Malgrado,
dall’Unità d’Italia e dalla affermazione del Toscano quale lingua dei sudditi
del Regno, i linguisti a più riprese ne abbiano annunziato l’imminente
sparizione, il Siciliano ha provato di essere resistente e, quantunque la sua
influenza si sia ristretta alle sfere familiare e amicale, esso è tuttora
parlato e capito dalla grande maggioranza degli Isolani.
L’organizzazione
culturale statunitense Arba Sicula, nel corso degli ultimi 33 anni, ha
dedicato ogni sua energia alla promozione della lingua e della cultura
siciliane nel mondo.
Gaetano Cipolla è
l’anima di Arba Sicula. Già
professore di Lingua e Letteratura Italiana presso varie università americane,
la St. John’s University di New York per ultima, nato in Sicilia nel 1937 ed
emigrato negli Stati Uniti nel 1955, Presidente dell’Associazione U.S.A. “Casa
Sicilia”, Presidente e Direttore di Arba Sicula, rivista bilingue che
ospita articoli in inglese e siciliano, e del periodico Sicilia Parra,
Ambasciatore culturale della Regione Sicilia nel mondo, vincitore di
prestigiosi premi inclusi il “Talamone”, il “Thrinacria d’argento” e il
“Proserpina”, Gaetano Cipolla ha tradotto in inglese parecchi poeti siciliani e
fra loro: Nino Martoglio, Giovanni Meli, Antonio Veneziano, Nino Provenzano,
Vincenzo Ancona, Sergio Mazza e Salvatore Di Marco.
Di seguito riproponiamo la recensione dell'ultimo lavoro di Gaetano Cipolla:
Marco Scalabrino - Learn Sicilian /
Mparamu lu sicilianu.
Premesso che in Sicilia ci sono molte parlate, che il
Siciliano è largamente usato dai poeti (mentre per la prosa è tutt’altra
faccenda), che, sostiene convintamente Salvatore Camilleri, il Siciliano può
esprimere qualsiasi concetto: “la storia, la
filosofia, la sociologia, tutte le scienze, non in quanto tali, ma come
patrimonio culturale che chi scrive brucia nell’atto della creazione”, la
decisione di scrivere una grammatica del Siciliano – appunta Gaetano Cipolla,
nelle note a corredo del volume – non è stata facile.
Prima, però, di addentrarci nella
“lettura” e di trarne delle sostanziali considerazioni, diamo contezza, oltre alla ben nota Grammatica
Siciliana di Giuseppe Pitrè del 1875, di talune altre recenti pubblicazioni
in argomento: Introduction to Sicilian Grammar di J. Kirk Bonner del
2001, Grammatica Siciliana di Salvatore Camilleri del 2002, Sicilian
the oldest romance language di Joseph F. Privitera del 2004, Per
lo studio del siciliano di Rosalba Anzalone del 2006.
Questi studi dimostrano irrefutabilmente quanto
l’interesse degli studiosi, nazionali ed internazionali, sia ancora vivissimo
nei confronti del Siciliano e al contempo quanto questo sia tuttora presente e
vitale nella realtà e nella cultura del popolo siciliano. E ciò a dispetto del
rapporto ATLAS del 2009, relativo alla “salute” delle lingue del mondo, il
quale ha collocato il Siciliano nella V categoria, quella ossia delle “lingue
vulnerabili”, rimarcandone il peggioramento rispetto alla precedente posizione
rilevata nel Libro Rosso dell’UNESCO del 1999, che il nostro idioma aveva incluso
nella VI categoria, ovvero “Lingue non in pericolo [di estinzione] con una
trasmissione sicura alle nuove generazioni”.
Nello scrivere questa grammatica – annota Gaetano
Cipolla, ricollegandosi ad uno dei passi appena premessi – ho dovuto scegliere
quale parlata favorire.
Il mio lavoro di traduttore – prosegue – mi ha messo
in contatto con i testi di Giovanni Meli di Palermo, Giuseppe Marco Calvino di
Trapani, Domenico Tempio e Nino Martoglio di Catania, Luigi Pirandello di
Agrigento, Corrado Di Pietro di Siracusa, Rosa Gazzara Siciliano di Messina e
tanti altri di svariate parti della Sicilia, per cui il Siciliano che io uso
nelle traduzioni e in questa grammatica è una sorta di koinè.
