21 maggio 2013

IL DENARO E I QUIZ IN TV








Dal sito http://www.minimaetmoralia.it/  oggi prendo questo pezzo:

Nico Morabito – I quiz in TV e il denaro

Il quiz televisivo di oggi dice molto del periodo in cui stiamo vivendo. Tra montepremi che scompaiono e concorrenti che giocano per non perdere più che per vincere, si sviluppa un’offerta che premia la mediocrità di chi si nasconde nel gruppo piuttosto che l’audacia di chi osa scattare in salita e provare a vincere in solitaria la tappa.
Un uomo, un padre di famiglia, corre come un pazzo per la città. Sta partecipando a un gioco televisivo. Deve raggiungere un luogo segreto cercando di sfuggire a cinque cacciatori armati. Se ci riesce, il premio per lui sarà di un milione di dollari. Altrimenti, morirà. Ora è nei pressi di un molo, sta per farcela ma viene raggiunto all’ultimo istante. I cacciatori lo colpiscono a bastonate. Lo uccidono, sotto gli occhi delle telecamere. Game over. Torniamo in studio. Il conduttore, commosso, esprime ammirazione per lo straordinario coraggio dell’uomo. Fa entrare la giovane vedova e le annuncia un inaspettato premio di consolazione: “Guardate questa donna. A causa della disoccupazione e della crisi, lei e i suoi tre figli vivevano nella miseria. Ma ora le cose cambieranno”. Il conduttore sfila dal taschino un assegno da 10.000 dollari e lo sventola verso il pubblico in visibilio. La vedova scoppia a piangere. Di felicità.
Le Prix du danger è un film del 1983 (anche allora, a quanto pare, c’era la crisi), tratto da un racconto di Robert Sheckley. Mette in scena una televisione disposta a tutto in nome dello spettacolo, cinica ma anche rassicurante. Una tv consapevole che sì, esistono i giochi e le regole anche spietate, ma senza i concorrenti, poveri disgraziati da spremere fino in fondo, non c’è storia. Niente di nuovo, almeno agli occhi di noi viaggiatori nel tempo. Se succede qualcosa di turpe, la colpa è sempre della televisione.

Everyone loves game shows, right?

