31 dicembre 2012

CAPODANNO. STORIA DI UNA FESTA





A tutte le amiche e a tutti gli amici del Centro Studi e Iniziative di Marineo auguri di Buon Anno

Guido Araldo - Capodanno

Si dice che anticamente nella notte di san Silvestro: il momento in cui la faccia destra di Giano subentra a quella sinistra, fosse usanza contare i soldi, sperando in un anno ricco e prospero. A mezzanotte si bruciava il ginepro nel camino, la cui cenere andava sparsa sull’uscio di casa all’alba, come gesto benaugurale. Allo stesso modo era considerato un gesto benaugurale bruciare nel camino, nel focolare, nella stufa o meglio ancora in un piccolo falò appositamente approntato, il ramoscello di vischio o l’agrifoglio o il ramoscello di ginepro appesi sull’uscio di casa in occasione del Natale. E, sempre all’alba dell’anno nuovo, si attribuiva un valore divinatorio alla prima persona che s’incontrava, con l’eccezione dei famigliari.

Per i Romani il Capodanno figurava tra i dies fasti: un giorno positivo, impregnato della benevolenza divina. Era un giorno di gioia, in cui scambiarsi doni tra fronde di alloro e di agrifoglio, le piante tradizionalmente benaugurali; mentre a Giano veniva offerta una focaccia di miele, sovente coperta da foglie di ginepro dorate, nota con il nome del dio: ianual, accompagnata da brocche colme di latte. L’augurio era palese: un anno dolce come il miele, con abbondanza di cibo rappresentata dal latte. Né mancava, nei casi migliori, il dono di monete per alludere alla speranza di un anno particolarmente ricco e prospero.

Il rito ufficiale, però, era un altro: al dio era sacrificato un toro bianco (un’eccezione poiché pare che a Giano non fossero graditi i sacrifici animali) e durante questo rito antichissimo venivano proferiti i voti solenni.

A Roma, dopo il sacrificio del toro bianco, i Senatori s’incontravano nella Curia per la prima seduta dell’anno. In epoca imperiale, durante questa prima riunione i senatori rinnovavano il giuramento di lealtà e fedeltà nei confronti dell’imperatore che, a sua volta, esprimeva, solennemente, i vota pulica sacrificando a Giano e a Giove due grandi buoi con corna dorate. Al tramonto l’imperatore riceveva sul Campidoglio le strenae: offerte in denaro.

Che nei due giorni più importanti dedicati a Giano: il 31 dicembre e il 1° gennaio, si tenessero festose veglie e grandi banchetti benaugurali, si evince dai severi divieti verso tali festeggiamenti dei sacerdoti cristiani, appena la nuova religione messianica giunta dalla Palestina s’impose come culto dominante.
 
L’usanza delle veglie al 31 dicembre e dei banchetti al 1° gennaio è documenta dall’autore latino Columella e pare fosse diffusa in tutto l’impero romano. Lo scrittore afferma che al temine dei compitalia era diffusa l’abitudine d’allestire un banchetto benaugurale davanti ai Lari, attorno al focolare sacro di un grande cascinale, di una villa, di un villaggio, dei quartieri cittadini. I compitalia erano le feste dei compita, cioè dei crocicchi e, pertanto, feste mobili, durante le quali nei crocicchi più importanti venivano deposti gli attrezzi agricoli rotti, affinché venissero distrutti, e quelli in funzione affinché ricevessero una sorta di benedizione collettiva, in previsione del nuovo anno e di buoni raccolti.

Più dubbia l’usanza, durante i compitalia, di bruciare un gomitolo di lana e anche un piccolo fantoccio di paglia, gettandoli nel fuoco acceso accanto al crocicchio. Secondo alcuni etnografi questa tradizione alluderebbe a tempi molto antichi, quando s’immolavano esseri umani, in pieno inverno, per procacciarsi il favore degli dei.