Registriamo, in soccorso di tale scelta, che una
“koinè regionale, ove la lingua, legata alla etimologia ma non sorda al
rinnovamento linguistico, non è catanese, né palermitana”, è stata sin dal 1966
praticata da Salvatore Camilleri nella sua silloge Sangu pazzu.
Il libro, bilingue Siciliano e Inglese, si apre con
degli speciali ringraziamenti ai proff. Salvatore Riolo e Giovanni Ruffino,
rispettivamente delle Università di Catania e di Palermo, ed altresì a J. Kirk
Bonner, Mario Gallo, Gaetano Consalvo e Marco Scalabrino per la loro consulenza
e il loro sostegno. Ulteriori ringraziamenti l’Autore rivolge poi a quanti
hanno reso più facile il suo compito e fra loro: Corrado Avolio, Giuseppe
Pitrè, Salvatore Camilleri e Frederick Privitera.
Suddiviso in più parti: una Introduzione, una Lezione
preliminare, Capitoli da 1 a 18, una Appendice contenente un essenziale
vocabolario siciliano – inglese e viceversa e l’indice delle registrazioni
audio racchiuse sul DVD accluso al libro, questo – sottolinea Gaetano Cipolla –
è stato concepito con un preciso proposito: quello di insegnare agli studenti
le quattro abilità linguistiche: capire, leggere, parlare e scrivere il
Siciliano. Siciliano che, notoriamente una lingua romanza al pari di
Italiano, Spagnolo, Francese, Portoghese e Rumeno, condivide nondimeno con
l’Inglese un vasto patrimonio lessicale, giacché “circa la metà delle parole
inglesi derivano dal Latino”.
L’introduzione richiama, per sommi capi, le origini
del Siciliano che, viene ribadito, fu la prima delle lingue regionali d’Italia
a guadagnarsi la qualifica di lingua di poesia.
Esso, viene precisato, fiorì sotto il regno di
Federico II nella prima metà del 13.mo secolo e i poeti che appartennero alla
Scuola Poetica Siciliana, tanti di loro non nativi della Sicilia, scrissero nel
linguaggio parlato a Palermo alla corte imperiale, la Magna Curia, di Federico
II.
Il Siciliano fu, quindi, il linguaggio usato per
redigere gli atti del parlamento siciliano fino alla metà del 16.mo secolo,
allorché il toscano gli subentrò nella stesura dei documenti ufficiali.
Vale il caso di ricordare in questa sede che
addirittura il sommo Dante, nel De Vulgari Eloquentia, attestò che
“tutto ciò che gli italiani poeticamente compongono si chiama siciliano”; che
nella Sicilia del Cinquecento operavano due Università, quella di Catania e
quella di Messina; che nel 1543 il siracusano Claudio Mario Arezzo propose di
istituire “il siciliano come lingua nazionale”; che il Siciliano può vantare
Vocabolari, non ultimo il monumentale in cinque volumi a cura di Giorgio
Piccitto, Giovanni Tropea e Salvatore C. Trovato, testi di Ortografia, di
Grammatica, di Critica, come pure autori di levatura assoluta.
Il volume, come comprensibile, affronta, nelle sue 336
pagine, una miriade di temi.
Gaetano Cipolla si sofferma su alcuni dei segni
dell’alfabeto siciliano: la dd, la c e la j, fra essi. La dd,
da non confondere con la doppia d che è un segno diverso, derivante dal
tardo-latino (capillus, caballus, etc.), talmente fuso nella
pronuncia da essere considerato un segno a sé stante e non il raddoppiamento di
due d, rappresenta il suono più caratteristico della lingua siciliana. “Infatti
la suddivisione sillabica di addivintari, ad esempio, è ad-di-vin-ta-ri,
mentre quella di cavaddu – precisa Salvatore Camilleri – è ca-va-ddu”.
