Esce oggi, per Bruno Mondadori, Geografia commossa dell'Italia interna. Questi sono due capitoli del libro
Franco Arminio - Autoritratto di un paesologo
Il mio lavoro è rivolto ai percettivi
più che agli opinionisti. Nel mondo dominato dall’attualità, nelle
macerie della modernità e dell’autismo corale, la paesologia propone un
semplice esercizio per disintossicarsi dalle opinioni, per dare
attenzione alle cose usuali, alle cose qualsiasi che nessuno guarda
perché ovvie.
È un’esperienza per chi ama guardare il
mondo, piuttosto che giudicarlo: osservare i luoghi e i modi di abitarli
senza ansie di denunce o compiacimento.
Scrivere con la luce che c’è fuori e con
il buio che abbiamo dentro. Esercizi di etnologia soggettiva per
riattivare la percezione: l’idea guida è che dove si pensa che non c’è
niente in realtà c’è sempre qualcosa.
La paesologia va dietro le meraviglie
del mondo esterno: scoprire come ci si sente in un paese sapendo che
ogni paese è diverso da tutti gli altri, scoprire che il nostro corpo è
un estraneo, servire la poesia piuttosto che servirsene, sentire che la
vita non è tensione verso un fine trascendente, ma tempo che passa e ci
chiama a ritrovarci assieme ad altri gioiosamente, pur sapendo che
ognuno è dentro un suo esilio implacabile e ogni lietezza è provvisoria.
Io sono in mezzo al corpo, in mezzo allo
spavento e all’incanto di stare al mondo. Il corpo sta nella luce, il
corpo prende umori da fuori e ne produce di suoi, li prende dai demoni,
dalla polvere di stelle depositata sul fondo delle vene, li prende
dall’aria che abbiamo respirato dieci anni prima, dal bacio che non
abbiamo avuto.
Non posso confezionarmi in un discorso
preciso, sono a metà tra un comizio e gli occhi di una volpe puntata dai
fari, innocenza e intrigo, fare un passo senza sapere come fare il
successivo, furia e indugio, oltranza e vaghezza, infiammazione e fuga.
Adesso sono diventato intimamente
politico, dal punto della testa dove il pesciolino della morte si
dibatte nella sua rete fino al punto in cui il mondo pensa di darsi
ordine, fino al punto in cui il mondo ci riguarda il meno possibile. La
virata è avvenuta nel corpo, nel corpo si prepara tutto: la scrittura,
l’amore e la morte.
Il mio è un cercare casa, sapere che non
ne ho una, la casa la cerco in un abbraccio, in una frase. Io sono
singolo e solitario, non convergo se non per lampi, per apparizioni.
Sono a metà tra la poesia e l’etnologia, non potrei mai essere solo una
cosa e l’altra, sono l’intreccio di intimità e distanza, incontrare un
luogo e una persona come cose che possono venirmi incontro e che possono
lasciarmi: ancora il non trovare casa.
Esco per il sole, per vedere la morte
che confeziona il suo vestito sui corpi degli anziani, vedere le
panchine, le merendine dentro i bar, la scena del mondo di adesso,
quelli che nel bar raschiano i numeri per diventare ricchi.
Tengo la felicità in bocca e la morte vicina all’orecchio.
Accolgo quello che accade in strada,
alla televisione, al gabinetto, il colpo di tosse, il fazzoletto in
tasca, il sesso, i cani, la luna, e da poco perfino il mare.
Sono sempre intreccio, mai un filo solo.
So che un paese è diverso dall’altro e
dovrebbe avere regole sue. Ogni luogo del mondo ha diritto di vivere una
sua epoca, una sua economia, una sua cultura, una sua vita e una sua
morte. Per preservare i luoghi marginali dalla globalizzazione non
bisogna pensare a un ritorno indietro né ad alzare barriere. Detto
questo ci vorrebbero delle politiche che aiutino le zone a bassa densità
demografica. Non pensate ai soldi ma a una serie di incentivi. Premiare
chi rimane è una scelta che aiuta anche chi va via, perché ha un luogo
in cui tornare. La letteratura oggi non può che militare per la difesa
dell’ambiente. È il suo primo compito. La letteratura dovrebbe
organizzare una riduzione del peso dell’uomo sul pianeta. E in fondo la
grande letteratura lo ha sempre fatto. La grande letteratura è
intimamente ecologica. Gli scrittori devono dire agli uomini che il
mondo non è nostro. Io non devo stare qui, prendermi cura del mondo, ma
aspirare in un certo senso a uscire dal mondo. Stare con un piede qui e
con un altro in un mondo dove tira un’altra aria. Per impedire che il
mondo finisca presto, bisogna allentare la presa, prendersi sul serio
come umani e meno come persone. I piccoli paesi hanno il paesaggio,
hanno una combustione lenta, a volte sono felicemente inoperosi.
