Daniele Balicco e Pietro Bianchi – Il postmoderno secondo F. Jameson
Nel secondo dopoguerra, il marxismo ha occupato
un ruolo importante nel campo della cultura politica europea, soprattutto in
Italia, Germania e Francia. Ma è solo a partire dagli anni Sessanta che la sua
influenza travalica gli argini tradizionali della sua trasmissione (partiti
comunisti e socialisti; sindacati e dissidenze intellettuali) per radicarsi
come stile di pensiero egemonico nell’inedita politicizzazione di massa del decennio
’68/’77. Tutto cambia però, e molto rapidamente, con la fine degli anni
Settanta: una serie di cause concomitanti (cito in ordine sparso: la sconfitta
politica del lavoro, l’esasperazione dei conflitti sociali, l’uso della forza
militare dello Stato conto i movimenti, una profonda ristrutturazione
economica, la rivoluzione cibernetica, il nuovo dominio della finanza
anglo-americana) modifica non solo l’orizzonte politico comune, ma, in
profondità, le forme elementari della vita quotidiana. In pochi anni, tutta una
serie di nodi teorici (giustizia sociale, conflitto di classe, redistribuzione
di ricchezza, industria culturale, egemonia etc…) escono di fatto dal dominio
del pensabile; e in questa mutazione occidentale il marxismo, come forma
plausibile dell’agire politico di massa, semplicemente scompare. Sopravviverà
contro se stesso come teoria pura, protetta in alcune riviste
internazionali prestigiose (New Left Review; Monthly Review; Le
Monde Diplomatique), in un eccentrico quotidiano italiano (Il Manifesto)
e in alcuni i fortilizi accademici minoritari, per lo più americani (come per
esempio Duke, CUNY e New School).
La maggior parte degli studi pubblicati in questo
nuovo contesto sradicato e internazionale non riesce, come è ovvio, a superare
il confine minoritario nel quale è imprigionato. E tuttavia esistono alcune
eccezioni, come, per esempio, Postmodernism di Jameson, Limitis to
Capital di Harvey, The Long Twentieth-Century di Arrighi. Pochi
altri testi – forse soltanto Empire di Hardt e Negri, escluso da
questo saggio anche perché la sua tesi di fondo, già a distanza di pochi anni,
veniva smentita non dalla teoria, ma dalla storia – sono riusciti infatti ad
attraversare il deserto politico di questi decenni conquistandosi, magari
retrospettivamente, il ruolo di bussola teorica di questo nostro tempo
disorientato. Prima di avvicinare questi lavori importanti, fondamentali per
decifrare il capitalismo contemporaneo, sola una precisione: di questi tre
autori – tutti e tre firme prestigiose della New Left Review - solo
Jameson è americano; Harvey è britannico ed Arrighi italiano. Tuttavia,
l’associazione non è impropria perché medesimo è il contesto nel quale hanno
lavorato e pubblicato la gran parte dei loro studi.
Postmodernismo
Non è stato Fredric Jameson ad inventare il
termine «postmodernismo»; e neppure Jean François Lyotard, sebbene lo scelga
come aggettivo per il titolo del suo pionieristico saggio pubblicato alla fine
degli anni Settanta2.
Tuttavia, è solo con il lavoro teorico di Jameson che la parola «postmoderno»
diventa termine guida del dibattito teorico contemporaneo fino ad assumere la
dignità di concetto storico periodizzante. Dopo la pubblicazione sulla «New
Left Review» nel 1984 di Postmodernism or the Cultural Logic of Late
Capitalism diventerà comune, infatti, pensare come postmoderna l’età
contemporanea, qualificandola, con questo aggettivo, come «età della fine del
processo di modernizzazione».3
La discussione teorica, che lo scritto ha inaugurato, sul significato di questa
trasformazione profonda della vita quotidiana nelle società occidentali, ha
occupato il centro della teoria critica internazionale per almeno vent’anni.
Non stupisce che Postmodernism sia stato subito tradotto in moltissime
lingue, fra cui, già alla metà degli anni Ottanta, il cinese mandarino.
Professore di letterature comparate alla Duke
University in North Carolina, Fredric Jameson può, senza problemi, essere
considerato come l’importatore negli Stati Uniti del marxismo critico europeo.