Da rilevare inoltre che il suono di d è dentale, mentre quello di dd è
cacuminale. Non sono mancati nel tempo i tentativi, non fortunati, di
sostituire il segno dd con ddh o ddr e con i puntini in
cima o alla base di dd. La c, dolce e strisciante, derivante dal fl
latino, flatus, flos, flumen e di conseguenza in siciliano
ciatu, ciuri, ciumi, altrove e in altri tempi – già Lionardo Vigo nella
seconda metà del 1800 ne sollevò il problema della determinazione ortografica –
è stata graficamente resa con x, con xh, con ç o con sc.
Tuttavia, mutuiamo da Corrado Avolio in Introduzione allo studio del
dialetto siciliano del 1882, “ultimamente, in una radunanza di dotti
cultori di lettere siciliane tenuta a Palermo, si stabilì di trascrivere con
“c””, senza dunque ricorrere ad alcun distinguo grafico. La j è un segno
che ha sovente suscitato l’attenzione degli studiosi. Salvatore Giarrizzo, nel Dizionario
etimologico siciliano del 1989, definisce la j semivocale latina. Se
viceversa, come da altri sostenuto, fosse una vocale la j dovrebbe
ubbidire alla regola di tutte le vocali, a quella cioè di fondersi col suono
della vocale dell’articolo che lo precede, dando luogo all’apostrofo. Così come
noi scriviamo l’amuri (lu amuri) dovremmo pure scrivere l’jornu,
l’jiditu … cosa che nessuno si sogna di fare, appunto perché, non
essendo la j una vocale, non vi è elisione e quindi non è possibile
l’apostrofo, il quale si verifica all’incontro di due vocali e mai di una
vocale e di una consonante.
Gaetano Cipolla individua inoltre molteplici
peculiarità del dialetto siciliano, talune delle quali di seguito riportiamo.
È regola generale in Sicilia che la “e” e la “o”
toniche mutino in “i” e “u” tutte le volte che perdono l’accento tonico, sia
che si tratti di verbi, sostantivi, aggettivi o avverbi. Ad esempio: volu –
vulari, sola – suletta, lettu – littinu, ventu – vintagghiu, testa – tistuni,
morti – murtali … e ancora frenu – frinari, jornu - jurnata,
ferru - firraru, pedi – pidata …
Nel Siciliano, le preposizioni e gli articoli,
contrariamente a quanto avviene nell’Italiano, non si uniscono. Nel linguaggio
parlato di tutti i giorni, nondimeno, in svariate località le preposizioni e
gli articoli si contraggono e diventano una sola parola. Ecco perciò l’uso
degli articoli u, a, i, e delle preposizioni articolate
contratte (ô = al, â = alla, dû = del, dâ = della, dî
= dei, ntô = nel, ntôn = in un, ntâ = nella, ntê =
nei o nelle, cû = col). Se la parola che segue inizia per vocale la
contrazione, però, non avviene.
Di regola il plurale dei nomi, sia maschili che
femminili, termina in “i”; ad esempio: quaderni, casi, pueti. Un
certo numero di nomi maschili terminanti al singolare in “u” – certifica
Gaetano Cipolla – fanno il plurale in “a” alla latina; sono nomi che di solito
si presentano in coppia o al plurale: jita, vrazza, corna, ossa, vudedda,
gigghia, linzola, dinocchia, cucchiara. Ugualmente cospicui i plurali in
“a” dei nomi maschili terminanti al singolare in “aru” (latino arius)
significanti, in gran parte, mestieri e professioni. Se ne ripetono i più
comuni: aciddara, birrittara, ciurara, dammusara, furnara, ghirlannara,
jardinara, libbrara, marinara, nutara, putiara, ruluggiara, scarpara,
tabbaccara, uvara, vitrara, zammatara.
E, proseguendo fra i tantissimi argomenti trattati,
una interessante pagina attiene ai verbi.
Scontato il ripiegamento del (tempo) passato prossimo
a beneficio del passato remoto: parraru per hanno parlato, mancu mi
vidisti per neanche mi hai visto, eccetera, nel Siciliano è altresì
conclamato il ripiegamento del (modo) condizionale a vantaggio del congiuntivo,
ad esempio: si lu putissi fari lu facissi, ci vulissi jiri.
