A tutte le
amiche e a tutti gli amici del Centro Studi e Iniziative di Marineo auguri di
Buon Anno
Guido Araldo - Capodanno
Si dice che
anticamente nella notte di san Silvestro: il momento in cui la faccia destra di
Giano subentra a quella sinistra, fosse usanza contare i soldi, sperando in un
anno ricco e prospero. A mezzanotte si bruciava il ginepro nel camino, la cui
cenere andava sparsa sull’uscio di casa all’alba, come gesto benaugurale. Allo
stesso modo era considerato un gesto benaugurale bruciare nel camino, nel
focolare, nella stufa o meglio ancora in un piccolo falò appositamente
approntato, il ramoscello di vischio o l’agrifoglio o il ramoscello di ginepro
appesi sull’uscio di casa in occasione del Natale. E, sempre all’alba dell’anno
nuovo, si attribuiva un valore divinatorio alla prima persona che s’incontrava,
con l’eccezione dei famigliari.
Per i Romani
il Capodanno figurava tra i dies fasti: un giorno positivo, impregnato della
benevolenza divina. Era un giorno di gioia, in cui scambiarsi doni tra fronde
di alloro e di agrifoglio, le piante tradizionalmente benaugurali; mentre a
Giano veniva offerta una focaccia di miele, sovente coperta da foglie di
ginepro dorate, nota con il nome del dio: ianual, accompagnata da brocche colme
di latte. L’augurio era palese: un anno dolce come il miele, con abbondanza di
cibo rappresentata dal latte. Né mancava, nei casi migliori, il dono di monete
per alludere alla speranza di un anno particolarmente ricco e prospero.
Il rito
ufficiale, però, era un altro: al dio era sacrificato un toro bianco
(un’eccezione poiché pare che a Giano non fossero graditi i sacrifici animali)
e durante questo rito antichissimo venivano proferiti i voti solenni.
A Roma, dopo
il sacrificio del toro bianco, i Senatori s’incontravano nella Curia per la prima
seduta dell’anno. In epoca imperiale, durante questa prima riunione i senatori
rinnovavano il giuramento di lealtà e fedeltà nei confronti dell’imperatore
che, a sua volta, esprimeva, solennemente, i vota pulica sacrificando a Giano e
a Giove due grandi buoi con corna dorate. Al tramonto l’imperatore riceveva sul
Campidoglio le strenae: offerte in denaro.
Che nei due
giorni più importanti dedicati a Giano: il 31 dicembre e il 1° gennaio, si
tenessero festose veglie e grandi banchetti benaugurali, si evince dai severi
divieti verso tali festeggiamenti dei sacerdoti cristiani, appena la nuova
religione messianica giunta dalla Palestina s’impose come culto dominante.
L’usanza
delle veglie al 31 dicembre e dei banchetti al 1° gennaio è documenta
dall’autore latino Columella e pare fosse diffusa in tutto l’impero romano. Lo
scrittore afferma che al temine dei compitalia era diffusa l’abitudine
d’allestire un banchetto benaugurale davanti ai Lari, attorno al focolare sacro
di un grande cascinale, di una villa, di un villaggio, dei quartieri cittadini.
I compitalia erano le feste dei compita, cioè dei crocicchi e, pertanto, feste
mobili, durante le quali nei crocicchi più importanti venivano deposti gli
attrezzi agricoli rotti, affinché venissero distrutti, e quelli in funzione
affinché ricevessero una sorta di benedizione collettiva, in previsione del
nuovo anno e di buoni raccolti.
Più dubbia
l’usanza, durante i compitalia, di bruciare un gomitolo di lana e anche un
piccolo fantoccio di paglia, gettandoli nel fuoco acceso accanto al crocicchio.
Secondo alcuni etnografi questa tradizione alluderebbe a tempi molto antichi,
quando s’immolavano esseri umani, in pieno inverno, per procacciarsi il favore
degli dei.