Allievo di Auerbach e di Marcuse, Jameson ha infatti incarnato, con tutti i
pregi e i difetti del caso, e forse fuori tempo massimo, una figura un tempo
tradizionale per la cultura europea, ma sicuramente eccentrica per quella
americana: il critico letterario di formazione marxista. Con la differenza,
però, che l’innesto di questa tradizione politica in un contesto asettico come
quello dei campus americani – universi per lo più avulsi dal mondo
reale ed estranei a qualsivoglia movimento sociale, organizzazione politica o
sindacale – si è spesso trasformato in un esausto esercizio accademico. Anche
nei saggi più riusciti di Jameson, come L’inconscio politico4
o lo stesso Postmodernismo, probabilmente i suoi due veri capolavori,
è difficile non percepire il contesto da cui si originano. Tanto la forma
confusa e debordante dell’argomentazione quanto l’accumulo bulimico di
eterogenei materiali d’analisi potrebbero senza difficoltà essere letti come
una freudiana formazione di compromesso. O forse, molto più probabilmente, come
la stanca trascrizione crittografica di un sismografo che segnala ad estranei
la presenza di un terremoto avvenuto altrove.
La prima stesura di Postmodernism risale
ad un famoso intervento pubblico di Jameson tenutosi al Whitney Museum di New
York nell’autunno del 1982. Il titolo anticipa già la sostanza
dell’argomentazione: Postmodernism and Consumer Society. La
rielaborazione sarà pubblicata in una prima versione nel 19835,
e in una seconda, più estesa e parzialmente differente, l’anno successivo, con
il titolo, negli anni divenuto celebre, di Postmodernism or the Cultural
Logic of Late Capitalism. Tutti i lavori successivi approfondiscono spunti
od intuizioni già presenti in questo primo saggio, davvero straordinario per condensazione
di temi e proposte. Nel 1991 Jameson ha pubblicato in volume – ed è un libro
ponderoso, di oltre 400 pagine – i suoi lavori più importanti sul tema,
incluso, naturalmente, quel primo saggio apparso sulla «New Left Review» che
ora dà il titolo e apre l’intera raccolta. Ed è questo il libro canonico per
chiunque voglia iniziare ad occuparsi della “questione postmoderna”. Vediamo
rapidamente come è costruito.
Il volume è diviso in due parti: la prima
comprende nove capitoli e sono per lo più saggi già apparsi in rivista, e qui
ripubblicati con aggiunte, modifiche, riletture, sistemazioni. La seconda,
invece, è inedita e ha la forma di una laboriosa nota a margine, di un commento
laterale alla prima sezione orientato verso alcune possibili linee di
approfondimento. Non a caso, molti dei saggi pubblicati negli anni successivi –
da Geopolitical Aesthetic: Cinema and Space in the World System (1992)
fino al più recente Archaeology of the Future: the Desire Called Utopia and
Other Science Fictions (2005) – saranno effettivamente la sistemazione
compiuta di quelle proposte originarie. Nell’introduzione al volume Jameson
descrive i quattro temi fondamentali della sua ricerca, così come si è
sviluppata dal saggio originario del 1984: il problema dell’interpretazione
dell’estetico, l’utopia come categoria necessaria del pensiero politico, le
tracce della sopravvivenza del moderno, la “nostalgia” come ritorno del
represso storico.
Le mosse teoriche di Jameson sono sostanzialmente
due. La prima: il postmoderno è l’età storica del compimento del processo di
modernizzazione («Il Postmoderno è quello che si ha quando il processo di
modernizzazione è terminato e la natura è sparita per sempre»6).
Jameson è subito molto chiaro: il suo studio ha un intento periodizzante, non
vuole proporre un nuovo paradigma epistemologico, come Lyotard (La
condition postmoderne); né descrivere un nuovo stile architettonico, come
Jencks (The Language of Post-modern Architecture, Rizzoli, New York
1977); né tantomeno articolare un nuovo progetto filosofico, come Habermas (Modernity
– an Incomplete Project, in Aa.Vv., The Anti-Aestetic, cit., pp.
3-15). Il postmoderno, per Jameson, è, molto più semplicemente, una categoria
storica. Descrive un’epoca caratterizzata, come chiaramente indica il prefisso
“post”, dall’esaurimento del movimento moderno, dall’estenuarsi del suo
processo di trasformazione sociale, economica e culturale. Il ragionamento che
guida la sua periodizzazione si origina, ed è profondamente suggestionato,
dalla lettura di Late Capitalism (Humanities Press, London 1975) di
Ernest Mandel. Seguendo l’interpretazione dell’economista trotzkista tedesco,
Jameson è persuaso che ci siano tre fondamentali discontinuità nello sviluppo
tecnologico moderno a cui corrispondono, in modo più o meno coerente, tre
diverse fasi dello sviluppo economico, sociale, estetico.
