W. Benjamin a 5 anni
Da il manifesto – Alias di ieri prendo
questo bel pezzo dedicato a uno dei più geniali uomini del 900.
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Raffaele K. Salinari - Walter Benjamin e l’omino con la
gobba
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C’è un personaggio che accompagna, nascosto nel
profondo permanente ed immutabile degli archetipi infantili, tutta la vita di
Walter Benjamin; un «chi è» che troviamo armeggiante nei nascondigli immaginali
in cui il filosofo dei Passages ha voluto esplicitamente collocare la
scaturigine del suo pensiero. Un essere metaforico che si nasconde nel buio più
recondito da cui originano le sue folgoranti intuizioni, e che da quella
postazione gli disamina la visione delle cose. Questo personaggio ha solo una
speciale richiesta, che fa per perpetrarsi nel tempo e nel ricordo di altre
generazioni, eternizzare la sua essenza mutandone la forma, come avviene per
ogni immortalità simbolica: chiede che il suo nome resti segreto. In caso
contrario egli sparirebbe, e con lui il mondo che lo ospita. È il dybbuk
di Walter Benjamin: l’«omino con la gobba» che troviamo nascosto anche
nell’automa giocatore di scacchi della prima Tesi sul concetto di storia
«È noto che sarebbe esistito un automa costruito in un modo tale da reagire ad
ogni mossa di un giocatore di scacchi con una contromossa che gli
assicurava la vittoria. Un manichino vestito da turco, con una pipa in bocca,
sedeva davanti alla scacchiera, posta su un ampio tavolo. Con un sistema di
specchi veniva data l’illusione che vi si potesse guardare attraverso da ogni
lato. In verità c’era seduto dentro un nano gobbo, maestro nel gioco degli
scacchi, che guidava per mezzo di fili la mano del manichino. Un corrispettivo
di questo marchingegno si può immaginare nella filosofia. Vincere sempre deve
il manichino detto «materialismo storico». Esso può competere senz’altro con
chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com’è a tutti noto, è
piccola e brutta, e tra l’altro non deve lasciarsi vedere». Ma questo «nano
gobbo», per ammissione dello stesso Benjamin, è in realtà un suo «doppio», il dybbuk
che lo possiede e lo spinge a fare ciò che vuole, così dirà nel suo saggio Avanguardia
e rivoluzione, citandolo come imparentato ai personaggi scanzonati,
vagabondi e gioiosi di Robert Walser «che si muovono nella notte, dove essa è
più nera; una notte veneziana, se si vuole, illuminata dai deboli lampioni
della speranza, con qualche luce di gioia negli occhi». Il dybbuk,
nella tradizione popolare ebraica polacca e tedesca, è lo spirito disincarnato
al quale è stato vietato l’ingresso in paradiso per aver commesso peccati
mortali, come il suicidio per amore. Ad alcune di queste anime, per
imperscrutabili motivi, viene data la possibilità di emendarsi condividendo
l’anima di un altro corpo, ed avere cosi una seconda possibilità.