E chissà che faccia ha fatto, la televisione, quando le hanno detto che la crisi, questa crisi, non era come le altre, ma irreversibile, e bisognava farci i conti, malgrado avesse scelto il momento peggiore per arrivare. Non che esistano bei momenti per farsi venire le crisi, ma insomma, mettetevi nei suoi panni. Una televisione già in crisi di suo, che fatica ad arrivare alla fine del mese, a mettere insieme il pranzo con la cena, e che all’improvviso scopre di essere ormai circondata. La crisi è ovunque: centro, periferia e sfondo. Che fare? Niente, si adegua. Mette in atto piani a cui non avrebbe mai pensato. A tutto c’era un limite. Taglia i budget, elimina i rami secchi e quelli ancora vivi, scopre la delocalizzazione, rinuncia al proprio specifico, la diretta. Ma al tempo stesso si guarda in casa e realizza che non tutto è perduto. Afferra come pezzi di legno in mare aperto quei generi low-cost che possano garantirle il massimo col minimo. La crisi non è ancora la fine della corsa, e anzi viene proiettata persino nel luogo più fuori moda del palinsesto: i quiz, i game show, i giochi a premi (Ma perché, esistono ancora?).
E così, mentre cerca nuovi mezzi di sostentamento nella bottiglia d’acqua che il concorrente di Frizzi non berrà mai, e le scenografie si fanno più cupe, la televisione continua a giocare, e regalare non i sogni, che ormai non si portano più, ma contentini per sbarcare il prime time, come facevano le nonne una volta: tieni queste diecimila lire, e comprati le caramelle.
La crisi, questa parola, diventa un osso da spolpare, pretesto e sponda per giustificare deficit di creatività: rilancio di vecchi marchi impregnati di ricordi, giochi usati ma sicuri, programmi-mondo già testati ovunque. Fa così la tv francese, in cui titoli ormai mitologici come Motus (France 2), Question pour un champion (France 3) o Le juste prix (TF1) sono in onda da decenni e lo saranno per sempre, finché la famosa “casalinga sotto i cinquant’anni”, alfa e omega di tutto il sistema, non si decide a invecchiare. Fa così la tv anglosassone, alla costante ricerca di paradigmi da imporre al resto del mercato. E fa così la tv italiana.
Chiedi scusa! Chiedi scusa!
C’è un’immagine che conserviamo gelosamente e che un giorno tireremo fuori dalle nostre cartelle Flickr piene di polvere. Antonella Clerici, strizzata nel suo abito da sera, corre verso la famiglia Rossi urlando “Il frigorifero! Abbiamo vinto il frigorifero!”, mentre la nonna agita i pugni, i nipotini esultano e Stefano Palatresi fa partire il motivetto gioioso. Il frigorifero, fil rouge che attraversa le ere geologiche: dagli italiani che arredavano casa con gli elettrodomestici vinti nei primi giochi radio-televisivi (tra cui il frigorifero, poi citato da Umberto Eco in quel famoso scritto che farà sempre soffrire Mike Bongiorno)[i], fino alle vetrine commerciali dei programmi anni Ottanta. Mancava da un po’, ma ora il premio-frigorifero fa il suo comeback, come una rockstar in pensione che sale ancora una volta sul palcoscenico: alla faccia degli hater che mi volevano morto.
