26 maggio 2013

UMBERTO ECO SU ITALO CALVINO




Su Il Sole 24 Ore  di oggi ho trovato una splendida pagina di Umberto Eco dedicata a Italo Calvino. Secondo il filosofo si deve all’ autore del Barone rampante l’idea del ruolo dell’intellettuale, né organico né pifferaio della rivoluzione ma distaccato osservatore critico della realtà.
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 Umberto Eco – Sulla leggerezza di Italo Calvino
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Vorrei parlare del libro di Calvino che amo di più, Il barone rampante, e spiegare perché è rimasto sempre un testo che mi ha accompagnato durante tutta la mia vita, come una sorta di manifesto politico e morale.
Capisco che possa suonare strano parlare di lezioni morali e politiche per un libro che, al momento della sua pubblicazione, portò molti intellettuali impegnati italiani a lamentarsi del fatto che II visconte dimezzato (uscito sei anni prima) non rappresentasse più una parentesi nel lavoro di un narratore caratterizzato da una vena realista. Con questo nuovo romanzo, Calvino abbandonava definitivamente II sentiero dei nidi di ragno per una poetica del fantastico muovendosi per mondi possibili, galassie cosmicomiche, città invisibili e traiettorie astrali zenoniane.
Si fa fatica, oggi, a immaginare quanto la sinistra ufficiale italiana fu disturbata dal Barone rampante; è sufficiente ricordare che, nello stesso decennio, Luchino Visconti, che era un intellettuale comunista, osò rivolgersi, con il suo Senso, non a una storia di lavoratori, ma alla passione romantica e decadente di due amanti del XIX secolo, e ne ottenne, in pratica, la scomunica da parte dei difensori del cosiddetto realismo socialista. Vorrei farvi capire perché, per un giovane di venticinque anni – tanti ne avevo quando lessi II barone rampante nel 1957 – questo libro ebbe un impatto tanto devastante sulla mia nozione di impegno politico, o del ruolo sociale dell’intellettuale.
È superfluo ricordare che il libro mi colpì come uno stupendo lavoro letterario, facendomi sognare quei boschi incantati di Ombrosa, che digradavano superbi verso il mare. Alcuni giorni fa ho riletto il romanzo, ricavandone la stessa sensazione di felicità, «catturata nuovamente dall’incantesimo di una lingua trasparente, attraverso la quale (e non certo contro la quale) mi pareva di arrampicarmi, in maniera quasi fisica, di ramo in ramo con Cosimo, e di diventare poi un rigogolo, uno scoiattolo, un gatto selvatico, un passero, o persino una foglia d’ulivo o di ciliegio.
Quella del Barone rampante è una lingua cristallina, e Calvino (si veda la terza delle sue Lezioni americane) ha detto che il cristallo, con la sua sfaccettatura precisa e la sua capacità di riflettere la luce, era il modello di perfezione che aveva sempre accarezzato, come un simbolo. Ma nel 1957 la mia reazione principale fu, più che estetica, di natura filosofica - il che non dovrebbe stupire nessuno, dato che ero alle prese non con una fiaba (come molti la considerarono) ma con un grande conte philosophique.
Tra gli anni Quaranta e Cinquanta, i giovani intellettuali (poco importa se cattolici o comunisti) erano ossessionati dal dovere morale di essere – come si usava dire – “organici” al proprio gruppo ideologico. Davvero, era facile avvertire il ricatto di questa chiamata generale alle armi, al dovere della militanza, di usare il proprio potere intellettuale nella lotta contro i nemici ideologici. Solo due voci si erano levate contro questa concezione del ruolo degli intellettuali. Una, negli anni Quaranta, era stata quella di Elio Vittorini, con il quale Calvino aveva collaborato in gioventù e, più tardi, nel corso degli anni Sessanta, curando insieme «Il menabò», una rivista che doveva influenzare enormemente il corso della letteratura italiana di quel decennio. Vittorini disse, nel 1947, che gli intellettuali non dovevano suonare il piffero della rivoluzione. Con questo, egli intendeva dire che non dovevano diventare gli agenti stampa del loro gruppo politico, ma invece incarnarne la coscienza critica. Vittorini, all’epoca, apparteneva al partito comunista e curava una rivista abbastanza indipendente e dalla vita breve, «Il Politecnico». Ovviamente venne considerato un traditore del proletariato. «Il Politecnico» morì, e l’appello di Vittorini rimase a lungo inascoltato.
