Sta per uscire una nuova (la quarta) trasposizione
cinematografica di Il grande Gatsby, il capolavoro di Francis Scott Fitzgerald.
Il romanzo nella classica traduzione di Fernanda Pivano uscì in Italia nel 1950
ed ebbe immediatamente un enorme successo. Ma ne era uscita già un'edizione nel
1936, rivolta ad un pubblico femminile e venduta in edicola, di cui persino
alla Mondadori si era perso il ricordo. Una vicenda affascinante.
La storia editoriale de "Il grande
Gatsby"
Il
personaggio di Jay Gatsby, destinato a diventare leggendario, fa la sua prima
apparizione negli Stati Uniti nel 1925, quando l’editore Scribner pubblica The
Great Gatsby. In Italia arriva un decennio più tardi, nel 1936: il romanzo lo
pubblica Arnoldo Mondadori in una collana popolare, “I romanzi della Palma”, destinata
al pubblico femminile e distribuita mensilmente in edicola al prezzo di tre
lire. Probabilmente lo ha scoperto in ambito francese, come fa sospettare il
titolo, Gatsby il Magnifico, evidente calco di Gatsby le magnifique; la
traduzione è di Cesare Giardini, traduttore assai attivo negli anni Trenta e
Quaranta sia dal francese sia dall’inglese. Proprio Giardini il 3 gennaio dello
stesso anno aveva firmato per l’editore un parere di lettura nel quale, tra
l’altro, affermava: «Gatsby è una figura misteriosa, cattivante, anche un po’
inquietante, una specie di gentiluomo fastoso e festoso che prodiga il
proprio denaro in feste spettacolose con la speranza di attirare a sé l’antica
amante e riannodare l’idillio interrotto dalla guerra. [...] Il romanzo procede
attraverso quadri successivi che, riccamente caratterizzati, ciascuno in
un’atmosfera particolare e, diremmo, con un colore proprio, rimangono
profondamente impressi nella mente del lettore. Cento personaggi strani,
inclassificabili, a volte leggermente caricaturali, si aggirano attorno ai
protagonisti; tutto il mondo ozioso e splendido della cosiddetta buona società
di New York e di Long Island, dominato dall’alcool e dall’idea della caccia al
piacere, sfila in queste pagine».[1]
Appena
finita la guerra, Alberto Mondadori si mette attivamente in caccia di opere di
scrittori americani. Lo consiglia Fernanda Pivano, che già il 22 novembre 1945
invia al «caro boss» un elenco di titoli, tra cui quelli di Eudora Welty e di
Francis Scott Fitzgerald.[2] Che Mondadori abbia già pubblicato il Gatsby
Alberto sembra scoprirlo improvvisamente nel novembre 1948 quando un suo
corrispondente da New York, Robert Knittel, gli scrive: «Mondadori bought the
italian rights to The Great Gatsby on June 5, 1936. I was somewhat surprised to
hear this». Alberto lo comunica immediatamente alla Pivano: «Cara Nanda,
accadono cose incredibili! The Great Gatsby è già stato pubblicato dalla
Mondadori nei Romanzi della Palma nel '36. Come vedi, il mio predecessore era
“un forte” in letteratura americana». La Pivano, incaricata di valutare la
traduzione di Giardini, commenta: «ammiro troppo Fitzgerald per non suggerirti
di far rifare la traduzione. […] È questione di tono e di rispetto per il
personaggio più importante dell’età del jazz».
La nuova
traduzione, firmata proprio da Fernanda Pivano, vede così la luce come numero
255 della “Medusa” nel 1950. È in questa traduzione che circa due milioni di
italiani hanno conosciuto e amato Il grande Gatsby fino al momento in cui – a
settant’anni dalla morte – i diritti dell’opera di Francis Scott Fitzgerald
sono diventati di pubblico dominio, il 1° gennaio 2011.
Nanda
Pivano, che tra l’altro ha tradotto anche Tenera è la notte (1949), Di qua dal
Paradiso (1952) e Belli e dannati (1954), è anche autrice di un ampio saggio
dal titolo Lettera d’amore a Fitzgerald che – muovendo dalla pubblicazione di
Di qua dal Paradiso nel 1920, dal successo del romanzo e dallo choc che provocò
nel mondo statunitense – percorre tutta l’opera di Fitzgerald, e spiega: «non
era uomo da tavolino: era uomo da vita all’aperto o da vita mondana, ma
comunque da vita in movimento. Perfino scrivere gli pareva un’offesa
imperdonabile a quel prezioso, felice dono che è la vita. [...] Suo grande
merito, forse il merito che gli valse il nome di re dell’età del jazz, fu
appunto di riversare questa capacità di vita nei suoi libri. Fu dalla vita che
Fitzgerald apprese tutto quello che sapeva; fu la vita che lo maturò come
scrittore mentre lo maturava come uomo: Fitzgerald imparò da sé, soltanto
vivendo, a migliorare giorno per giorno la sua tecnica di scrittore. E fu
l’intensità di vita riversata nelle pagine e farle balzare dal piano a volte
“farraginoso” rimproveratogli da certi suoi critici a un piano animato e ricco
di interessi umani».[3]
[1] Il
parere è pubblicato in: Non c’è tutto nei romanzi. Leggere romanzi stranieri in
una casa editrice negli anni ’30, a cura di Pietro Albonetti, Fondazione
Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 1994, pp. 369-371.
[2] Questo e
gli altri documenti sono conservati alla Fondazione Arnoldo e Alberto
Mondadori, Milano.
[3] Feranda
Pivano, Lettera d’amore a Fitzgerald, in La balena bianca e altri miti,
Mondadori, Milano 1961, pp. 301-362, cit. a p. 338-9
(Da: www.librimondadori.it/)
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