Nell’anno 64 a.C. i festeggiamenti del Capodanno furono vietati a Roma per i disordini che ne seguirono; ma la popolarità di queste veglie e dei successivi banchetti era tale che successivamente furono reintrodotti. A nulla valse il tentativo dell’imperatore Augusto di trasferirli alle idi di agosto, quando a quella data istituì le feriae Augusti: l’attuale Ferragosto.

Nel 389 un editto dell’imperatore Teodosio ufficializzò il Capodanno come festa imperiale, nonostante la sua proibizione dei culti pagani, com’era successo un secolo prima con il sol invictus dies natalis: il giorno della nascita del Sole Invitto, il 25 dicembre, ufficializzato dall’imperatore Aureliano nel 274. La festa del solstizio prossima a diventare il Natale, come lo conosciamo noi.
De epoche antichissime era usanza gettare una manciata di grano e un boccale di vino nel focolare o nei falò pubblici, per propiziare una buona annata, invocando Cerere e Bacco, e le danze che si tenevano attorno al fuoco, incluso “il rito” del salto sulle fiamme, avevamo sicuramente una valenza magica.

In una data imprecisata in epoca imperiale veglie e banchetti sembrarono non più bastare e s’impose la voga di chiassose sfilate, durante le quali i più giovani bussavano agli usci delle case inneggiando a Giano, auguravano un buon anno e ricevevano solitamente un compenso in focacce, vino e fors’anche denaro. Un’usanza che ben presto, da Roma, dilagò in tutto l’impero romano.

Delle degenerazioni di questi cortei chiassosi, in seguito confluiti nel Carnevale, si ha preziosa testimonianza da parte di san Massimo, primo vescovo di Augusta Taurinorum (Torino) che stigmatizza la diffusa abitudine di molti uomini in trasformarsi in donna, in tutto e per tutto, come pure l’abitudine di altri di camuffarsi in bestie, se non addirittura in mostri, emettendo grida impressionanti.

All’incirca nella stessa epoca a Ravenna, che aveva sostituito Roma come capitale dell’Occidente Romano, dopo la breve parentesi di Milano, sono documentati cortei con travestimenti mitologi e animaleschi, degni di un carnevale, nonostante si fosse ormai in epoca cristiana. Probabilmente l’usanza del travestimento animale, tipico principalmente nell’Italia Settentrionale e in Provenza, fino in Catalogna e sulle rive dell’Ebro, utilizzando soprattutto corna di cervo e zanne di cinghiale, lascia trasparire la persistenza di un archetipo celtico, quando in pieno inverno s’inneggiava e sacrificava a Cernunnos, il grande cervo saturo di valenze magiche, e al dio Lug, raffigurato sempre in compagnia di un cinghiale, similmente a sant’Antonio abate con il maiale. Ed era questo il tempo in cui venivano e ancora vengono “accomodati” i maiali, grazie ai quali “l’inverno diventa meno lungo” per la disponibilità di carne e grassi. Alle nostre latitudini, per millenni, un inverno senza la macellazione del maiale diventava un incubo!

Già in queste occasioni era usanza diffusa bruciare il fantoccio di una vecchia, la vetula, che in realtà rievocava il personaggio ancestrale di Anna Perenna, in seguito trasformata in Befana e, anche, nella vecchia della Quaresima, che subentrava al fantoccio del Carnevale bruciato pubblicamente la sera del Martedì Grasso e faceva la sua comparsa quando di questo fantoccio non restava che cenere.

Dal V secolo dalle trionfanti autorità ecclesiastiche fu avviata una vera e propria lotta contro il paganesimo, che continuava a manifestarsi sotto queste usanze ataviche difficili da estirpare, e proprio il Capodanno, con i suoi festeggiamenti in onore al dio bifronte Giano, fu identificato tra i massimi esempi di residuale paganesimo: la Natività e l’adorazione dei Re Magi dovevano bastare. Un’autentica guerra che nell’anno Mille sembrava definitivamente vinta e che, invece, mille anni dopo era persa!  

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