Nell’anno 64
a.C. i festeggiamenti del Capodanno furono vietati a Roma per i disordini che
ne seguirono; ma la popolarità di queste veglie e dei successivi banchetti era
tale che successivamente furono reintrodotti. A nulla valse il tentativo
dell’imperatore Augusto di trasferirli alle idi di agosto, quando a quella data
istituì le feriae Augusti: l’attuale Ferragosto.
Nel 389 un
editto dell’imperatore Teodosio ufficializzò il Capodanno come festa imperiale,
nonostante la sua proibizione dei culti pagani, com’era successo un secolo
prima con il sol invictus dies natalis: il giorno della nascita del Sole
Invitto, il 25 dicembre, ufficializzato dall’imperatore Aureliano nel 274. La festa
del solstizio prossima a diventare il Natale, come lo conosciamo noi.
De epoche
antichissime era usanza gettare una manciata di grano e un boccale di vino nel
focolare o nei falò pubblici, per propiziare una buona annata, invocando Cerere
e Bacco, e le danze che si tenevano attorno al fuoco, incluso “il rito” del
salto sulle fiamme, avevamo sicuramente una valenza magica.
In una data
imprecisata in epoca imperiale veglie e banchetti sembrarono non più bastare e
s’impose la voga di chiassose sfilate, durante le quali i più giovani bussavano
agli usci delle case inneggiando a Giano, auguravano un buon anno e ricevevano
solitamente un compenso in focacce, vino e fors’anche denaro. Un’usanza che ben
presto, da Roma, dilagò in tutto l’impero romano.
Delle degenerazioni
di questi cortei chiassosi, in seguito confluiti nel Carnevale, si ha preziosa
testimonianza da parte di san Massimo, primo vescovo di Augusta Taurinorum
(Torino) che stigmatizza la diffusa abitudine di molti uomini in trasformarsi
in donna, in tutto e per tutto, come pure l’abitudine di altri di camuffarsi in
bestie, se non addirittura in mostri, emettendo grida impressionanti.
All’incirca
nella stessa epoca a Ravenna, che aveva sostituito Roma come capitale
dell’Occidente Romano, dopo la breve parentesi di Milano, sono documentati
cortei con travestimenti mitologi e animaleschi, degni di un carnevale,
nonostante si fosse ormai in epoca cristiana. Probabilmente l’usanza del
travestimento animale, tipico principalmente nell’Italia Settentrionale e in
Provenza, fino in Catalogna e sulle rive dell’Ebro, utilizzando soprattutto
corna di cervo e zanne di cinghiale, lascia trasparire la persistenza di un
archetipo celtico, quando in pieno inverno s’inneggiava e sacrificava a
Cernunnos, il grande cervo saturo di valenze magiche, e al dio Lug, raffigurato
sempre in compagnia di un cinghiale, similmente a sant’Antonio abate con il
maiale. Ed era questo il tempo in cui venivano e ancora vengono “accomodati” i
maiali, grazie ai quali “l’inverno diventa meno lungo” per la disponibilità di
carne e grassi. Alle nostre latitudini, per millenni, un inverno senza la
macellazione del maiale diventava un incubo!
Già in
queste occasioni era usanza diffusa bruciare il fantoccio di una vecchia, la
vetula, che in realtà rievocava il personaggio ancestrale di Anna Perenna, in
seguito trasformata in Befana e, anche, nella vecchia della Quaresima, che
subentrava al fantoccio del Carnevale bruciato pubblicamente la sera del
Martedì Grasso e faceva la sua comparsa quando di questo fantoccio non restava
che cenere.
Dal V secolo
dalle trionfanti autorità ecclesiastiche fu avviata una vera e propria lotta
contro il paganesimo, che continuava a manifestarsi sotto queste usanze
ataviche difficili da estirpare, e proprio il Capodanno, con i suoi
festeggiamenti in onore al dio bifronte Giano, fu identificato tra i massimi
esempi di residuale paganesimo: la Natività e l’adorazione dei Re Magi dovevano
bastare. Un’autentica guerra che nell’anno Mille sembrava definitivamente vinta
e che, invece, mille anni dopo era persa!
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