Guttuso
Le
formazioni economico-sociali come le persone vivono fasi infantili, giovanili,
mature e di decadenza, a ciascuna delle quali corrispondono rappresentazioni e
stati d'animo. L'idea di progresso è la visione ottimistica di un capitalismo
pieno di baldanza giovanile che aveva davanti a sé un mondo intero da
conquistare. Perché stupirsi, allora, se oggi, in piena fase senile, prevale il
pessimismo?
Carlo Bordoni - Non c'è più il progresso di
una volta
Si è smarrita la fiducia in un miglioramento continuo. All'uomo postmoderno non basta consumare di più.
Ha ancora senso parlare di progresso? Siamo abituati a pensarlo come una costante universale, la naturale propensione a migliorarsi. Invece è un'idea relativamente recente, nata in funzione della modernità. Di fronte alla scelta improponibile tra salute e lavoro, i cittadini di Taranto hanno disertato il referendum consultivo sulla chiusura dello stabilimento siderurgico dell'Ilva: in assenza di un futuro in cui credere, l'idea di progresso diventa insostenibile.
Il problema semplicemente non si pone per i classici greci e latini, che vedono nel futuro i segni di un peggioramento da evitare e invocano il passato, l'età mitica dell'oro da cui l'uomo è precipitato. Platone considera il presente un momento di decadenza, secondo una teoria della degenerazione della politica, frutto di un conservatorismo che teme il cambiamento e sogna il ritorno alla semplicità dell'esistenza. Orazio può scrivere Damnosa quid non imminuit dies? («Che cosa non rovina il passare dei giorni?»), nel convincimento che il tempo sia nemico dell'uomo e il domani infausto. Il costante sguardo volto al passato spiega la difficoltà di uscire dai limiti dell'esperienza umana, guardare oltre e immaginare il futuro. Prevale un generale pessimismo e persino in Lucrezio, dove per la prima volta appare il termine progresso, è accettata la prospettiva apocalittica di un mondo destinato a finire.
Per trovare un cambiamento bisogna attendere gli albori del XVII secolo e il filosofo inglese Francis Bacon: nelle sue opere il metodo induttivo nelle scienze rivela i primi sintomi dello spirito moderno e il fine della conoscenza è l'utilità (Commodis humanis inservire, «Servire al benessere dell'uomo»), concetti ripresi da Cartesio e poi da Montesquieu, Voltaire e Turgot.
In un vecchio libro degli anni Venti, intitolato Storia dell'idea di progresso (Feltrinelli), lo studioso irlandese John Bury illustra l'origine dell'idea di progresso, collocandola nel Settecento, al momento dello sviluppo delle scienze e dell'affermazione della modernità: «L'idea di progresso umano è una teoria che comprende una sintesi del passato e una profezia del futuro. Si basa su una interpretazione storica secondo cui gli uomini avanzano lentamente in una direzione definita e desiderabile, e ne deduce che l'avanzata continuerà indefinitamente. Questo implica che si arriverà un giorno a godere di una felicità generale, che giustificherà tutto il processo della civiltà».
Partita da un'unica matrice illuminista, l'idea di progresso si viene divaricando lungo il XIX secolo, al seguito di ideologie inconciliabili. L'idea modernista più marcatamente liberista, sulla via indicata da Adam Smith, si lega ai principi del mercato, volgendosi al consumismo. L'altra, nel percorso da Hegel a Marx, radicandosi nel concetto di storia, punta alla liberazione dal bisogno, all'uguaglianza e al controllo statale. Entrambe le visioni entrano in crisi nella seconda metà del secolo scorso: l'una si trova di fronte, oltre ai guasti della mercificazione, il problema di salvaguardare il pianeta dall'esaurimento delle risorse. L'altra perde credibilità in seguito al crollo dei regimi comunisti.
La simultaneità di entrambi gli eventi fa sospettare una radice comune, di fronte alla crisi della modernità e dei suoi principi fondamentali (le «grandi narrazioni» di Jean-François Lyotard), su cui si basava l'essenza del moderno: l'affidamento alla tecnica, la speranza di un continuo miglioramento, le ideologie. In una parola, la fiducia nel progresso. Che però viene perdendo consistenza di fronte all'incertezza e all'assenza di riferimenti su cui contare. L'uomo contemporaneo sembra così nuovamente incapace di andare oltre i limiti dell'esperienza e di guardare con fiducia al futuro, proprio come i classici. Se non torna con rammarico al passato, è perché ha smarrito il senso della storia ed è troppo occupato a sopravvivere. La sua è piuttosto una nostalgia del presente, il disagio indicato dall'antropologo Arjun Appadurai nel saggio Modernità in polvere (Raffaello Cortina), provocato dal desiderio per cose mai accadute, che si possono solo immaginare. Il progresso è superato dal postmoderno, su cui si sono esercitati a lungo i filosofi del pensiero debole, oppure siamo dinanzi a una diversa condizione del moderno? Di modernità plurali parla il sociologo Peter Wagner in Modernità (Einaudi), teorizzando un'idea di progresso che si adegua alle diverse formulazioni della società attuale.
Le interpretazioni più recenti, molte delle quali tese a favorire la ripresa di questa idea, ne testimoniano la crisi. Gli economisti Daron Acemoglu e James Robinson, in Perché le nazioni falliscono (Il Saggiatore), attribuiscono le ragioni della prosperità al progresso produttivo di stampo liberista, purché all'interno di sistemi politici democratici, confortati da Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi che, in uno studio commissionato dall'ex presidente francese Nicolas Sarkozy, La misura sbagliata delle nostre vite (Etas), propongono di superare il prodotto interno lordo come indicatore dello sviluppo e di tener conto delle conseguenze ambientali della crescita. Chi invece confida ancora nelle possibilità della scienza, come il futurologo Byron Reese, autore del recente saggio Infinite Progress (Greenleaf), crede che «la tecnologia e Internet pongano fine all'ignoranza, alle malattie, alla fame, alla povertà e alla guerra».
Il concetto di progresso è tipico del linguaggio critico di matrice socialista, mentre nel gergo economico occidentale (l'Ocse) si preferisce il termine sviluppo, col rischio di misurare tutto in termini quantitativi: tonnellate di merci e manufatti, petrolio estratto, kw di energia elettrica. Lo stesso processo di acculturazione, secondo la logica positivista, segue l'esempio dell'industria: il progresso si misura dal numero di libri stampati o di giornali distribuiti, dalla percentuale di diplomati e laureati, dal tasso di alfabetizzazione. Ma il dato statistico non fotografa la realtà nella sua complessità e, soprattutto, non rende conto delle ingiustizie. Il presente sarebbe migliore del passato per il solo fatto che si consumano più merci e si possiedono più oggetti.
Le «magnifiche sorti e progressive», che per tre secoli hanno caratterizzato la storia dell'uomo, si sono arenate sulla soglia della tarda modernità. L'idea di progresso, più che alimentare il «principio speranza» di cui parlava il filosofo Ernst Bloch, assomiglia sempre più alla fine dell'utopia.
(Da: Il
Corriere della Sera del 12 maggio 2013)
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