Il testo che pubblichiamo in questa pagina è uno
stralcio della lectio magistralis «Riflessioni su un capitolo di Svevo» con la
quale lo scrittore Andrea Camilleri ha ricevuto venerdì a Cagliari la Laurea
honoris causa in Lingue e Letterature Moderne Europee e Americane (la laudatio
è stata tenuta dal professor Giuseppe Marci).
Andrea Camilleri - Il sogno del tenente Camilleri
Penso che si
possa identificare in Mastro don Gesualdo diverga l’esemplare testa di serie di
un filone narrativo non marginale della nostra letteratura, quello cioè che
s’incentra essenzialmente sui rapporti complessi e problematici tra padri e
figli, o, più estesamente, sull’inevitabile contrasto generazionale tra vecchi
e giovani. Mastro don Gesualdo, vissuto nel mito della “roba” che ha accumulato
e gelosamente amato, muore consapevole che tutto il frutto del suo lavoro andrà
disperso convinto com’è dell’assenza di un erede che dimostri le sue stesse
doti, che sia alla sua altezza. Su questa linea, ma con una sorta di
prospettiva inversa, L’incendio nell’ uliveto della Deledda racconta
l’impossibilità del rifiuto d’obbedienza ai genitori, alla tradizione, alle
incrostazioni d’usi, costumi e abitudini. E vorrei ricordare anche il Tozzi di Con
gli occhi chiusi e de Il podere, dove il contrasto assume toni di
cupa, oppressiva, angosciosa drammaticità. L’elenco potrebbe continuare, ma mi
fermo qui. (…)
Assai meno ricco, ma di certo più stimolante, appare
essere il filone narrativo dove il punto di frizione generazionale non è
rappresentato dalla concretezza della roba verghiana, ma è costituito dal
contrasto d’idee e di ideali, di sentimenti, di convincimenti, di modi
d’intendere il mondo e la vita. La lacerazione quindi non avviene più
sull’avere, ma sull’essere. (…)
Prendiamo La coscienza di Zeno di Italo Svevo. Esso,
come si sa, percorre cinque nuclei narrativi, dei quali il secondo s’incentra
sui rapporti di Zeno col padre e culmina nel capitolo quarto, intitolato «La
morte di mio padre» sul quale vorrei soffermarmi. Ricordando però che il
romanzo finge d’essere un’autobiografia che Zeno, ormai vecchio, scrive a scopo
di terapia psicoanalitica. Quindi noi lettori saremo costretti a vedere la
figura del padre solo ed esclusivamente attraverso lo sguardo, parziale e
certamente non oggettivo, del figlio. Emerge subito, fin dalle prime righe del
capitolo, che tra i due c’è stata sempre un’incapacità di comunicazione che ha
portato rapidamente a una reciproca diffidenza.
Il padre un giorno non ha esitato ad affermare che
Zeno è una delle persone che lo inquietano di più. E siccome Zeno, come al
solito, ha riso alle parole del padre, questi si è spinto oltre, definendolo un
pazzo. Ebbene, per tutta risposta, Zeno si sottopone alla visita di uno
specialista e poi sbandiera al padre il documento che lo dichiara del tutto
sano di mente. Alla vista di quel documento, il padre si convincerà sempre di
più che il figlio è proprio un pazzo.
Ma perché Zeno reagisce ridendo alle parole
del padre? Egli è convinto che il padre non abbia nulla da insegnargli, ma
il suo riso non è di sufficienza, è un modo di eludere una qualsiasi forma di dialogo.
