Nel sito http://www.leparoleelecose.it/
troviamo oggi la continuazione del saggio precedentemente pubblicato:
Interpretazioni del
capitalismo contemporaneo /2. David Harvey
di Daniele Balicco e Pietro Bianchi
[La prima parte di questo saggio, dedicata a
Fredric Jameson, è uscita qualche giorno fa e si può leggere qui].
Molto diversa rispetto a quella di Jameson – che
resta, nella solo apparente bulimia teorica, un marxista occidentale standard
– l’impostazione teorica di David Harvey. A dire il vero, il suo percorso
intellettuale è così particolare da poter essere considerato quasi un unicum
all’interno delle vicende del marxismo internazionale di fine secolo. Non
soltanto perché il suo ambito disciplinare – la geografia – lo colloca in una
posizione strutturalmente eterodossa rispetto alla tradizione marxista, ma
anche per il relativo isolamento che caratterizzerà buona parte della sua vita
intellettuale, fino all’indubbio successo degli ultimi anni.
Harvey compie la sua formazione all’Università di
Cambridge; le sue prime ricerche di geografia storica riguardano la
coltivazione del luppolo nel Kent del XIX Secolo. Anche il suo primo lavoro
importante, Explanation in Geography8,
pubblicato nel 1969, è relativamente tradizionale. Tuttavia già in questi primi
anni di apprendistato si nota un bisogno positivista di dare respiro
sistematico ad un disciplina, come la geografia, ancora chiusa in quello che
Harvey definisce «eccezionalismo», ovvero la tendenza a concepire i propri
oggetti di studio come una sequenza di casi particolari sprovvisti di una
qualsivoglia legge universale9.
La svolta, allo stesso tempo politica e accademica, avviene nel 1970 con il
trasferimento negli Stati Uniti, alla John Hopkins University di Baltimora. Qui
Harvey inizia a lavorare in un dipartimento interdisciplinare che amplia i suoi
punti di riferimento teorici ben oltre i confini della geografia; incontra un milieu
teorico già orientato verso tematiche radicali, il movimento contro la
guerra del Vietnam e una città che può essere considerata un laboratorio di
sviluppo urbano contemporaneo per le vertiginose ineguaglianze sociali che
produce. Il suo lavoro del 1973, Social Justice and the City10,
rappresenta il suo definitivo incontro con il marxismo. Tuttavia è solo a
partire dalla seconda metà degli anni Settanta, con The Limits to Capital11,
il suo lavoro teorico più ambizioso e più sistematico, che la sua originale
impostazione teorica raggiunge piena maturità. Harvey ci lavora per quasi un
decennio, trascorrendo anche un anno di studi a Parigi (esperienza alla base di
un successivo studio – che è probabilmente il suo capolavoro saggistico – sulla
trasformazione urbanistica, sociale e politica della Parigi di Hausmann12).
Alla pubblicazione del libro, che avverrà solo nel 1982, le reazioni furono
tuttavia abbastanza fredde. Il lavoro venne sostanzialmente ignorato, perfino
nel dibattito economico marxista (unica eccezione, la recensione negativa di
Michael Lebowitz sulla Monthly Review). Harvey scontava senz’altro la
poca familiarità che molti studiosi marxisti avevano con la disciplina
geografica. Tuttavia, non è difficile riconoscere che la lenta penetrazione
delle tesi di Harvey nel dibattito teorico internazionale derivi soprattutto
dalla novità del suo approccio. Oggi, a distanza di oltre tre decenni dalla
pubblicazione, The Limits to Capital è universalmente riconosciuto come
il punto di riferimento imprescindibile di quanto, nella teoria internazionale,
cade sotto il nome di «materialismo storico-geografico».
Harvey costruisce la propria argomentazione attraverso
un confronto serrato con i tre volumi del Capitale, riducendo al minimo
i riferimenti alla letteratura secondaria. La caratterista principale di
quest’opera è infatti quella di essere un appassionato close reading del
testo marxiano. Del resto, i suoi seminari universitari di lettura del Capitale,
che vanno avanti ininterrottamente dal 1971 (e che hanno avuto negli ultimi
anni, grazie alla pubblicazione su web – www.davidharvey.org
– un successo planetario) oltre a provare il suo indubbio talento divulgativo,
mostrano molto bene il suo metodo di lavoro. L’idea di fondo di The Limits
to Capital è relativamente semplice: analizzare il processo di accumulazione
capitalistico attraverso la lente della sua articolazione spaziale.