Attenti a quei due, la sfida (Raiuno), dopo una prima edizione a base di lustrini e pon pon, in cui il premio finale era “una cena con una fascinosa donna dello spettacolo”, si rende conto di essere fuori dalla storia e spariglia, tirando fuori dall’armadio la naftalina (Apriti, Sesamo!, Il gioco delle coppie) e frullandola con il momento, l’adesso. Due vip si sfidano a colpi di varietà per far vincere, ad altrettante famiglie, fior di premi: batterie di pentole, impianti hi-fi, materassi e, appunto, frigoriferi. Cruciali, come sempre, le soglie di ingresso al gioco, in questo caso gli indispensabili rvm. La famiglia è seduta in salotto, accenna ai sacrifici quotidiani (“I soldi non bastano mai”), condivide segreti (“La nostra arma vincente è stata accontentarsi”), e alla fine si appella al vip di turno (“Vinci per noi!”).
E se per caso la Clerici (o era Loretta Goggi?) manca d’un soffio l’ambito televisore da molti pollici e la famiglia si rabbuia perché quello, il televisore, era l’unico motivo di questo viaggio della speranza all’Auditorium di Napoli (“Ci si è rotto la settimana scorsa”), niente paura, ci pensa la conduttrice: “E vabbé, se volete potete scambiarvi i premi con l’altra famiglia”. La televisione che aggiusta se stessa: eccolo, il famoso spirito del tempo, che vola subito via una volta sistemati i bisogni primari.
Non tutti però sono così fortunati. Antonio è divorziato, ha due figli che non vede mai, e non ha un lavoro fisso. Un giorno decide di partecipare a un game show e, ovviamente, racconta se stesso. “D’estate faccio il bagnino, d’inverno aiuto un mio amico che c’ha un’azienda di agrumeti”, Antonio sospira. Chissà se avrebbe mai immaginato di ritrovarsi a piangere in tv mentre sul megaschermo scorrevano le foto dei suoi figli. E chissà se noi avremmo mai immaginato di finire così.
La prima edizione di Affari tuoi arriva in un paese che sta facendo i primi conti con l’euro. Un paese che ancora non ha ben chiaro dove stia andando, ma che ha voglia di giocare senza troppi pensieri. Il conduttore pre-crisi si diverte con i pacchi, con la sorte, con i cornetti rossi nascosti chissà dove. Prende in giro i concorrenti che piangono (“Guarda come finge, che scena patetica”), ma soprattutto si può ancora permettere di scherzare sui soldi, sul Denaro. “Ma che ce sei venuto affà” è il coretto che parte puntuale quando il concorrente si trova alla fine con pacchi da pochi centesimi.
Un campionario di tic che scivola man mano verso l’illecito. Chi partecipa, oggi, somiglia drammaticamente al se stesso seduto sul divano, e insieme giocano a specchio riflesso con le proprie disgrazie, in una collettiva seduta di autoanalisi. Le lacrime di Antonio sono quelle di tutti, anche del conduttore post-crisi, nel frattempo divenuto psicologo, fratello, amico. Le ansie e i fallimenti esistenziali formano acceleratori supersonici di emozioni, copioni su cui scrivere ogni sera una storia sempre un po’ diversa dalle precedenti.
Ma c’è un prezzo da pagare. La speranza e il sogno si trasformano in tabù, cose di cui vergognarsi. Come capita al signor Gianni quando si trova con un pacco da venti centesimi e uno da un milione di euro. Gli offrono 300mila euro per uscire dal gioco, ma lui tentenna. Il pubblico rumoreggia. Chi è quel folle che rinuncerebbe a una cifra del genere, oggi come oggi? Lui, Gianni: “Chiedo scusa a mia moglie, a mia figlia, a tutti gli italiani che ci stanno guardando… Ma rifiuto e vado avanti”. Dalla platea partono dei fischi, Gianni abbraccia la sua scatola, indietro non si torna. Venti minuti dopo apre il pacco: un milione di euro. Standing ovation. Delirio. Gianni alza gli occhi al cielo. Un milione di euro in gettoni d’oro. Beato lui.