Zeno ride in quanto figlio, dato che è praticamente impossibile essere
contemporaneo alle idee, ai sentimenti, alla visione del mondo del proprio
figlio perché esse rappresentano il presente. Si possono tutt’al più capirle,
giustificarle, accettarle, ma per condividerle in assoluto occorrerebbe avere
la loro stessa età e aver vissuto la sua stessa esperienza esistenziale. Dal
canto loro, i figli ritengono ciecamente d’esser dalla parte della ragione
perché credono di poter giudicare i padri in quanto possessori del consuntivo,
della summa, dell’elenco quasi esaustivo dei magri numeri positivi e dei
troppi, inevitabili, numeri negativi di chi li generò. Ma quell’elenco che
hanno in mano è solo un susseguirsi di fatti, di accadimenti, di manifestazioni
esteriori. Impossibile che da quell’elenco si possano scoprire le celate
motivazioni, i segreti propositi, le profonde intenzioni. Occorrerebbe,
appunto, che i figli fossero contemporanei dei loro padri. Eppure non c’è
dubbio che Zeno e suo padre siano legati da un sincero amore reciproco. La
difficoltà è tutta nel comunicarselo, al di là dei rituali come il bacio della
sera. Zeno, al riguardo, pensa che il suo sia un affetto particolare che gli
impedisca d’intendere tante cose del suo genitore. Ma non dice quali siano
queste tante cose. La domanda che sorge spontanea nel lettore allora è se
l’impedimento non sia dovuto non tanto a una particolare forma d’affetto quanto
piuttosto all’inconscia volontà, o incapacità, di non voler vedere l’uomo, coi
suoi problemi e le sue angosce, celato sotto l’immagine corazzata del pater
familias. (…)
Se mi sono soffermato su questo capitolo di Svevo è
perché esso, per le poche analogie e le tantissime diversità, mi mette comunque
in condizioni di passare all’autobiografia, genere nel quale mi muovo con molto
personale disagio.
Quando il medico della clinica romana, dove papà era
stato ricoverato per quella che credevamo una pleurite, mi comunicò con una
franchezza che poteva anche dirsi brutalità che non si trattava di pleurite ma
di tumore diffuso e che al malato restavano sì e no due mesi di vita,
allontanandosi poi fischiettando, io, alla pari di Zeno, lo odiai. E, sempre
come Zeno, sentii l’assoluta necessità di trascorrere tutto il tempo che potevo
con mio padre. Avevo quarantadue anni, una famiglia, un lavoro che m’occupava
tutta la giornata. Così con mamma stabilimmo che lei sarebbe andata in clinica
durante il giorno, mentre io vi avrei trascorso le sere e le notti.
Sono più che certo che papà si fosse reso subito conto
della natura e della gravità del suo male, tant’è vero che non domandò mai a
noi né di cosa fosse malato né l’andamento della sua malattia. Forse aveva
convinto il medico a dirgli la verità. E quindi ci aveva tolto dall’imbarazzo
di mentire. Era sempre stato un uomo coraggioso, in guerra e in pace,
guadagnandosi tra l’altro ima medaglia al valor civile per aver salvato alcuni
pescatori da morte certa.
Non potevo lasciare che se ne andasse senza avergli
spiegato le ragioni di certe mie convinzioni che l’avevano addolorato. Ero
l’unico figlio che aveva e penso di averlo sempre deluso, da ragazzo e nella
prima giovinezza, in tante sue piccole aspettative. Voleva che andassi con lui
alle partite di calcio e io mi rifiutavo fermamente, voleva che l’accompagnassi
a caccia e io qualche volta acconsentii ma poi smisi, voleva insegnarmi a
giocare al biliardo ma non riuscì a farmi prendere in mano la stecca. L’amavo
intensamente, ma non mi piaceva la maggior parte delle cose che faceva. Di lui
mi piacevano invece, e tanto, i libri che leggeva. Era uomo d’eccellenti
letture, pur non essendo un intellettuale.
Era stato un fascista della prima ora, uno squadrista,
ma non era né facinoroso né settario. Una mattina del 1938, un mio compagno di
classe ci disse che non poteva più venire a scuola perché ebreo e io, a
mezzogiorno, a tavola, domandai una spiegazione a papà. Strinse i pugni e,
rosso di rabbia, cominciò a dirmi che tra noi e gli ebrei non c’era nessuna
differenza, che la faccenda della razza inferiore era una baggianata, ch’era
tutta una tragica buffonata per far contento Hitler…
Fu negli ultimi mesi del ’42, sotto l’infuriare dei
bombardamenti, che in lui si spense la fede nel fascismo. Lo dichiarò
pubblicamente e venne deferito all’Ufflcio Disciplina del Partito con la
proposta d’espulsione. Suppergiù nello stesso periodo io maturavo segretamente
la mia conversione al comuniSmo. Ma questo, neH’immediato dopoguerra che da noi
iniziò dal settembre 1943, segnò l’inizio del nostro profondo attrito. Subito
ci trovammo su sponde opposte: papà monarchico e liberale, come del resto tutta
la piccola borghesia del mio paese, io comunista e repubblicano. Non mi
perdonava la scelta politica, non riusciva a darsene pace. Quando rincasavo
dopo una manifestazione di partito e mi mettevo a tavola, lui qualche volta si
alzava e se ne andava. Al tempo del referendum tra monarchia e repubblica, nel
’46, per settimane non scambiammo una parola. U n giorno sentii che si
lamentava con mamma: «Cosa ho fatto di male nella vita per avere un figlio
comunista?»