La prima, situabile a partire dalla seconda metà
del Settecento in Inghilterra, ma operativa lungo tutto l’Ottocento nel resto
d’Europa, riguarda l’invenzione dei motori a vapore. A questo primo salto
tecnologico corrisponde un’intensa stagione di trasformazioni sociali,
politiche ed economiche: sono questi gli anni della prima rivoluzione
industriale e della rivoluzione politica americana e francese. Ma le
trasformazioni naturalmente agiscono in profondità, trasformano il pensiero: è
questa, infatti, l’età che pone, per la prima volta, il problema filosofico
dell’emancipazione e della libertà individuale in un sistema post-cetuale, non
comunitario; ma è anche l’età della catastrofe del sistema dei generi, se nel
giro di pochi anni l’intero corpus letterario tradizionale si sfalda e
il centro del campo estetico viene conquistato da due forme sostanzialmente
nuove: la lirica moderna e il novel. Questa, nella periodizzazione di
Jameson, ed è una lettura che corrobora le antiche intuizioni di Lukács, è
“l’età del realismo”, l’età, fra gli altri, di Scott e di Balzac, di Hegel, di
Beethoven e di Smith.
Dalla seconda metà dell’Ottocento diventa
visibile, perché determinante, un nuovo poderoso salto tecnologico:
l’invenzione dei motori elettrici, dei motori a scoppio, quindi lo sviluppo
dell’industria chimica. Sono questi gli anni dell’invenzione del telegrafo e
delle ferrovie. Successivamente, delle automobili, del telefono, della radio e
degli aereoplani. Ognuna di queste invenzioni trasforma radicalmente l’uso e la
percezione dello spazio e del tempo. Del resto, questo mondo progressivamente
rimpicciolito è anche un mondo progressivamente conosciuto, conquistato,
controllato e spartito: il 1881 è la data del congresso di Berlino. Poi
verranno le guerre mondiali. Secondo Jameson, è solo a questo punto dello
sviluppo del capitale che diventa avvertibile e tragico il contrasto fra il
nuovo universo sociale e percettivo costruito e plasmato dalle macchine e tutto
ciò che, pur coabitandovi, tuttavia riesce ancora a preservarsi, rimanendone al
di fuori, segno antropomorfico millenario in un universo sempre più accelerato
e non-umano. Di questa precisa contraddizione il modernismo è la soluzione
simbolica. Che potenzi la forma come resistenza aristocratica ad un presente
minaccioso (come, per esempio, in Flaubert, Proust o Mahler) o che viceversa
esalti la modernità tecnologica attraverso strategie di luddismo estetico (e si
pensi anche solo a Rimbaud, Marinetti, a Duchamp o a Beckett), quello che è
comune alle due strategie è la percezione di essere in bilico fra due mondi, di
percepirli, nel bene e nel male, ancora come differenti e antagonisti: Freud e
Nietzsche, Einstein e Svevo, Keynes e Schönberg, Lenin e Le Corbusier, Ford e
Ejzenstejn. Non è un caso, secondo Jameson, che proprio in questi anni
diventino centrali due concetti estetici: il concetto di “stile” e il concetto
di “genio”. Entrambi esprimono la possibilità della totalizzazione del
differenziato anticipata nella forma – ed è compensazione simbolica di
un’oggettiva dépossession du monde, che nessuna esperienza personale
potrà ormai più colmare – oppure pretesa, rischiata, combattuta nella politica
– ed è la storia tragica, quanto meno negli esiti, del movimento operaio e
delle rivoluzioni comuniste mondiali. Il modernismo esprime la sostanza di
questa tumultuosa età di lotta fra forze oppositive, tanto nella possibilità di
un nuovo equilibrio fra mondo umano e sistema delle macchine; quanto,
viceversa, nella possibilità oggettiva del suo annientamento: Auschwitz e
Hiroshima.