Nelle vecchie sinagoghe di Berlino, quando
Benjamin era ancora bambino, si narrava anche che i dybbuk
fossero fuggiti dalla gehennaa, un termine ebraico traducibile
liberamente con «luogo dei miasmi». Ma ciò che dà il senso ultimo del dybbuk
è l’etimologia della parola, che deriva dall’ebraico davok,
«attaccarsi»: il dybbuk dunque è un qualcosa che si attacca ad un
vivente per coabitare in esso, in senso ampio una «possessione». Questa
simbiosi forma un dibbukim, ed è così che descrive la propria
relazione con l’«omino gobbo» il filosofo berlinese in una lettera all’amico
Gershom Scholem: «conserva le mie immagini, io non posso dividermi da lui»,
come ad evocare qualche cosa di determinativo per tutto il suo essere. Questo
personaggio appare la prima volta nella raccolta di immagini Infanzia
berlinese, edita postuma nel 1950 a cura dell’amico Theodor Adorno: «Nel
1932, mentre ero all’estero, iniziai a rendermi conto che presto avrei dovuto
dire addio per molto tempo, forse per sempre, alla città in cui ero nato… Nella
mia vita interiore avevo più volte sperimentato come fosse salutare il metodo
della vaccinazione, lo seguii anche in questa occasione e intenzionalmente feci
emergere in me le immagini – quelle dell’infanzia – che in esilio sono
solite risvegliare più intensamente la nostalgia di casa. Cercai di contenerla
restando fedele non al criterio della causale irrecuperabilità biografica del
passato bensì a quella, necessaria, di ordine sociale. Ciò ha comportato che i
tratti biografici che si delineano piuttosto nella continuità che nella profondità
dell’esperienza, in questi brani restino del tutto sullo sfondo. E con essi le
fisionomie – quelle della mia famiglia al pari di quelle dei miei compagni. Mi
sono invece sforzato di impadronirmi di quelle immagini in cui l’esperienza
della grande città si sedimenta in un bambino della borghesia. Ritengo
possibile che a tali immagini sia riservato un particolare destino. Non sono
ancora attese da forme ben modellate come quelle di cui, nel sedimento della
natura, da secoli dispongono i ricordi di una infanzia trascorsa in campagna.
Le immagini della mia infanzia nella grande città invece sono forse idonee a
preformare nel loro intimo l’esperienza storica successiva. Almeno in queste,
spero, appare comprensibile quanto colui di cui qui sui parla in una fase
successiva fece a meno della sicurezza che era toccata alla sua infanzia». Così
Walter Benjamin motiva la ricerca delle sue immagini-guida nell’introduzione di
Infanzia berlinese. Qui il tema del ricordo, della recherche
di tipo proustiano, si alimenta, ma solo in apparenza, di un percorso
metropolitano che, però, finisce inevitabilmente per convergere verso quel
personaggio attorno al quale, per esplicita ammissione e scelta dell’autore,
gravitano tutte le immagini capaci di «preformare nel loro intimo l’esperienza
storica successiva». Qui Benjamin allude, ancora una volta, alla «debole forza
messianica» di certe immagini, forse in grado di salvare un futuro presente sul
quale già si stendeva minacciosa l’ombra incombente del nazismo. Theodor Adorno
bene identifica questo nesso quando, nella postfazione alla prima edizione
della raccolta afferma: «Infanzia berlinese è stata scritta all’inizio
degli anni Trenta… Le immagini che il libro fa emergere fino ad una
sconcertante vicinanza, non sono né idilliache né contemplative. Su di loro si
stende l’ombra del reich hitieriano. Come in sogno, congiungono l’orrore che
questo suscita a ciò che è stato. Di fronte alla dissoluzione del proprio
passato biografico, l’intellettuale borghese, con terrore panico, prende consapevolezza
di se stesso come parvenza». E cosa ci può essere di più parvente,
fantasmatico, ma al tempo stesso reale e permanente, di un personaggio
infantile con il quale si è colloquiato durante i lunghi anni della propria
formazione psichica? La sua centralità è tale, nell’economia di Infanzia
berlinese e non solo, che Adomo, nella postfazione, dice chiaramente che:
«L’omino con la gobba doveva servire da conclusione». Dunque nel rito
messianico che Benjamin amministra attraverso l’accurata scelta delle immagini,
all’«omino con la gobba» viene affidata una promessa di salvezza. La
scansione delle immagini di Infanzia berlinese, infatti, ci guida verso
l’«omino con la gobba» attraverso la descrizione di luoghi definiti, come il Kaiserpanorama,
un precursore del cinema con immagini da vedere attraverso stereoscopi
davanti ai quali sedevano gli spettatori, o i ricordi del Tiergarten,
il grande parco al centro della città con i suoi favolosi animali, la lontra, i
pavoni le farfalle, o della sua casa immersa nella luce lunare che «non è
destinata al nostro vivere diurno», con tutto il corteo domestico di armadi,
calzini, la scatola con gli strumenti per cucire, o il telefono che, all’epoca,
se ne stava «incompreso ed esiliato».