Se parlavamo di politica, subito la conversazione
degenerava in discussione più 0 meno rabbiosa. Ma tutto questo non inficiava
l’amore che sentivamo d’avere l’uno per l’altro. Me ne andai via dalla
mia famiglia nel ’49 e i miei genitori non solo non mi ostacolarono ma
anzi si svenarono per aiutarmi a trovare la mia strada. E poi, quando papà era
andato in pensione, si erano trasferiti a Roma per stare vicino a me e alla mia
famiglia. E ora sentivo la necessità assoluta di un ultimo colloquio con lui,
che chiudesse il discorso interrotto dalla mia partenza.
E così, notte dietro notte, talvolta prendendoci per
mano, ci parlammo a cuore aperto, sussurrando, quasi in una lunga confessione.
Le parole adesso scorrevano tra di noi senza intoppi, senza reticenze. Non ci
fu una domanda che non ricevesse risposta. Come in Svevo, l’occasione di
parlare di religione ci venne data da una terza persona, un prete, ch’era
venuto a domandare a papà se volesse confessarsi. Papà aveva risposto di no e
quello aveva insistito facendogli notare che presto avrebbe dovuto rendere
conto a Dio… Papà aveva ribattuto che conosceva benissimo la sua situazione. La
sera dopo aveva raccontato l’episodio a una suorina in procinto di partire come
missionaria e quella gli aveva risposto che non c’era bisogno di confessarsi,
bastava un segno di croce per mettersi in regola con Dio. In quelle notti ci
riconoscemmo l’un l’altro, da pari a pari, come se non fossimo più padre e
figlio. Finalmente pacificati in quel tempo sospeso. E quando finimmo di
parlare di noi due, volle che gli raccontassi qualcosa.
E io cominciai a narrargli una storia alla quale avevo
iniziato a pensare proprio lì, una notte che lui dormiva e io no. Alla fine,
dopo una settimana, si fece giurare che l’avrei scritta così come gliel’avevo
raccontata. Ho tenuto fede alla parola, così è nato il mio primo romanzo, Il
corso delle cose.
Poi, come in Svevo, poco prima che morisse, capitò un
episodio sconvolgente. Devo fare una premessa. Papà aveva combattuto durante la
Prima Guerra nelle fila della Brigata Sassari, a lungo era stato agli ordini di
Emilio Lussu verso il quale nutriva un’autentica venerazione.
Verso l’alba, dopo una notte estremamente inquieta,
vidi che aveva aperto gli occhi, si era alzato a mezzo e mi fissava. D’un
tratto mi chiamò, a voce alta, ma che non era la sua: «Tenente Camilleri!
Tenente Camilleri!» Rimasi in silenzio, non sapevo cosa rispondere. Allora
visibilmente si alterò, tornò a chiamarmi con voce più imperiosa: «Tenente
Camilleri!» Avevo capito che stava rivivendo un momento di guerra e che io ero
luL E che lui era Lussu. «Signorsì» risposi. «Presto, tenente! Si defili! Non
vede che è sotto tiro?» Indugiai a rispondere, ero commosso, emozionato. Allora
lui insistè: «Si defili, le ho detto! O vuole insegnarci il coraggio, coglione
di un siciliano?»
Molti anni prima gli avevo domandato: «Ma non provavi
paura quando andavi all’attacco?» E lui: «Certo. Ma con quella gente lì, se non
ti dimostravi coraggioso come loro…»
«Si defili!» ripetè. «Signorsì» risposi. Si quietò di
colpo, ricadde giù, in un torpore quieto. Io invece ero profondamente
sconvolto.
Dopo un po’ vidi che aveva portato la mano all’altezza
del viso e voleva fare qualcosa che non gli riusciva. Credendo che gli desse
fastidio il boccaglio dell’ossigeno, gli presi la mano. Ma lui, a fatica, me la
guidò verso la sua fronte. Capii che voleva farsi il segno della croce e l’aiutai.
Aprì gli occhi, aveva uno sguardo lucidissimo. «Vai via» mi disse. «Ma
papà»…«Vai via e torna dopo che ti sei fumato una sigaretta».
Anche in Svevo c’è un’ultima sigaretta. Ubbidii e
quando, dopo aver fumato, m’avviai verso la sua camera, sapevo che non l’avrei
trovato più in vita.
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