Diversamente da Jameson, Harvey astrae «da un certo tipo di complessità (la
complessità empirica della vita di ogni giorno), in modo da rendere visibile
un’altra complessità, la complessità dei processi sottostanti che appaiono
nella forme»13.
Seguendo Marx, Harvey legge il rapporto di capitale come un rapporto
strutturalmente fondato su una contraddizione: il processo di accumulazione,
infatti, è per un verso caratterizzato da spiccati tratti di omogeneizzazione
(l’universalità del valore divenuto denaro), ma per un altro tende ad
esprimersi sempre in forme particolari differenti. Alla coppia
concettuale astratto/concreto, che Marx mutua da Hegel, si sovrappone così la
coppia omogeneo/differente. Secondo Harvey, la mobilità e rapidità della
ristrutturazione dei processi di accumulazione intrattiene sempre un rapporto
dialettico con la dimensione concreta dello spazio. Da un lato infatti, la
dimensione spaziale permette e fluidifica i processi di accumulazione in un
certo luogo, ma dall’altro lato può esserne un ostacolo nel momento in cui, ad
esempio, la rigidità del capitale fisso impedisce la rapidità di un processo di
ristrutturazione. In Harvey dunque, lo spazio non è un’alterità inerte e
immutabile che si oppone dall’esterno al processo di accumulazione; semmai è un
soggetto in continua trasformazione (o meglio, il risultato di un rapporto
sociale antagonistico) nel quale si sono sedimentati i cicli precedenti e le
crisi che l’hanno attraversato. È qui che vediamo l’ambiguità della parola limit,
essendo contemporaneamente un ostacolo che frena il processo di accumulazione e
insieme il limite del modo di produzione capitalistico che deve essere superato
ad ogni ciclo.
Per Harvey la circolazione di capitale è
caratterizzata da una fondamentale e ineliminabile instabilità: da un lato
perché si producano dei profitti è necessario impiegare lavoro vivo nel
processo produttivo; dall’altro, l’innovazione tecnologica tende ad espellere
sempre di più lavoro vivo – l’unica fonte del valore – dalla produzione.
Il lavoro vivo, pur necessario, tende paradossalmente ad essere
sostituito dall’innovazione tecnologica nella produzione. Il risultato è quella
forma di irrazionalità capitalistica che emerge nitidamente nei periodi di
crisi, dove coesistono enormi capacità produttive inutilizzate e disoccupazione
di massa. In questi casi, i surplus sia di capitale fisso che di
forza-lavoro, che non riescono a essere assorbiti, inducono un processo di
svalutazione (sotto forma o di merci invendute o di capacità produttive
sottoutilizzate o di disoccupazione). A rigor di logica sarebbe possibile avere,
a seconda dei rapporti di forza o a causa di squilibri nella composizione, solo
surplus di capitale fisso o solo di forza-lavoro. Tuttavia,
Harvey è interessato soprattutto a quei momenti storici nei quali il capitale
incontra una crisi strutturale, dove vi è un surplus che non riesce a
essere assorbito in entrambi i poli della relazione. Questa contraddizione
fondamentale che non può essere risolta una volta per tutta, può tuttavia
generare dei temporanei processi di ristrutturazione che si muoveranno lungo
due direttrici: o temporali o spaziali. Nelle direttrici temporali, attraverso
la creazione di capitale fittizio, viene dilazionato nel tempo l’impatto con lo
squilibrio fondamentale nella produzione (processi di finanziarizzazione). Ma è
sulle direttrici spaziali che Harvey concentra la sua attenzione, contribuendo
ad uno sviluppo innovativo delle teorie marxiane della crisi. La domanda
fondamentale di The Limits to Capital sarà dunque: in che modo il
capitale riesce a evitare momentaneamente la propria svalutazione tramite una
ristrutturazione spaziale?