Dopo queste «stanze», a mo’ di introduzione, ecco
ad un tratto apparire un essere, una entità, totalmente distinta, un totaliter
aliter cui Benjamin, inaspettatamente, attribuisce il ruolo di alter
ego, ma di un tipo affatto particolare, dato che è lui a vedere, senza
essere visto, tutte le immagini precedenti: «Quando compariva restavo con un
palmo di naso (nell’originale tedesco Benjamin usa l’espressione das
Nachsehen haben, alla lettera «seguire le cose con lo sguardo»). E intanto
le cose si ritraevano, sino a che, passato un anno, il giardino divenne un
giardinetto, la mia camera una cameretta, la panca una panchetta. Le cose si
assottigliavano, ed era come se spuntasse loro una gobba che le assimilava
all’omino. L’omino mi anticipava sempre. E nell’anticiparmi intralciava il mio cammino.
In realtà non faceva che riscuotere di ogni cosa cui volgevo la mia
attenzione, la metà del dimenticare… Fu sempre solo lui a vedere me. Mi vide
nel nascondiglio e davanti al recinto della lontra, nei mattini d’inverno e
davanti al telefono…».
L’«omino gobbo» dunque, assimila progressivamente
il mondo visionario ed infantile di Benjamin nella sua gobba, riscuotendo
inoltre la «metà del dimenticare». Ecco perché il filosofo, alla fine, lo
ritiene il suo dybbuk, una entità che vive con lui, che condivide i
sui pensieri più nascosti, ed anche che li protegge dalla storia nella sua
mistica gobba. Come non richiamare un’altra immagine-guida di Benjamin, quella
dell’Angelo della storia con il volto alle macerie del passato e le ali già
spiegate verso il futuro? Non è forse il mondo che l’omino con la gobba
preserva nella sua deformazione a costituire il possibile futuro verso il quale
l’Angelus Novus viene spinto? Come dirà delle immagini-costellazione nei suoi
Passage parigini, l’«omino con la gobba» vive in un luogo in cui «un’epoca
sogna la successiva».
Tutto ciò che si produce nell’ebraismo, ha
scritto Rosenzweig in La stella della redenzione, comporta una
doppia relazione, da una parte con questo mondo e dall’altra con un mondo che
deve venire: Benjamin ricava il suo spazio in questa tradizione. Ecco perché
l’«omino con la gobba» di Infanzia berlinese, nascosto nel
buio notturno della cantina, così come il suo corrispettivo nascosto nel
buio dell’automa giocatore di scacchi nelle Tesi sul concetto di storia,
verrà da Benjamin continuamente citato, richiamato, allusivamente evocato in
una pluralità di saggi, come quello su Kafka, al fine di essere poi utilizzato
come veicolo metaforico, affidabile proprio per la sua specificità formale, per
quella carica proiettiva che in Benjamin, come in tutti i grandi visionari,
cambiava di polarità mutando la deformità in salvezza.
La genia dell’omino con la gobba
Ma chi erano i sodali dell’«omino gobbo», la sua
genia occulta, nascosta nella buca del palcoscenico infantile del filosofo
berlinese? Tra quali personaggi della tradizione ebraica egli lo aveva scelto
per la capacità di trasformare in visione messianica le angustie e le paure
della sua vita errabonda, in deflusso escatologico le ansie infantili? Il filo
sottile che lega questi personaggi viene costantemente evocato da Benjamin come
in una formula alchemica, in cui ciò che si legge non corrisponde a nulla di
fruibile se non per un iniziato che possegga la chiave di lettura. L’«omino
gobbo» appartiene, lo abbiamo accennato, a quella stirpe di figure che Benjamin
riferisce all’arte di Robert Walser; in specifico a quella parte che «ci
rivela donde provengono i suoi diletti. E cioè dalla follia, e basta». Si
tratta però di una forma di «follia» particolare, più definibile come «mania»,
avrebbe detto Platone nel Fedro (244 A-Q, come quella che «viene
dalle Ninfe», che porta i doni più ambiti, una follia che «illumina».