Unisco l’attenzione al dettaglio con la
spinta verso l’invisibile, mettere al centro la poesia cambia molte
cose, significa mettere al centro della vita la morte, la morte non è
una faccenda di un giorno solo, è la faccenda di ogni giorno, la morte
muove l’anima, la poesia e la morte portano inevitabilmente a dio, non
quello che ci hanno raccontato, un dio che non promette paradisi e
inferni, un dio che è semplicemente un punto vuoto a cui approdare, il
mio dio è il niente.
Forse non ci può accadere niente di
grande prima della morte, è come se la vita avesse un tappo che le
impedisce di scendere o di salire: è bello quando le persone hanno
questa possibilità di scendere e salire in se stesse. Io voglio avere
un’ampia oscillazione, ma intanto le parole oggi non vengono fuori,
l’anima non mi serve a niente stamattina, adesso devo uscire verso il
sole, mettermi dentro il giorno e vedere in che punto del corpo il
giorno mette l’anima, l’anima è la cosa di cui ho bisogno, l’anima del
mondo è il mio lutto, più che la fine della comunità dovrei piangere
sull’anima perduta. L’anima del mondo è finita perché sommersa dalle
merci, le merci ci sono sembrate più comode dell’anima, e la vita è
diventata una trafila burocratica, una faccenda gestita da una ragione
anemica e sfiduciata. Le merci hanno messo fuorigioco ogni leggenda,
fuorigioco il sogno e in fondo anche l’amore, alla fine tutto quello che
discende dall’anima è come se fosse messo fuorigioco.
Io sono oltre la decrescita, sono fuori
dalla logica di costruire società e benessere, non devo costruire
niente, sono qui nel mondo, sono qui e non si può dire nient’altro, sono
nel tempo che passa, non c’è niente da risolvere, non c’è una meta da
raggiungere. Ci vuole una religione che ci dia quiete, che ci faccia
accettare quietamente l’assurdo della condizione umana, ma anche la sua
miracolosa bellezza. È bella la vita proprio perché è avvolta nel
mistero e non ha alcun compito e ogni volta che gliene diamo uno ecco
che si stressa, si mette in una morsa. Ogni istante è uno spingersi
verso l’istante successivo cercando di approdare a chissà che, come se
quello che ci fosse non bastasse mai e fosse solo la premessa, la
traccia di un esercizio da svolgere. Qui è la radice dell’inquinamento,
nel sentirsi in colpa se il giorno gira a vuoto. Io ho un’anima ingorda e
non cambia molto se si è ingordi di denaro o di amore o di
divertimento. È l’ingordigia che bisogna spezzare, bisogna capire che la
modernità e lo sviluppismo non sono tensioni capitalistiche. Sono molte
migliaia di anni che abbiamo preso questa piega. E il cristianesimo
l’ha rafforzata. Non ho le idee chiare su questo punto, ci sarebbe da
distinguere tra San Francesco e Calvino, bisognerebbe indagare sul
passaggio dal nomadismo dei pastori all’agricoltura. Dio è morto quando è
nato il primo recinto e noi siamo le sue ceneri.
Io sono un soffio visivo sopra queste
ceneri. È il batticuore delle creature spaventate: dalla nascita alla
morte i miei sono gli spasmi di un topo finito in una gabbia.
L’essenziale c’è prima di nascere e dopo la morte, l’essenziale non è
per me.
Chiodi di pane, appunti sul confine
I paesi che frequento non sono
paesi di montagna, paesi d’altura. Le montagne sono un orlo lontano
verso sud e verso ovest. Bisaccia è il paese dove vivo, Andretta è il
paese dove faccio il maestro elementare. In mezzo c’è l’altopiano del
Formicoso, che sembra una schiena piena d’aghi. È la terapia eolica,
estrarre energia dal vento, estrarre denaro, tanto, e lasciarne assai
poco a chi il vento qui da secoli lo prende in faccia.