In argomento, è praticamente estinto il tempo futuro e
ogni proposizione pertinente a un’azione futura viene, dunque, costruita al
presente e al verbo si associa un avverbio di tempo (ad esempio: dumani
vegnu). “Come si può interpretare (quasi filosoficamente) – considera Paolo
Messina – questa anomalia? Ecco lo spunto per un nesso fra lingua e cultura,
modi di essere e di pensare. È la consapevolezza storica dell’esserci
heideggeriano a produrre la riduzione continua del futuro a presente, all’hic
et nunc, e ciò nel pieno possesso del passato ormai definitivamente
acquisito. I siciliani sono padroni del tempo o, per dirla con Tomasi di
Lampedusa, sono Dei. Ma essere (o ritenere di essere) padroni del tempo può
voler dire dominare mentalmente la vita e la morte, avere la certezza della
propria intangibilità solo nel presente, un presente che si appropria del tempo
futuro per scongiurare la morte, ombra ineliminabile dell’esserci. Quello che
conta è il presente. Essere e divenire, insomma, nell’ansia metafisica si
fondono o si confondono”.
L’immagine di copertina, la foto di uno scorcio dei
giardini pubblici di Taormina (ME), è dello stesso Gaetano Cipolla.
Copiose altre illustrazioni a colori abbelliscono
l’odierno encomiabile lavoro; fra esse assai suggestive: una veduta dell’Etna
dal Teatro-greco romano di Taormina; la Fontana della Vergogna e San Giovanni
degli Eremiti a Palermo; una veduta di Cefalù (PA), con la Cattedrale Normanna;
il Tempio dorico di Segesta (TP); l’Orecchio di Dioniso a Siracusa; le Saline
di Marsala (TP). Ed ancora la magnifica riproduzione del mosaico di Villa del
Casale di Piazza Armerina (EN), che raffigura Ulisse mentre offre il vino a
Polifemo; il Talamone, nel Tempio di Giove ad Agrigento; la Cappella Palatina
al Palazzo dei Normanni e il Trionfo della Morte, di autore anonimo custodito
presso il Museo Abatellis, entrambi a Palermo; la statua di Aci e Galatea ad
Acireale (CT).
Calzanti ragguagli afferenti ad ognuno dei nove
capoluoghi di provincia e preziose note culturali sui miti, sulle tradizioni e
sul costume, nonché sulla letteratura e sugli autori siciliani, corredano la
pubblicazione. Fra questi ultimi: Petru Fudduni con lu Dottu di Tripi, a
proposito dei quali a breve riferiremo le tracce di un incontro, Domenico
Tempio, Nino Martoglio, Giovanni Meli, Luigi Pirandello, Ignazio Buttitta,
Alessio Di Giovanni, Antonio Veneziano. Giuseppe Pitrè definisce dubbio
quel “componimento popolare in ottava siciliana, con il quale un poeta propone
delle difficoltà o dei quesiti a un altro poeta, da cui, in altra ottava,
riceve una risposta quasi nelle stesse rime.” Per il carattere ludico e di arte
enigmistica, soggiunge Maria Bella, i dubbi, come le sfide, i contrasti
e le nniminagghi, erano di grande richiamo per il popolo e venivano
recitati nelle piazze durante le feste, assumendo spesso forma di scontri per
la supremazia poetica. Se ne trae un esempio dal tomo Sfide, contrasti,
leggende di poeti popolari siciliani di Salvatore Camilleri, per il quale i
dubbi della nostra tradizione sono giocati tutti o sulla dilogia (doppio
soggetto, uno reale e uno apparente) o sul calembour o chiapperello
(da chiappare a volo, attraverso un qualsiasi riferimento o bisticcio). È il Dotto
di Tripi che, fra l’altro, propone: Dimmi cu’ vivi acqua e piscia vinu,
/ dimmi cu’ ti saluta di luntanu, / dimmi cu’ senza pedi fa caminu, / dimmi cu’
si currumpi e sempri è sanu; e Petru Fudduni, a tono, risponde: La viti
vivi acqua e piscia vinu, / l’amicu ti saluta di luntanu, / la littra è senza
pedi e fa caminu, / lu mari si currumpi e torna sanu. Un esempio di calembour
è quello legato all’incontro fra Antonio Veneziano e lu Vujareddu di li
Chiani: domanda il primo: Cchi farriti, cchi farroggiu, cchi farraju?