Anche in una lettera al suo amico Gershom
Scholem, Benjamin scrive che «la follia è l’essenza dei personaggi di Kafka; da
Don Chisciotte, agli assistenti, fino agli animali», e aggiunge che solo
l’aiuto di un folle è veramente un aiuto. «Vi è, come dice Kafka,
un’infinita speranza, solo non per noi». Ecco che il dybbukim Walter
Benjamin-omino con la gobba, al tempo stesso lui e non lui, può lanciare uno
sguardo sull’infinita speranza. Nel saggio su Kafka, Benjamin ci spiega che
«questo ometto è l’inquilino della vita distorta; e svanirà quando verrà il
Messia, di cui un gran rabbino ha detto che non intende mutare il mondo con la
violenza, ma solo aggiustarlo di pochissimo». E allora, questo «aggiustare di
pochissimo», questo raddrizzare i torti, come forse la gobba dell’omino,
mettono il personaggio «kafkiano» in diretta relazione col Messia.
Il «gran rabbino» a cui Benjamin fa riferimento è
Rabbi Nachman di Breslav, uno dei padri fondatori del chassidismo, il movimento
mistico popolare che vedeva la speranza palingenetica depositata negli
emarginati, i folli e gli inetti. Rabbi Nachman sosteneva, con disarmante
semplicità, che «la venuta del Messia non cambierà nulla, salvo che ognuno si
accorgerà della propria insipienza».
Da questo riferimento capiamo anche l’attitudine
di Benjamin rispetto al mondo misterioso dell’infanzia, a quei segreti nascosti
all’interno della gobba dell’omino come nel buio dell’automa giocatore di
scacchi. Per questa corrente del misticismo ebraico, infatti, il solo nominare
questi segreti senza svelarli, poteva affrettare l’avvento dei tempi
messianici. Per capire il chi è dell’«omino con la gobba» si deve dunque
tornare alle visioni infantili che egli ritrovava nelle esperienze con
l’hashish, dove ad un certo punto dice: «La maleducazione è il dispiacere che
il bambino prova per il fatto di non essere capace di magia. La sua prima
esperienza del mondo non è che gli adulti sono più forti, ma la sua incapacità di
praticare la magia».
L’ «omino con la gobba» è dunque un essere
favoloso che ci riporta ai momenti estatici, aurorali, dell’entusiasmo
infantile: il tempo del mistero e del segreto, quando «tutto era ancora
possibile».
«Non crediate il destino sia più che l’intensità
dell’infanzia» dice Rilke, e nessuno più di Benjamin, che ha teso tutta la sua
vita tra le polarità di una fede politica materialista e una religiosità
mistica, può capirlo.
Anche nel romanzo di Elias Canetti Auto da fé (nell’originale Die Blendung,
accecamento), compariva un gobbetto giocatore di scacchi, l’ebreo Fischerle,
anche lui simbolo del legame che l’uomo deve avere con le rovine del passato se
vuole progettare il futuro. Sia per Benjamin che per Canetti, allora, l’«omino
gobbo» è il fantasma dell’identità che per nascondersi e salvarsi, ma anche per
agire sottilmente sul mondo, deve prendere forme deformi
Sullo sfondo di queste storie si stagliano infine
figure come quelle del Golem, creato da Jehuda Löw ben Bezalel, rabbino in
Praga nel sedicesimo secolo, o dell’Homunculus di Paracelso: simulacri di vita
prodotti artificialmente ed al servizio del loro padrone certo, ma solo in
quanto animati dalle stesse forze mistiche che donano la vita, o la morte, agli
esseri umani che li hanno concepiti.
La confessione
Questa chiave di lettura intima, personalissima,
ci viene data da Benjamin in punto di morte, come estrema confessione che
ritroviamo in una lettera alla adorata Gretel Adorno, alla quale ha affidato il
segreto dei suoi ricordi. Siamo qui a poche ore della morte suicida, nel
Settembre del 1940 a Port-Bou in Spagna, mentre tentava di emigrare negli Usa.