Secondo Harvey, è indubbio che Marx abbia privilegiato
la dimensione temporale su quella spaziale: «il fine ultimo e l’obiettivo di
chi è impegnato nella circolazione del capitale deve essere, dopotutto,
controllare il surplus di tempo di lavoro e convertirlo in profitto
all’interno del tempo di rotazione socialmente necessario»14.
Tuttavia, se si osservano le dinamiche geografiche dello sviluppo
capitalistico, è altresì indubbio che storicamente il capitale esprima una
continua tensione verso il superamento delle barriere spaziali o, più
precisamente, verso l’annientamento dello spazio mediante il tempo. E tuttavia
questa compressione spazio/temporale può essere raggiunta soltanto tramite una
continua riconfigurazione spaziale. Si giunge così al paradosso di
un’organizzazione dello spazio finalizzata, capitalisticamente, al superamento
dello spazio stesso. Harvey definisce spatial fix il modo attraverso
cui lo spazio organizza il superamento del proprio stesso limite.
Nonostante questi diversi significati di fix
possano apparire contraddittori [ndr: “fissare” “inchiodare” e
“aggiustare” “risolvere un problema”], sono tutti internamente legati all’idea
che qualcosa (una questione, un problema) possa essere corretta e messa al
sicuro. Nella mia concezione del termine, questa contraddizione può essere
usata per far vedere qualcosa di importante delle dinamiche geografiche del
capitalismo e delle sue tendenze alla crisi. In particolare mi sono occupato
del problema della “fissità” (nel senso di essere posto al sicuro) opposta al
movimento e alla mobilità del capitale. Ho notato, per esempio, che il
capitalismo ha bisogno di fissare uno spazio (in strutture immobili di
trasporto e reti di comunicazioni, così come nella costruzione di fabbriche,
strade, case, acquedotti, e altre infrastrutture fisiche) per superare lo
spazio (raggiungere la libertà di movimento attraverso i bassi costi di
trasporto e comunicazione). Questo porta a una delle contraddizioni centrali
del capitale: deve costruire uno spazio fisso (fixed) necessario per il
proprio funzionamento a un certo punto della sua storia soltanto perché poi in
un periodo successivo possa distruggerlo (e svalutare di molto il capitale là
investito) per fare spazio per un nuovo spatial fix (e aprire nuove
possibilità di accumulazione in altri luoghi e territori)15.
Dall’esportazione di capitali o di forza-lavoro
attraverso l’inclusione di nuovi territori nel modo di produzione capitalistico
(imperialismo) allo sviluppo di nuove tecnologie che accorciano tempi di
spostamento di merci o capitali; dal governo territoriale sulla forza-lavoro
(differenziali geografici nel mercato del lavoro) al mercato fondiario e così
via, compito di una teoria marxiana dello spazio è quello di descrivere la
modalità attraverso cui le contraddizioni fondamentali di un processo di accumulazione
si esprimono e si attestano temporaneamente in un dato equilibrio
spaziale.
A partire da The Condition of Postmodernity16
fino ai saggi pubblicati in questi ultimi anni (The New imperialism17;
A Brief History of Neoliberalism18;
The Enigma of Capital19),
Harvey applicherà le categorie elaborate in Limits to Capital
all’attuale fase di accumulazione e alla sua crisi. In particolare, con il
concetto di «accumulazione per espropriazione» (accumulation by dispossession)
Harvey identifica la strategia con cui la classe dominante attuale sta cercando
di ri-configurare un nuovo spazio adeguato alla ripresa dell’accumulazione.
Esproprio e privatizzazione di beni comuni, erosione di quel che resta del welfare
universalistico, attacco alle conquiste sindacali di mezzo secolo, sono tutte
azioni politiche solo apparentemente diversificate, ma che in realtà hanno come
scopo comune l’appropriazione di una serie di “spazi” non del tutto messi a
valore perché ancora parzialmente governati da una logica pubblica.
Con [accumulazione per espropriazione] intendo la
continuazione e proliferazione di pratiche di accumulazione che Marx ha
descritto come ‘primitive’ o ‘originarie’ durante l’ascesa del capitalismo.