Oggi ad Andretta ero con il mio amico
Fabio Nigro. Gli ho detto che la paesologia è una risposta a una domanda
mai formulata e quindi mai ricevuta.
Sono un pescatore di montagna. I laghi, i
fiumi, le pozze della desolazione. Pesco seduto su una panchina,
davanti a un bar, camminando per strada, nell’ufficio anagrafe, dentro
un cimitero, in un vicolo, davanti a una villetta, sotto un albero,
sotto un lampione.
Ad Andretta pesco facce, le facce delle
donne che qui sembrano più antiche che altrove, la carriera della
vecchiaia portata avanti gloriosamente, senza trucchi, senza
abbellimenti.
Oggi non ho fotografato volti, ma porte,
il confine brutale tra le porte di alluminio anodizzato e quelle di
legno. Andretta offre una serie di questi confini e anche nelle persone,
a guardar bene, c’è il confine tra legno e alluminio. L’alluminio è il
corpo pubblico, quello esposto. Il legno col lucchetto, coi buchi e coi
tarli, è l’anima. Fare paesologia significa non rimanere con lo sguardo
sulle porte. Trovato un confine, subito ne attraversi un altro.
Il cielo di Andretta ieri era come
l’aula, come la lavagna, ha lo stesso colore. Il cielo di Andretta mi
dice che non ci sono. Arriverò in me all’ultimo battito del cuore.
A Fabio parlavo del mio essere morto.
Gli dicevo che il mio funerale è già passato, è stato ieri, un mese fa,
un anno fa. Forse vale per tutti, tutti già morti, già dimenticati.
Facebook mi fa pensare a un cimitero, ogni profilo è una lapide, c’è
tutto, la foto, la scritta, ci sono i lumini, i fiori, c’è quello che
serve per celebrare il rito quotidiano della nostra scomparsa.
Uno che scrive cerca di rigare la vita
degli altri con la scrittura, ma la scrittura è un chiodo di pane, non
scalfisce nulla, si sbriciola tra le mani.
Ancora Andretta. Ecco una persona che
una volta avrebbero chiamata la pazza del paese. La seguo verso il suo
vicolo, le scatto una foto mentre entra in casa seguita dal suo e da
altri cani. È lei il punto di animazione in una zona dove non è rimasto
nessuno. Nel vicolo più sotto un vecchio porta la legna in casa. Fabio
gli chiede se è per l’inverno prossimo. Lui risponde che non si sa mai.
Siamo ad aprile, è il momento in cui l’inverno finisce e ricomincia,
come un amore molto lungo che non riesce a placarsi nell’indifferenza.
Telefonare, dire qualcosa a qualcuno con
accenti sbagliati. Tenere a galla il disagio, il pensiero di aver fatto
una cosa indecorosa. E allora richiamare, scusarsi. C’è pochissima
gente in giro disposta ad ammettere i propri errori.
Intervista televisiva. Le domande sono
più o meno le solite, ma io non parlo come scrivo. La scrittura lavora
diversamente e quando parli di quel che hai scritto non hai più il corpo
che avevi quando hai scritto.
Parlo per placare la paura che mi viene parlando.
Adesso non ho più l’umore di questa
mattina. Le mattine a scuola hanno un senso di debolezza, un senso di
tristezza, un senso di sconfitta. Poi la piega del pranzo, carboidrati,
cioccolata, si viaggia con un altro carburante, la notte è lontana. I
pensieri hanno un’altra vibrazione.
L’amarezza è il mio campo da gioco. Le
mie giornate sono gite nell’amarezza, c’è sempre una montagna d’amarezza
da scalare, sono felice della mia amarezza, sono infelice della mia
amarezza, mi proteggo con la mia amarezza, mi annoio per la mia
amarezza, la scalcio e la custodisco e la svendo, faccio errori e
prodigi con la mia amarezza.
Certe cose non ci fanno morire, riattivano la morte che era già in noi.
Mia madre stasera senza la dentiera presenta la sua vecchiaia. I paesi come mostra permanente della vecchiaia.
Mia madre all’ospedale cerca persone a cui dire che sta male.
Per qualche secondo la mia morte non mi fa più paura, non ho alcun bisogno della mia morte.
