Oggi ci piace ricordare Peppino Impastato
con le parole di Antonio Aloisi:
Peppino, quello impastato col lievito buono
Tenevano dentro l’energia di una tempesta di mare che
sfotte gli scogli, li vota, li gira, li cangia. Ed ogni pensiero obbediva al sopracciglio suo che
inclinava timido a guisa di ragionamento. Dentro al petto caldo, gl’ardeva
quella passione civile che sarebbe esplosa e lo avrebbe dilaniato. Seppellito
per sempre nel vento di una notte di vigilia e tormento, liberato nel nulla: in
mille coriandoli di vuoto. Impastato Peppino lo era per davvero, germoglio di
mala pianta: impastato dalla nascita al parentado sozzo di mafia. Come tronco
d’olivo intorcigliato e simbiotico, nella terra dove la forza misteriosa di
ogni famiglia è: l’inerzia.
L’avvitarsi tutti attorno alla stessa bestemmia, a
quella cosa rossa più forte di patti e alleanze: la legge del sangue; nelle
vene il destino ti scorre lento fin dal primo vagito.
E puoi solo assecondarlo, con l’ossequio del capo
chino, puoi levarti la coppola e aspettare la vita. Oppure, ma non è che sia
scelta allegra, puoi innestare nel fusto tuo smeriglio un ramoscello
d’irresistibile sommossa. Dolce, come l’incoscienza.
Di Peppino s’irradiava la voce grinzata a bassa
frequenza, non oltre le montagne, e correva
beffarda e sfrontata la pernacchia alla Cinisi statica e collusa. Dolce,
l’incoscienza sua aveva strappato all’ignavia di mille giovinezze senza sogni
una legione di disertori. S’erano tuffati tutti insieme in un’Onda Pazza,
sfiorando la libertà a tal punto che ora non potevano farne a meno. Ché non è
faccenda inconsistente la libertà, è sudore e miscela di poesia. È corsa lungo
l’argine dell’illegalità, con la milza che si spappola e le gambe che frignano,
è urlo nella notte quando ti smembrano la vita a tradimento e ti danno alla
morte nera come pacco di merce umana. Ti abbandonano al sospetto che s’insinua
nel contado, alla detonazione che avrebbe voluto fare di te un birbante e non
un sognatore. È faccenda tosta, la libertà: guerriglia a mani nude di ogni
stramaledettissimo giorno. Ciuffo di chioma che s’agita scomposto e non conosce
la noia che, in quelle quattro case tinte di calce e truffe, rassomiglia ai
rosari snocciolati di vespro presto, mentre la cantilena di AveMarie
apre un varco ai pensieri torti. Alle bugie imbottite di paura e cemento.
Invece la bellezza ha la faccia dell’ostinazione, del
piglio tuo di quando ti dicono «maisìa» e tu te ne strafotti: ti aggrappi forte a una bandiera e ti senti il
Redentore. Figlio e nipote ti toccherà di esserlo per sempre (che poi è un
sempre striminzito di soli trent’anni), ma quello del ribelle è un vestito che
ti cuci da solo, col filo anarchico di chi s’è stancato di obbedire. Ché di
padroni è piena la strada, di padroni sono piene le masse e le ideologie, le
messe e le liturgie: puoi solo scegliere di non averne alcuno, altrimenti
millemila ti comandano da sopra. Il dissenso, come la tramontana, ti entra
nelle orecchie e ti sparpaglia i catechismi che hai ingoiato da piccolino: è
musica di batteria e mixer d’Oltreoceano, cultura di libri con dentro le storie
dei grandi e le parole che da sole niente fanno. Solo se poi le ripeti e
qualcuno le sente, il finimondo succede a Mafiopoli: sfami il rancore che
ribollisce dentro le viscere della montagna, lo svezzi e spezzi le catene che
ammanettano l’aria. Le parole sono la sinfonia del caos.
E la parola per dire l’ineffabile era: merda,
scritto bello grosso sul giornale fatto di inchiostro e maramalderia. È assassina micidiale e si porta via la radice da cui vorresti strapparti,
la parola. E certo è niente la parola, se resta sussurro di sillabe e tazebai,
è tanto se si mischia alla polvere della piazza principale e diventa azione,
riappropriazione, occupazione. Si sente l’acciaio della concretezza? È con le
mani che si vince il disimpegno, si prende in braccio il futuro rugginoso di una
terra di muli e lo si cappotta sottosopra. Così che i deboli si sentano
potenti, ed i potenti nienti. Le incertezze poi, dentro casa albergano, hanno
gli occhi di una madre: il lutto indossato e le camicie di un fratello: la
bramosia di serenità. Di questa vita fiera, mai scorderai quanti dubbi ti hanno
levato il sonno e quanti parenti il saluto. A forza di sottrazioni, s’impara a
condividere la battaglia meschina e sincera contro la merda. Contro il padre
tuo e gli sbirri infami –forse che il giusto sta stretto pure nella divisa?–
che dissero il falso per il bene di don Tano.
La notte che lo pigliarono non era un giorno come
tanti, la scialuppa di Caronte salpò da una strada ferrata. Può succedere che pure i necrologi facciano a gara per soffocare la memoria
e strozzare un grido, ché dell’onorevole Moro si sarebbe dovuto parlare molto
assai: giusto così. A pochi giorni dalle elezioni, un comizio più chiassoso non
si poteva congegnare: tutta una città col pugno chiuso -quell'energia, poca,
che rimane- e i manifesti listati a lutto sui mattoni e la radio con le lacrime
nel microfono e la processione che si fa corteo e le candele a rallegrare il
catafalco vuoto. Finirono con l’espropriare l’anima a chi difendeva le terre, e
quel sangue sfasciato nella campagna intrisa di lotte – quel sangue – diventò
nuova legge per tutti quanti sognassero il giusto: fu il delirio il megafono
più rappezzato e vibrante. Fu un terremoto a squarciare le coscienze, sotto il
sole che scalda imbrogli e silenzi, una catastrofe di orgoglio e smarrimento a
due passi dall’aeroporto sghembo e fiacco. Chi prese il volo, quello fu
Peppino. In una bolla di martirio ed emulazione: era il secolo scorso ma mai
quell’oggi fu tanto fatale.
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