Nel 1955, fummo affascinati da un libro di filosofia politica, Politica e cultura di Norberto Bobbio, che disegnava in maniera più rigorosa il profilo di un intellettuale che fa il proprio dovere cercando una verità che non si identifica con la verità ideologica del proprio gruppo. Laddove Vittorini aveva solo lanciato uno slogan, Bobbio sviluppava una severissima argomentazione filosofica. Rispettivamente troppo poco, o troppo, per produrre un’epifania. Questa fu prodotta dal Barone rampante, che aveva il potere persuasivo di una parabola, l’attrattiva profonda del mito, il fascino della fiaba e la forza gentile della poesia.
Calvino ha eliminato dalle prime versioni delle proprie opere certi paragrafi moraleggianti che avrebbero potuto rendere le sue lezioni troppo invadenti. Cosimo Piovasco di Rondò non insegna nulla, almeno, non ai lettori. Si limita a incarnare un esempio. Solo in due punti il romanzo suggerisce una possibile lettura/interpretazione morale. Il primo punto (nel capitolo XX) è quello in cui si dice che Cosimo riteneva che, se si voleva osservare la terra nel modo giusto, bisognava mantenere la giusta distanza da essa. Il che mi rimanda a un’osservazione dalle Lezioni americane: «È sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo, ma non in un rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato di vivere, una realtà che egli porta con sè, che assume come proprio fardello». Il secondo punto (nel capitolo XXV) è quello in cui il fratello di Cosimo si domanda, senza trovar risposta, come la passione di Cosimo per gli affari sociali possa essere riconciliata con la sua fuga dalla società.
Cosimo decide di trascorretela propria intera vita aerea sugli alberi, volando via dal mondo terreno. Ma quegli alberi non sono per lui una torre d’avorio. Dalle loro cime, osserva la realtà, acquistando una saggezza superiore, proprio perché la gente che egli vede gli appare piccolissima, e comprende meglio di chiunque altro i problemi dei poveri esseri umani che hanno la sventura di dover camminare sui propri piedi. Stando sugli alberi, Cosimo è spinto a prendere attivamente parte alla vita sulle proprie terre. Nella sua qualità di aristocratico, condivide i problemi degli emarginati. Trasformandosi in una sorta di dio dispettoso, o di “Schelm”, non così dissimile dagli animali che gli danno amicizia, nutrimento e vestimento, trasforma la natura in cultura senza distruggerla, e passo dopo passo è spinto a impegnarsi nella vita sociale, non solo nel suo piccolo territorio, ma sull’intera Europa.
Vivendo come un buon selvaggio, si fa uomo dell’Illuminismo, fuggendo dalla società diventa un leader rivoluzionario - ma uno che rimarrà sempre capace di criticare coloro che combattono dalla sua parte, e capace di provare dispiacere e disincanto per gli eccessi dei propri idoli.
Non nel romanzo, ma in un successivo commento degli anni Sessanta, Calvino riconobbe che, per essere un personaggio interessante, Cosimo non sarebbe dovuto essere un misantropo ma piuttosto un uomo coinvolto nei problemi del proprio tempo. E notò che la solitudine e la scomoda soggettività erano la vocazione del poeta, dell’esploratore e del rivoluzionario.
Questo tipo di lezione fu per me fondamentale. Ricordo che anni dopo, in una di quelle assemblee studentesche ultrapoliticizzate del 1968, quando mi fu chiesto di definire il ruolo dell’intellettuale, proposi il romanzo di Calvino come il solo testo affidabile e, citando Cosimo come modello, dissi che il primo dovere dell’intellettuale impegnato era quello di vivere sugli alberi per tenersi a distanza dai propri compagni, per poterli criticare innanzitutto, e non di fornire slogan contro gli avversari – pronto a fronteggiare un plotone di esecuzione per testimoniare che le proprie convinzioni sono vere. A quel tempo non si trattava certamente di una presa di posizione popolare, ma molti degli studenti che mi fischiarono oggi lavorano per Berlusconi, il leader della destra italiana.
