24 maggio 2013

L'ELOGIO DELLA GHIGLIOTTINA DI PIERO GOBETTI





Una Carta costituzionale ogni giorno stravolta da un presidenzialismo strisciante ed eversivo che vuole ridurre la democrazia a pura forma. Un paese - ostaggio di un pregiudicato (nel senso di persona già passata in giudizio e condannata) che cerca disperatamente di evitare il carcere - dove si propone di mandare in galera chi manifesta pacificamente il proprio dissenso fischiando un comizio e insieme di fare uscire i fiancheggiatori eccellenti della mafia.
Davanti a tutto questo non sogniamo il ritorno dei bolscevichi, né torme di cavalli cosacchi abbeverantisi in San Pietro, ci basterebbe un mite giacobino come fu il liberale Piero Gobetti.


Piero Gobetti - Elogio della ghigliottina


[...] Il fascismo vuole guarire gli Italiani dalla lotta politica, giungere a un punto in cui, fatto l'appello nominale, tutti i cittadini abbiano dichiarato di credere nella patria, come se col professare delle convinzioni si esaurisse tutta la praxis sociale. Insegnare a costoro la superiorità dell'anarchia sulle dottrine democratiche sarebbe un troppo lungo discorso, e poi, per certi elogi, nessun migliore panegirista della pratica. L'attualismo, il garibaldinismo, il fascismo sono espedienti attraverso cui l'inguaribile fiducia ottimistica dell'infanzia ama contemplare il mondo semplificato secondo le proprie misure. La nostra polemica contro gli italiani non muove da nessuna adesione a supposte maturità straniere; né da fiducia in atteggiamenti protestanti o liberisti. Il nostro antifascismo prima che un'ideologia, è un istinto.

 Se il nuovo si può riportare utilmente a schemi e ad approssimazioni antichi, il nostro vorrebbe essere un pessimismo sul serio, un pessimismo da Vecchio Testamento senza palingenesi, non il pessimismo letterario dei cristiani [che si potrebbe definire la delusione di un ottimista] delusione di ottimisti. La lotta tra serietà e dannunzianesimo è antica e senza rimedio. Bisogna diffidare delle conversioni, e credere più alla storia che al progresso, concepire il nostro lavoro come un esercizio spirituale, che ha la sua necessità in sé, non nel suo divulgarsi. C'è un valore incrollabile al mondo: l'intransigenza e noi ne saremmo, per un certo senso, in questo momento, i disperati sacerdoti. Temiamo che pochi siano così coraggiosamente radicali da sospettare che con queste metafisiche ci si possa incontrare nel problema politico. Ma la nostra ingenuità è più esperta di talune corruzioni e in certe teorie autobiografiche ha già sottinteso un insolente realismo obbiettivo.

Noi vediamo diffondersi con preoccupazione una paura dell'imprevisto che seguiteremo ad indicare come provinciale per non ricorrere a più allarmanti definizioni. Ma di certi difetti sostanziali anche in un popolo "nipote" di Machiavelli non sapremmo capacitarci, se venisse l'ora dei conti. Il fascismo in Italia è [una catastrofe,] un'indicazione di infanzia [decisiva] perché segna il trionfo della facilità, della fiducia, [dell'ottimismo,] dell'entusiasmo. Si può ragionare del ministero Mussolini come di un fatto d'ordinaria amministrazione. Ma il fascismo è stato qualcosa di più; è stato l'autobiografia della nazione.

Una nazione che crede alla collaborazione delle classi, che rinuncia per pigrizia alla lotta politica, [è una nazione che vale poco] dovrebbe essere guardata e guidata con qualche precauzione. Confessiamo di avere sperato che la lotta tra fascisti e social-comunisti dovesse continuare senza posa: e pensammo nel settembre del 1920 e pubblicammo nel febbraio del 1922 La Rivoluzione Liberale con fiducia verso la lotta politica che attraverso tante corruzioni, corrotta essa stessa, tuttavia sorgeva. In Italia c'era della gente che si faceva ammazzare per un'idea, per un interesse, per una malattia di retorica!

Ma già scorgevamo i segni della stanchezza, i sospiri alla pace. E' difficile capire che la vita è tragica, che il suicidio è più una pratica quotidiana che una misura di eccezione. In Italia non ci sono proletari e borghesi: ci sono soltanto classi medie. Lo sapevamo: e se non lo avessimo saputo ce lo avrebbe insegnato Giolitti. Mussolini non è dunque nulla di nuovo: ma con Mussolini ci si offre la prova sperimentale dell'unanimità, ci si attesta l'inesistenza di minoranze eroiche, la fine provvisoria delle eresie. [Abbiamo astuzie sufficienti per prevedere che tra sei mesi molti si saranno stancati del duce: ma] Certe ore di ebbrezza valgono per confessioni e la palingenesi fascista ci ha attestato inesorabilmente l'impudenza della nostra impotenza. A un popolo di dannunziani non si può chiedere spirito di sacrificio. Noi pensiamo anche a ciò che non si vede: ma se ci si attenesse a quello che si vede bisognerebbe confessare che la guerra è stata invano. Privi di interessi reali, distinti, necessari gli Italiani chiedono una disciplina e uno Stato forte. Ma è difficile pensare Cesare senza Pompeo, Roma forte senza guerra civile.

Si può credere all'utilità dei tutori e giustificare Giolitti e Nitti, ma i padroni servono soltanto per farci ripensare a La Congiura dei Pazzi ossia ci riportano a costumi politici sorpassati. Né Mussolini né Vittorio Emanuele hanno virtù di padroni, ma gli Italiani hanno bene animo di schiavi. E' doloroso [per chi lavora da anni] dover pensare con nostalgia all'illuminismo libertario e alle congiure. Eppure, siamo sinceri fino in fondo, [io ho atteso] c'è chi ha atteso ansiosamente che venissero le persecuzioni personali perché dalle sofferenze rinascesse uno spirito, perché nel sacrificio dei suoi sacerdoti questo popolo riconoscesse se stesso. C'è stato in noi, nel nostro opporsi fermo, qualcosa di donchisciottesco. Ma ci si sentiva pure una disperata religiosità. Non possiamo illuderci di aver salvato la lotta politica: ne abbiamo custodito il simbolo.

(Da: "La Rivoluzione Liberale", anno I, n. 34, 23 novembre 1922)

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