Nell’ultimo
numero di NUOVA
BUSAMBRA troverete, tra le altre cose, dei
testi poco noti di Pier Paolo Pasolini, scritti in tempi e occasioni diverse,
che lo stesso autore raccolse insieme, nel 1965, per introdurre la
sceneggiatura del film di Ermanno Olmi, intitolato E venne un uomo, dedicato a Giovanni XXIII, il Papa buono.
Il poeta
di Casarsa, pur essendo stato attratto fin da giovane dalla religiosità
popolare conosciuta nel Friuli materno, è stato a lungo in rotta di collisione
con la Chiesa Cattolica. Non a caso uno dei suoi primi libri di poesia, La religione del mio
tempo, contiene un testo contro Pio XII
che si conclude con questi versi: Quanto bene tu potevi fare ! E non l’hai
fatto: / non c’è stato un peccatore più grande di te.
Pasolini
ha provato, comunque, una immediata simpatia per il successore di Pio XII e seguito
con grande attenzione e simpatia i primi passi del Concilio Vaticano II. Non è
un caso che il suo splendido film Vangelo secondo Matteo - concepito nella Cittadella di Assisi, ospite della Pro Civitate
Christiana – si apra con la dedica ALLA CARA , LIETA, FAMILIARE FIGURA DI
GIOVANNI XXIII.
Riproponiamo
di seguito tre pagine in cui Pasolini, nel prendere spunto dallo stile
comunicativo di Roncalli, ci offre un ritratto originalissimo del Papa buono.
Nella rivista sopra indicata, accanto a questo testo, ne troverete altri
ancora più sorprendenti.
f.v.
Noterella
linguistica
«Ho le valigie pronte» (a proposito della
morte). «Il vescovo è sempre la fontana pubblica», due «motti dì spirito» (è
uscito un libriccino intitolato i fioretti di Papa Giovanni, una raccolta,
appunto di humour orale): credo che una partenza dai «motti di spirito» sia
abbastanza giusta e lecita per capire Papa Giovanni. Non è qui la sede per un
esame stilistico di quei motti: un esame specializzato come lo avrebbe fatto un
Auerbach mettiamo (ricordavo proprio qui, sulla rubrica di «Vie Nuove» come
Papa Giovanni a Istanbul sia stato un frequentatore delle lezioni di Auerbach:
anzi, pare che Auerbach abbia potuto raccogliere e consultare testi, in quella
città d’esilio durante la guerra proprio con l’aiuto del nunzio Roncalli).
Le caratteristiche linguistiche del
«motto di spirito» di Papa Giovanni sono quelle di una grande semplicità;
mentre si sa che l’humour richiede sempre una complicazione psicologica e
culturale. Là dove c’è il motto di spirito, c’è cultura. Diversi tipi di «morti
di spirito» corrispondono a diversi livelli di cultura Nella loro semplicità
-certamente perseguita con un certo sforzo di volontà, divenuto un poco alla
volta naturale - i «motti» di Papa Giovanni, hanno continui riferimenti culturali
interni. E qualche volta anche esterni, ma in tal caso aspirano a una assoluta
comprensibilità: così da poter essere percepiti anche dalle persone di cultura
assolutamente media. Per es.. «Siamo qui su a terra non per custodire un
museo...» rifà leggermente il verso a certo spirito colto che semplifica e
cose: esattamente come avrebbe potuto farlo un farmacista di paese, col padre
contadino e il nonno carrettiere. Così come lo fanno i professori di lettere di
tutti i licei provinciali d’Italia. Ma i motti di spirito di Papa Giovanni non
cedono mai allo scolastico, cioè non prendono mai in giro qualcosa che non c’è.
Il parlare scolastico è tipico solo dei
motti che ne fanno la caricatura, oggi, in Italia: e l’obiettivo di Papa
Giovanni non era certamente quello di prendere in giro il linguaggio
accademico: a meno che egli, sottilmente attraverso la leggera presa in giro
del linguaggio accademico, non volesse prendere in giro l’ufficialità e
l’autorità nei suoi aspetti medi: quelli che contano ancora molto nell’Italia
tecnicizzata. I destinatari dei motti di Papa Giovanni, del suo humour, erano
appunto, insieme i contadini avanzati del Nord Italia e i tecnici del periodo
del benessere: è davanti a questi spettatori ideali che Papa Giovanni ha dato
al suo papato concretezza universale. L’obiettivo di tale humour, però, a parte
la leggera, dolce, benigna presa in giro di certi evidenti oggetti autoritari e
ufficiali, era - come del resto succede sempre di ogni umorismo che si rispetti
- se stesso. Papa Giovanni, da quando è stato eletto Pontefice, non ha fatto
altro che sorridere di se stesso: in quanto possibile oggetto di autorità e di
ufficialità. E su questa base che egli ha fondato la sua assoluta
democraticità: ed è su questa base di democraticità che ha ridato autorità
universale alla parola del Papa. Solo sorridendo umilmente di sé Papa, ha dato
al Papa grandezza. E si osservi ricordando le sue battute, i suoi brevi
discorsetti improvvisati («metti la lingua contro i denti, parla...»), la
assoluta mancanza di impedimenti alla sua scioltezza linguistica; il suo
italiano medio era perfetto e senza nessuna ambizione di eleganza. Aveva la
sciattezza di certe sacrestie che la Perpetua sa far profumare di spigo o di
buoni fagioli. La sua era una lingua manzoniana all’estremo limite del parlato:
appena appena una più attenta sciacquatina in Arno, appena appena un po più
d’impuntatura letterari a ed egli avrebbe esattamente parlato come Manzoni. Se
non parlava «Proprio come Manzoni» era certo per in mancanza d’ informazione:
ma semplicemente perché era più moderno di Manzoni, e la koinè si era
semplifica, fino al punto da essere intesa dai semplici e dai tecnici.
