamenti critici che la raccolta propone: Se una notte d’inverno un
viaggiatore/Il nome della rosa, o Marcovaldo/Diario minimo, Il
sentiero dei nidi di ragno/La misteriosa fiamma della regina Loana. Due
sembrano però i temi dominanti: il rapporto che ambedue gli autori
intrattengono con Borges; e i diversi percorsi che li conducono alle soglie del
postmoderno. Solo su quest’ultimo tema vorrei soffermarmi. Perché una cosa è
affidarsi, come fa Calvino, all’Oulipo (fondato a Parigi da Raymond Queneau e
Georges Perec); altra cosa è pervenire a una neo-narrativa d’intreccio dalle
fila del Gruppo 63, come è il caso di Eco. A ben guardare, l’Oulipo era già un
raggruppamento di inclinazione ricostruttiva, almeno nello spirito, nelle
attitudini profonde. Praticava senza dubbio una vincolistica gratuita e
sorprendente, ma comunque fondata su costrizioni, “regole”; nel pieno di una
stagione che viceversa disarticolava generi e linguaggi sino ai limiti della comunicabilità.
Perciò Calvino ne resta sedotto, e lo assume a strumento validissimo per i suoi
testi più geometrici e combinatori. Diversa sembra la condizione di Eco,
che pure partecipa della voga “potenziale”, ma tardi. Traduce Queneau e i suoi
Esercizi di stile nel 1983; pubblica i lipogrammi di Vocali
nel 1991, quando insomma il passaggio strategico dal fronte avanguardista al
romanzo neo-narrativo si è compiuto da tempo. Ed è un passaggio delicato il
suo, bisognoso di catarsi, di sapiente revisione. Calvino lavora d’altronde in
senso settecentesco, tramite contes, allegorie, fiabe scientifiche,
Eco attinge largamente al romanzo popolare del secolo successivo. Non è tanto
una questione di stile, conciso e cristallino o profuso ed enciclopedico. È che
in tal modo sta per nascere un diverso e forse opposto narrare: là dove Calvino
concettualizza fantasticamente, Eco affabula su metri lunghi e pedagogicamente.
Rocco Capozzi (a cura di), Tra Eco e Calvino. Relazioni rizomatiche, EncycloMedia, Milano, pagg.448, € 25,00
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