Oggi pensavo quasi con gioia al fatto che ci dissolveremo. Che bella soluzione.
C’è gente che ha quasi il terrore che
qualcuno possa riuscire in qualcosa. Distinguersi, allungare il passo,
smuovere il traccheggio, ecco le attività più insolenti. Il paese è il
luogo dei gregari che controllano le fughe. Bisogna arrivare tutti
assieme alla volata finale del fallimento.
Il confine tra la vita e la morte, tra
l’intimità e la distanza, tra l’autismo e la condivisione, tra il
bisogno di attenzione e quello di solitudine.
Il confine tra modernità e mondo contadino in alcuni paesi è marcato, in altri è sparito.
Qui è sempre il confine che domina, il
confine tra un paese e l’altro, tra una porta e l’altra, il confine che
corre adesso tra l’inverno e la primavera, il confine che mi
costituisce, il confine in me, il confine dei miei confini, il non avere
altro che confini, il mio essere confine, mangiare confini, prendere
aria e forza dai confini, agitarmi sul confine, correre sui confini,
tornare sui confini.
Il mio confine tra salute e malattia: l’ipocondria.
Pure l’ansia è un confine, l’ansioso è un animale di confine.
Io vivo di avvistamenti come una sentinella, sono sul bordo, nella mia vita non ho mai frequentato nessun centro.
Aprile è un mese di confine.
Contro la crisi abbiamo solo due armi:
il sacro e la poesia. Sta finalmente arrivando il tempo dei percettivi. È
un tempo che viene da sud e dai margini. Il centro del mondo e’ al
buio. A noi ci fa luce il batticuore.
Orlo bordo confine selve monti mare
alberi zolla cane vigna nuvole vacca Lucania San Fele Latronico Trevico
panchina sole alba tramonto e vento neve pioggia e altro vento e altra
neve e aprile e il verde di maggio e il nero di settembre silenzio senza
opinioni luce senza commenti non ho più voglia di parlare di me di dire
cosa faccio dove vado non ho voglia di vincere di passare avanti di
essere il migliore non ho più voglia di essere qualcuno di arrivare a
qualcosa voglio solo che la vita sfili se ne vada da dove è venuta non
la trattengo non voglio trattenere niente camminare guardare gli alberi
non dire e non fare nient’altro che il giro dei confini andare sempre
più dentro a certi confini non superarli non mirare al centro non mirare
alle passioni di tutti disertare prendere confidenza col cielo ma farlo
senza vantarsene non sputare parole sul mondo e sugli altri camminare
uscire perché è uscito il sole uscire prendere un paese passarci dentro
non dire nulla del giorno non accostare niente alla solitudine lasciarla
intatta lasciare che la solitudine faccia la sua vita svolga la sua
storia e così pure la tristezza e la stanchezza essere stanchi tristi e
soli è comunque una fortuna, i buoni sentimenti rigano il mondo come
quelli cattivi come le parole che diciamo e quelle che non diciamo
meglio andarsene in silenzio davanti al mare in mezzo a un bosco davanti
al muso di un gatto pensare alle volpi morte sotto la neve alle fatiche
delle formiche al verde lucidato dal vento alle nuvole dissolte a
quelle che arriveranno guardare il cielo sul confine tra il giorno e la
notte guardare il cielo molte volte al giorno è strano che la gente esca
fuori e non abbia come primo pensiero quello di guardare il cielo è
strano questo andare verso gli altri a guerreggiare meglio sarebbe
andarsene dove c’è silenzio passarsi la luce del giorno tra le dita
sentire la notte prendersi cura della malattia ma senza che questo
diventi un’altra malattia parteggiare per la propria gioia e per quella
degli altri andare alzarsi e salire verso la montagna scalare la
montagna annusarla prendere il sole che prende la montagna guardare le
vacche i cavalli guardare le spine le foglie i ruscelli guardarli senza
pensare che siano altro che spine foglie ruscelli non commerciare col
mistero con l’ecologia col silenzio con la pace stare sul bordo omettere
il centro attraversarlo senza fermarsi c’è un solo centro possibile
nella nostra vita questo centro è la morte dunque fin quando siamo vivi è
solo questione di orlo di bordo di confine.
Da http://www.leparoleelecose.it
Nessun commento:
Posta un commento