Caratteristica dei matti di spirito è
quella di esse «riduttivi», cioè di abbassare con il sorriso incredulo, i
grandi fatti e le grati idee della vita: in questo senso motto di spirito è
tipicamente borghese, La piccola borgesia - come nota acutamente Moravia -
scherza sempre, quando parla, perché scherzando, esorcizza lo scandalo, attenua
i problemi di coscienza, rimuove da sé le responsabilità gravi: non si
compromette, come Don Abbondio Ma in generale lo spirito borghese non è humour:
cioè prende in giro in prima istanza gli altri. poi (ma è raro) se stesso. Papa
Giovanni prendeva in giro prima di tutto se stesso: lo le valigie pronte» era
l’attenuazione umoristica di se stesso morente e solo molto poco e con molta
umiltà gli altri. Per avere un’idea della differenza tra un motto borghese
tipico e quello di Papa Giovanni, basti leggere le spiritosaggini dei liberali.
anche di quelli intelligenti e colti del «Mondo» o dell’Espresso; la loro verve
ha come oggetto sempre gli altri, soprattutto il cattivo gusto degli altri:
cioè dell’enorme maggioranza dei cittadini italiani. Non c’è mai ombra di
humour cioè di presa i i giro di se stessi E così - molto più volgare di
quello, del «Mondo» cui comunque il buon gusto non manca mai - il modo di fare
lo spirito di certi preti di stile moderno, che credono di poter prendere in
giro in nome di Dio, riuscendo così di una pesantezza che rasenta qualche volta
il teppismo:
non parliamo poi dello «spirito» dei
giornali fascisti o dei rotocalchi conservatori: dove lo «spirito riduttivo»
borghese compie orge di copertura alla mistificazione.
Infine, il «motto di spirito» implica
sempre da parte di chi lo fa, la presenza della cultura: l’uomo incolto non ha
l’humour. L’humour di Papa Giovanni non sfugge a questa regola: sicché l’umiltà
di chi prende in giro se stesso superando i complessi che portano, con
disperazione, alla disistima di se stesso, è integrata necessariamente dalla
cultura. Ma anche la cultura è cultura borghese. La frequentazione di Auerbach
è una spia luminosa di tale cultura: una cultura al livello più alto raggiunto
dalla borghesia. Attraverso tale «cultura» che è a fortiori una cultura
borghese» (quella cattolica è una specializzazione non esiste autonomamente se
non in osmosi alle varie culture che la Chiesa, in quanto terrena, è costretta
a sperimentare e con cui è costretta a coabitare), compie un’esperienza
eccezionale, che si realizza in lui per la prima volta nella storia moderna
della Chiesa. La cultura borghese «neutrale» di per sé, tanto da identificarsi,
negli anni della giovinezza e della maturità di Papa Giovanni, con la cultura
tout court, è stata necessariamente, per Papa Giovanni che la possedeva, la
mediazione indiretta delle grandi esperienze laiche e democratiche della
borghesia più avanzata, che finora la Chiesa aveva respinto come qualcosa di
nuovo e di nemico. Nuovo e nemico al livello ideologico o politico: ma tale
novità e inimicizia non erano sempre identificabili al livello della cultura
specializzata, o almeno dei rapporti culturali, sia pure di tipo diplomatico,
col mondo laico - sicché, se dovessi trarre una conclusione elementare da
quanto ho finora dedotto dal «parlato» di Papa Giovanni, direi che egli non è
stato soltanto un uomo buono - comprensivo, angelico -, ma, attraverso la
cultura, ha potuto assimilare l’esperienza laica e democratica del mondo
moderno, alla sua Fede. E naturalmente poiché di tale esperienza del mondo
moderno il socialismo è ormai gran parte, esso non poteva presentarsi nella
«cultura» di Papa Giovanni se non come un suo elemento, una sua realtà: il che
toglieva ogni possibile manicheismo al suo sguardo sul mondo., Tutto questo
egli ha esperimentato naturalmente, senza teorizzarlo: ma se mai rovesciandolo
nell’azione. Con intuizione prodigiosa che cos’altro ha fatto egli se non
portare una ventata demistificatrice e democratica sulle strutture della Chiesa?
Il Concilio ecumenico sotto il segno della cultura giovannea, è così un fatto
di capitale importanza nella storia della Chiesa, esso ha caratteri
storicamente irreversibili su cui non potrà più aver peso la nostalgia di
nessun cardinale, diciamo con attenuazione giovannea, all’antica.[1]
Per una migliore comprensione della NOTERELLA LINGUISTICA pasoliniana si rimanda al saggio LINGUA E POTERE IN P.P. PASOLINI pubblicato nel novembre 2011 su QUADERNS D'ITALIA'.
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