Perché la lezione suggerita da questo romanzo fu così convincente per me (e penso, per molti altri in seguito)? Calvino l’ha spiegato, indirettamente, nelle sue Lezioni americane. Le lezioni morali sono, di solito, molto pesanti, e l’unica virtù di coloro che riescono a renderle memorabili è il dono della leggerezza. Aerea come il Barone, la prosa di Calvino non ha peso, è plus vague et plus soluble dans l’air – sans rien en lui qui pèse et qui pose, come avrebbe detto Verlaine. O, per concludere con le parole di Calvino: «Nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica. Le immagini di leggerezza che io cerco non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla realtà del presente e del futuro».
Questo Calvino ha saputo farlo, ed è questa l’eredità che ci lascia.
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Il canone oltre l’Italia
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di Bruno Pischedda
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In terra nordamericana, Italo Calvino e Umberto Eco procedono insieme. Si traducono e si studiano in maggior misura degli altri connazionali, sono al tempo stesso i più letti e i più accreditati presso le maggiori fondazioni universitarie, tanto da lasciar prevedere una comune e durevole canonizzazione. La notizia non sarà nuova, ma traspare con inattesa limpidezza dal volume Tra Eco e Calvino. Relazioni rizomatiche, a cura di Rocco Capozzi e desunto da un convegno tenutosi a Toronto nel 2012. Qui, tra le molte voci autorevoli, spicca quella di Linda Hutcheon, a cui la vicenda dei due piemontesi o piemontesizzati suona così: «Si potrebbe dire che Eco romanziere ereditò il mondo letterario che Calvino aveva contribuito a creare»; mentre Eco, semiologo e teoreta del testo, «contribuì senza dubbio a creare il mondo critico nel quale il lavoro di Calvino ha prosperato».
Convincono i tanti accoppiamenti critici che la raccolta propone: Se una notte d’inverno un viaggiatore/Il nome della rosa, o Marcovaldo/Diario minimo, Il sentiero dei nidi di ragno/La misteriosa fiamma della regina Loana. Due sembrano però i temi dominanti: il rapporto che ambedue gli autori intrattengono con Borges; e i diversi percorsi che li conducono alle soglie del postmoderno. Solo su quest’ultimo tema vorrei soffermarmi. Perché una cosa è affidarsi, come fa Calvino, all’Oulipo (fondato a Parigi da Raymond Queneau e Georges Perec); altra cosa è pervenire a una neo-narrativa d’intreccio dalle fila del Gruppo 63, come è il caso di Eco. A ben guardare, l’Oulipo era già un raggruppamento di inclinazione ricostruttiva, almeno nello spirito, nelle attitudini profonde. Praticava senza dubbio una vincolistica gratuita e sorprendente, ma comunque fondata su costrizioni, “regole”; nel pieno di una stagione che viceversa disarticolava generi e linguaggi sino ai limiti della comunicabilità. Perciò Calvino ne resta sedotto, e lo assume a strumento validissimo per i suoi testi più geometrici e combinatori. Diversa sembra la condizione di Eco, che pure partecipa della voga “potenzia­le”, ma tardi. Traduce Queneau e i suoi Eserci­zi di stile nel 1983; pubblica i lipogrammi di Vocali nel 1991, quando insomma il passaggio strategico dal fronte avanguardista al romanzo neo-narrativo si è compiuto da tempo. Ed è un passaggio delicato il suo, bisognoso di catarsi, di sapiente revisione. Calvino lavora d’altronde in senso settecentesco, tramite contes, allegorie, fiabe scientifiche, Eco attinge largamente al romanzo popolare del secolo successivo. Non è tanto una questione di stile, conciso e cristallino o profuso ed enciclopedico. È che in tal modo sta per nascere un diverso e forse opposto narrare: là dove Calvino concettualizza fantasticamente, Eco affabula su metri lunghi e pedagogicamente.
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Rocco Capozzi (a cura di), Tra Eco e Calvino. Relazioni rizomatiche, EncycloMedia, Milano, pagg.448, € 25,00



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