Benjamin ha con sé una borsa nera nella quale, forse, si trova la stesura
finale, «assoluta» dirà lui, delle Tesi, che egli vedeva come premessa
necessaria al grande affresco dei Passage.
Il suo stato d’animo è ben descritto dalla
lettera nella quale ritorna il contenuto intimista delle immagini di Infanzia
berlinese: «Per quanto concerne la tua richiesta di appunti che possano
risalire alla conversazione sotto gli alberi di marronniers, ebbene,
si è presentata in un momento in cui proprio quegli appunti mi hanno dato da
fare. La guerra, e la costellazione che l’ha portata con sé, mi ha condotto a
mettere per iscritto alcuni pensieri che posso dire di aver tenuto per almeno
vent’anni custoditi in me, anzi preservandoli pure da me stesso. Questo è anche
il motivo per cui persino a voi non ho concesso altro che un fuggevole sguardo
su di essi. La conversazione sotto i marronniers fu una breccia in
questi vent’anni. Ancora oggi te li consegno più come un mazzetto di erbe
sussurranti messe insieme in passeggiate meditative che come una raccolta di
tesi (…). Esse mi fanno supporre che il problema del ricordo (e dell’oblio),
che vi appare ad un altro livello, mi terrà occupato ancora per molto tempo».
In realtà egli non ebbe tutto il tempo che avrebbe voluto, pochi giorni dopo
una dose di morfina lo stroncherà, ma nella missiva respiriamo l’aria che
aleggia intorno ai misteriosi personaggi che vengono direttamente dai giorni
dell’infanzia, la loro scaturigine onirica ed allusiva, che li rendeva passage
dei pensieri segreti che solo in punto di morte Benjamin si era deciso a
svelare. E allora capiamo che la preghiera finale di Infanzia berlinese
dedicata al personaggio kafkiano, è in realtà per se stesso: «Prega bambino
mio, per l’omino con la gobba prega Iddio».
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Bibliografia
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Walter Benjamin Infanzia berlinese. Einaudi. La
descrizione delle immagini «capaci di futuro» scelte nella memoria del filosofo
tedesco. In una Berlino del primo Novecento, in cui la visionaria intuizione di
Benjamin intravede nel passato fantastico dell’infanzia la possibilità di una
salvezza futura dalle emergenti ombre del nazismo. Sarà infine l’omino gobbo a
nascondere nella sua deformazione la scintilla messianica affidata alle favole
infantili.
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Gershom Scholem, Walter Benjamin ed il suo angelo.
Adelphi. L’amico di una vita ricostruisce in questo folgorante saggio la
relazione tra Benjamin ed il famoso dipinto di Klee «L’angelo della storia» che
il filosofo berlinese vedeva come la metafora del passato che però non imedisce
al vento impetuoso del futuro di richiamare l’umanità alla speranza messianica.
In realtà II quadro fu per Benjamin metafora ben più intima, essendo da lui
identificato come l’immagine del contrastato amore per Asija Lacis la giovane
rivoluzionaria russa che lo introdusse al marxismo costringendolo a creare un
originale quanto doloroso ponte tra fede ebraica e materialismo storico.
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Walter Benjamin, Tesi sul concetto di storia, Einaudi. Le
tesi erano originariamente l’introduzione al visionarlo lavoro sui Passage
di Parigi. Nella prima tesi compare la leggendaria figura del Turco l’automa
giocatore di scacchi realmente esistito e che sconfisse anche Napoleone.
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Raffaele K. Salinari SMS Simboli Messaggi Sogni Punto Rosso.
La ricostruzione del rapporto tra Benjamin e le sue visioni infantili
ricostruite attraverso le genealogia dell’omino gobbo e della sua relazione con
altri personaggi della cultura ebraica dal Dybbuk al Golem di Rabbi Loew.
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