Ti fidi di te?
“Quale tra questi cantanti ha piazzato per primo un singolo alla numero uno? Mark Owen, Robbie Williams o Gary Barlow?”. Nimesh e Gemma sono una coppia, nella vita e nel gioco. Sono partiti con un milione di sterline, adesso ne hanno 75.000. Parte il cronometro. Iniziano a discutere. Nimesh è sicuro: “È Robbie. Ti ricordi? Feel! Angels! C’mon!”. Gemma esita, avanza un dubbio: “Non può essere così facile, è la penultima domanda”. Ma Nimesh non la ascolta, la conduttrice incalza, il tempo sta scadendo, presto!, e lui punta tutti i soldi su Robbie: “Fidati di me, la so. LA SO”. Certo, come no. Era Gary Barlow. Gemma è allibita, avrebbe tutti i motivi del mondo per fare una scenata epocale. Ma non la fa, in fin dei conti è solo un gioco. Intanto sullo sfondo, come se niente fosse, delle guardie (vere) ricominciano a sistemare le mazzette di banconote (vere).
No, non è un game show di Jocelyn, ma The Million Pound Drop Live (Channel 4). La conduttrice, Davina McCall, è dispiaciuta ma non dovrebbe: è andata esattamente come doveva andare. Perché diciamolo, la televisione ci gode a vederti perdere, magari dopo averti portato a un passo dal sogno. Ci ha sempre goduto, solo che adesso non deve nemmeno sforzarsi di fingere. I tempi sono quelli che sono, e mica possiamo regalare un milione ogni puntata. Bisogna agire, prima ancora che sull’immaginario, sul meccanismo. Farò di tutto per farti piangere.
È la logica dei montepremi che durano il tempo di una parentesi, gonfiati a dismisura come la panna montata, tanto poi ci pensa il caso a dimezzare all’infinito, fino agli spiccetti (L’eredità, Reazione a catena). È la logica che spinge a far perdere l’avversario prima ancora di provare a vincere: Breakaway (BBC2) premia più la mediocrità di chi si nasconde nel gruppo che l’audacia di chi osa scattare in salita e provare a vincere in solitaria la tappa. In The Bank Job (Channel 4), invece, due concorrenti si trovano alla fase finale e ciascuno deve persuadere l’altro a cedere la propria parte di montepremi o, al limite, a dividerla. Ma alla fine, ovviamente, vincono la ripicca e i colpi bassi di chi, è successo, piagnucola miseria, c’è la crisi, tengo famiglia, per favore, ti prego, smezziamoci i soldi, e poi invece poi si scopre che era solo un chiagni e fotti in salsa britannica.
La Promessa Televisiva si è dunque rovesciata. La posta in palio di Money Drop (Canale 5) è la stessa di Chi vuol essere milionario, suo predecessore nei sogni del pianeta: un Milione, che però non arriva più alla fine del percorso, in cui l’eroe ha dovuto superare le prove che la vita gli ha messo di fronte. Il Milione ora è subito là, su un piatto d’argento, e difenderlo non è lo stesso che guadagnarlo. Non solo. Proprio nel momento in cui il Denaro assume centralità fisica, tattile, e gli si dedica la massima spettacolarizzazione (l’arrivo del furgone blindato negli studi televisivi, le guardie, i contanti continuamente inquadrati, il metal detector), prende l’aspetto di un beffardo ologramma. Money Drop è un gioco in cui la delusione è sempre più forte di ogni possibile gioia, un gioco in cui scommetti sulle tue ignoranze, in cui perdi anche se riesci a vincere. E non potrebbe essere altrimenti, quando l’impalcatura si regge su basi tremebonde come le paure e le insicurezze, per giunta moltiplicate per due.
Se è vero che le dinamiche di coppia nei giochi televisivi sono sempre esistite (da Lascia o raddoppia, in cui si poteva consultare l’esperto all’ultima domanda, fino a Quiz Show), è altrettanto vero che qui l’Altro, più che alleato, sembra messo apposta per farti perdere, al limite per farti venire una crisi isterica. Come confermato anche dal successivo The Exit List (ITV), il cui unico principio guida è la memoria a brevissimo termine, il cambio di paradigma è emblematico. La coppia, già confusa da fattori esterni (il cronometro, la voce in sottofondo del presentatore, il gong), sbanda sotto i colpi di dinamiche che non c’entrano nulla con il gioco ma che finiscono per determinarlo: l’amore, l’amicizia, la parentela. Non c’è tempo per mettere alla prova certe relazioni, per evolversi. La coppia torna a casa esattamente com’è arrivata, con in più tutte le frustrazioni e le recriminazioni del caso: un conto è perdere per troppa audacia (only the brave, ricordi?), un altro perché non hai avuto il coraggio di contraddire il tuo fidanzato davanti a tutti (Gemma, ti prego, dicci che hai mollato Nimesh).

Vincere meno, ma vincere
Si dice che in tempo di crisi la gente sia portata a giocare di più. Chissà. Di sicuro è disposta a tutto pur di vincere meno, anzi, pur di vincere quel poco che basta a dire: ho vinto. Al bar sotto casa come negli interstizi di palinsesto. La televisione, specchietto per le allodole, questo lo sa benissimo. E se ne approfitta. Asseconda una tendenza ludica da discount che ormai ha travalicato i generi tradizionali, come nel caso delle domandine sceme a costi esorbitanti che ti ritrovi persino durante le partite di calcio. E non potrebbe essere altrimenti, perché in questa costante mimesi del reale sta tutta la necessità della televisione di essere ancora protagonista, interpretando i ruoli che le riescono meglio: stampella per bisogni in pronta consegna, diversivo mentre fuori scoppiano gli incendi o, meglio ancora, cattiva consigliera. Tre, due uno, che perda il migliore.


[i] “I nostri rapporti si raffreddarono notevolmente quando lui pensò di scrivere un saggio su di me, la Fenomenologia di Mike Bongiorno. Non fu molto tenero nei miei confronti”: M. Bongiorno, La versione di Mike, Mondadori, Milano 2007.



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