Queste includono la mercificazione e la privatizzazione della terra e
l’espulsione forzata di popolazioni di contadini […]; la conversione di varie
forme di proprietà intellettuale (comune, collettiva, statale, etc.) in diritti
di proprietà privata esclusiva […]; la soppressione dei diritti ai beni comuni;
la mercificazione della forza lavoro e la soppressione di forme alternative
(indigene) di produzione e consumo; processi coloniali, neocoloniali, imperiali
di appropriazione di risorse (comprese le risorse naturali); monetizzazione
dello scambio e tassazione, in particolare della terra; la tratta di schiavi
(che continua in particolare nell’industria del sesso); usura, il debito
nazionale e, la più devastante di tutte, l’uso del sistema creditizio come
mezzo radicale di accumulazione per espropriazione.20
Secondo Harvey, dunque, non si può separare il
processo di finanziarizzazione, generato dalla crisi strutturale degli anni
Settanta, dall’impressionante compressione spazio-temporale che l’ha
accompagnato: nel mondo che abitiamo il tempo di accumulazione del
capitale (e la conseguente ristrutturazione spaziale) si è infatti
accelerato in questi ultimi quarant’anni in modo vertiginoso, creando squilibri
e instabiltà che difficilmente potranno assestarsi in un nuovo spatial fix
capace di armonizzarli, seppur transitoriamente, senza passare attraverso un
lungo periodo di caos e di distruzioni massicce di capitale; e, naturalmente,
di vita.
Note
8D. Harvey, Explanation
in Geography, Edward Arnold, London 1969.
9 P.Anderson
– D.Harvey, Reinventing Geography in New Left Review, IV, 2000,
pp. 75-97.
10D. Harvey, Social
Justice and the City, John Hopkins University Press, Baltimore 1973.
11Id, Limits
to Capital, Blackwell, Oxford 1982.
12Id, Paris.
Capital of Modernity, Routledge, London – New York 2003.
13 Ibidem.
14D. Harvey, The
geopolitics of capitalism, in D. Gregory e J. Urry (a cura di), Social
Relations and Spatial Structures, Macmillan, Londra 1985, pp. 128 – 163,
(trad. it. di M. Dal Lago, La geopolitica del capitalismo, in G. Vertova
(a cura di), Lo spazio del capitale. cit., p. 121).
15 D. Harvey,
Globalization and the ‘Spatial Fix’ in «Geographische Revue», n.
2, 2001, p. 24 (traduzione di Pietro Bianchi).
16Id, The
Condition of Postmodernity: an Enquiry into the Origins of Cultural Change,
Blackwell, 1989, Oxford (UK) – Cambridge (Mass.) (tr.it La crisi della modernità, Il Saggiatore,
Milano 1992)
17Id, The
New Imperialism, Oxford (UK) – New York, Oxford University Press 2003
(tr.it La guerra perpetua, Il Saggiatore, Milano 2004)
18Id, A
Brief History of the Neoliberalism, Oxford (UK) – New York, Oxford
University Press 2005 (tr.it Breve storia del neoliberismo, Il
Saggiatore, Milano 2005)
19Id., The
Enigma of Capital and the Crises of Capitalism, New York, Oxford University
Press 2010 (tr.it L’Enigma del Capitale, Feltrinelli, Milano 2011.
20Id, A
Brief History of Neoliberalism cit., p.159.
Bibliografia
D.Harvey, Limits to Capital, Blackwell, Oxford 1982.
Id, Condition of postmodernity. An Enquiry into the origins of Cultural
Change, Blackwell, Oxford – Cambridge (Mass.) 1989 (tr.it La crisi della
modernità, Il Saggiatore, Milano 1991).
Id, Paris. Capital of Modernity, Routledge, London – New York 2003.
Id, A Brief History of the Neoliberalism, Oxford (UK) – New York,
Oxford University Press 2005 (tr.it Breve storia del neoliberismo, Il
Saggiatore, Milano 2005).
Id, The Enigma of Capital and the Crises of Capitalism, New York,
Oxford University Press 2010 (tr.it L’Enigma del Capitale, Feltrinelli,
Milano 2011.
David Harvey. A Critical Reader, (edited by) N.Castree – D. Gregory, Blackwell, Malden – Oxford 2006
Lo spazio
del capitale, (a cura
di) G. Vertova, Editori Riuniti, Roma 2009.
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