E risponde il secondo: Corda fa riti, ferru fa roggiu, suli fa raju.
Numerosi proverbi e nniminagghi (indovinelli)
guarniscono inoltre il volume e fra essi: Cu’ mancia, fa muddichi;
Cui di trenta, cui di trentunu, di vint’ottu ci n’è unu (Li misi di l’annu);
Aju un palazzu cu dudici porti, ogni porta trenta firmaturi, ogni firmatura
vintiquattru chiavi (li mesi e li jorna); Cu’ pratica lu zoppu, all’annu
zuppìa; Cu’ pecura si fa, lu lupu si la mancia.
Da segnalare, per di più, alcune curiosità.
Endemica in passato e oggi pressoché scomparsa, la nciuria
(o peccu), che sovente veniva ereditata dai discendenti di coloro che ne
erano stati per così dire titolari, consentiva l’identificazione immediata e
indubbia di un casato e di una persona. Le origini sono legate all’attività, a
una speciale caratteristica fisica, a un distintivo atteggiamento, a una località,
eccetera e la tipologia è assai variegata. Se ne elencano a mo’ di esempio,
oltre quelle riportate da Gaetano Cipolla, mutuandole da Titta Abbadessa,
alcune più “colorite”: Ninu causilenti, Puddu acquafrisca, Angilu cacaligna,
Giuvanni funciazza, Natali cosciajanca, Micalangilu cingalenta, Matteu
mattiddina, Cammelu pulici, Ninu uccastotta, Pippinu mustazzu, Miciu
favisquadati, Vicenzu pisciafinocchi, Nunziu menzuculu, Cammelu cicireddu,
Mariu uccad’aneddu, Affiu masciuscia, Peppi urrocamotti, Turi babbaleccu, Neddu
micciastotta, Ninu manazza;
il cirnecu, una speciale razza – tuttora
esistente – di cani nativi dell’Etna, posti a protezione del tempio dedicato al
dio Adrano. Si narra che mangiassero letteralmente vivi quanti fossero
intenzionati a rubarvi e da tale loro aggressività è nato il modo di dire
riguardo ai malintenzionati: vi pòzzanu manciari li cani!;
la ricetta della pasta alla Norma, inventata da un
cuoco catanese in onore di Vincenzo Bellini, i cui ingredienti sono sarsa di
pumadoru, milinciani fritti, ricotta salata: la sarsa [ca è russa]
rapprisenta lu focu di Muncibeddu, li milinciani fritti ca sunnu niuri
rapprisentanu la lava chi c’è attornu a Catania, la ricotta salata ca è bianca
rapprisenta la nivi di la muntagna.
A proposito di Muncibeddu … i nostri
conterranei di area orientale chiamano affettuosamente, senza tema di
fraintendimento e senza appello, la Muntagna, Nostra ‘gnura Matri la
Muntagna, l’Etna, il vulcano più alto d’Europa. Diversamente essa è
denominata Muncibeddu, vocabolo che assomma in sé la radice latina di mons
(monte) e quella araba di gebel (monte). Il vulcano, in effetti, era
ritenuto dalle credenze popolari il padre di tutti i monti e di tutti i
vulcani.
I Siciliani – ebbe ad affermare già Cicerone – hanno
un senso dell’umorismo assai sviluppato e trovano motivi di ironia nelle
circostanze più disparate; in quelle della quotidianità, ovviamente, ma perfino
in quelle serie, al cospetto della religione ovvero e finanche della morte.
Chiudiamo, allora, la rapida disamina concernente
questo pregevole strumento didattico realizzato da Gaetano Cipolla con una
ultima notazione destinata a deliziarci. L’invito è, pertanto, a leggere le
battute della “vedova” e quella di Angelo Musco rispettivamente alle pagine 202
e 243, la scenetta “filosofica” della quale sono protagonisti un debitore e un
creditore alla pagina 275, nonché la gag che trae spunto da una ordinaria
questione di parcheggio alla pagina 303.
Dopotutto, asserì Platone, fu Epicarmo da Siracusa,
vissuto tra il 548 e il 453 a.C., ad inventare il genere teatrale della
commedia.
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