Il terzo salto tecnologico è spinto
dall’invenzione dei motori nucleari e dalla cibernetica, a partite dagli anni
Quaranta del secolo scorso negli Stati Uniti; più o meno dall’inizio degli anni
Sessanta nell’Europa occidentale. Quello che è fondamentale capire di questa
nuova trasformazione è, secondo Jameson, l’inedita capacità meccanica di
plasmare le forme elementari della percezione umana, di invadere, in poche
parole, il dominio dell’estetica. Quindi, di elaborare, produrre ed esprimere
cultura. Le nuove macchine, infatti, non producono oggetti, ma ri-producono il
mondo. Sono depositi sconfinati e non-umani di linguaggio e di memoria. Della
presenza, per quanto residuale, di un universo ancora pre-moderno cancellano la
percezione, le tracce; e soprattutto la possibilità del ricordo. Si pensi anche
solo a come sono stati trasformati la Natura e l’Inconscio, elementi ancora
simbolicamente caricati e percepiti nelle età precedenti come irriducibili al
processo di modernizzazione. Secondo Jameson se lo sviluppo dell’industria
culturale colonizza il secondo, invadendo l’immaginazione, manipolando il
desiderio, estetizzando le pulsioni, l’industrializzazione dell’agricoltura,
l’impiego della chimica e delle biotecnologie genetiche per il suo sviluppo
intensivo, trasforma definitivamente la prima, il suo uso, il suo controllo, la
sua conoscenza. Di questo nuovo universo percettivo non antropomorfico il
postmodernismo è la traduzione simbolica: dall’architettura di Las Vegas agli
aeroporti internazionali, dalla pop art di Andy Warhol alla musica
elettronica, dal movimento punk a quello new age. E,
soprattutto, la video art che, insieme a design e
architettura, occupa il centro del sistema estetico postmoderno. Per quanto il
nuovo universo percettivo escluda a priori la possibilità dello stile, essendo l’età
nella quale le macchine hanno conquistato il dominio dell’espressività, si
possono ricordare almeno gli autori sui quali Jameson concentrerà il suo
implacabile sguardo diagnostico: fra gli altri, David Lynch, Claude Simon,
Frank Gehry, Robert Gober.
Come si vede, il ragionamento alla base di questa
periodizzazione, tanto affascinante quanto discutibile, è di natura
economico/tecnologica. Nella lettura di Jameson le trasformazioni tecnologiche
sono sintomi, vettori periodizzanti di mutazioni molto più vaste. Il
suo sguardo acrobatico si sofferma però solo sul loro impatto sociale e sensorio:
marxianamente, è uno sguardo che non supera mai la soglia della sfera della
circolazione. Lontanissima da quest’analisi l’idea che i salti tecnologici
siano anche momenti di conflitto interni alla storia dell’uso
capitalistico della scienza. E che quest’ultima, incorporata nello sviluppo
delle macchine, produca un’innovazione per lo più comandata contro il lavoro
vivo e quasi sempre trasformata in un’arma nella competizione
infra-capitalistica. Jameson preferisce adottare lo sguardo neutro e scettico
dell’osservatore partecipante; scelta decisamente eccentrica, per un
intellettuale che si autodefinisca marxista. La sua periodizzazione infatti
descrive solo la storia della progressiva espansione del dominio delle
macchine su tutte le dimensioni dell’esistenza umana fino a conquistare, nel
postmoderno, le forme elementari della percezione. Quello che rivela, infatti,
l’analisi dell’estetica contemporanea, non è altro che il formarsi di una nuova
e precisa antropologia: «il postmoderno deve essere visto come la produzione di
persone postmoderne capaci di adattarsi ad un preciso e peculiare mondo
socioeconomico»7.
Ed è questa la tesi che sostanzia il secondo movimento di fondo della sua
impostazione. L’analisi dell’eterogeneo universo estetico postmoderno, dal
celebre confronto fra Van Gogh e Andy Warhol sulla trasformazione e sul declino
dello stile espressivo, all’analisi della “nostalgia” come forma estetica
dell’impossibilità della narrazione storica in Ragtime di Doctorow o
nel film Body Heat di Kasdan, fino all’interpretazione
dell’organizzazione dello spazio del Westin Bonaventura Hotel di Portman
in Downtown Los Angeles, serve a Jameson come verifica della tendenza. Il suo è
uno sguardo diagnostico, l’uso dell’estetico è sempre sintomatologico. Per
questa ragione l’analisi non è interessata ad esprimere giudizi di valore, ma
al reperimento delle tracce, al riconoscimento degli indizi significativi.
All’altezza di questo primo saggio, Jameson li raggruppa sotto tre costanti,
correlate e interdipendenti: il declino della oggettività espressiva,
l’implosione del tempo, l’equivalenza dello spazio. Sono tre lati di uno stesso
triangolo: la forma generica della nuova antropologia plasmata dal sistema
delle macchine.
Fonte: questo articolo è stato pubblicato oggi su http://www.leparoleelecose.it/
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