10 dicembre 2012

SULLA "DIVINA MIMESIS" DI PASOLINI




Desidero riproporre stamattina il confronto tra Carla Benedetti e Antonio Tricomi su come leggere La Divina Mimesis di Pasolini, sul passaggio epocale raccontato in quel libro e su qualche suo passo oscuro. Pur non condividendo interamente i punti di vista espressi - pubblicati sul blog  http://www.ilprimoamore.com - mi pare utile tenerne conto. 





Carla Benedetti e Antonio Tricomi – Pasolini e gli intellettuali “senza mandato”

1.   IL DESERTO
2. ANZICHE’  ALLARGARE, DILATERAI!”

1.   IL DESERTO
Antonio Tricomi  Con il titolo Questo è il mio testamento, il 17 novembre del 1975 escono postume, su «Gente», alcune riflessioni suggerite a Pasolini dagli incontri avuti con il giornalista inglese Peter Dragadze. Il testo è suddiviso in brevi capitoletti. In quello intitolato Scrivo poesie?, Pasolini afferma di non comporre più versi da «due o tre anni» e poi aggiunge: «La poesia richiede che ci sia una società (ossia un ideale destinatario) capace di dialogare con il povero poeta. In Italia una tale società non c’è. C’è un buon popolo ancora simpatico (specie là dove non arrivano i giornali e la televisione) e una piccola élite di borghesi colti e disperati. Ma una società con cui ci si possa mettere in rapporto attraverso la poesia non c’è. (Lo dico perché un poeta deve avere delle illusioni, ma quando le perde non deve illudersi di averle ancora.)»
Non ti sembra che si possa ritenere La Divina Mimesis, cioè l’opera di un autore che in fondo si descrive «morto, ucciso a colpi di bastone», quasi la messa in scena di un simile convincimento? E non ti pare, più in generale, che nell’ultimo Pasolini, quello degli Scritti corsari e delle Lettere luterane, del Salò e di Petrolio, convivano, in maniera addirittura schizofrenica, il massimo investimento sul proprio ruolo di pubblico accusatore della società neocapitalistica contemporanea e l’assoluta certezza che, tuttavia, la collettività abbia smesso già da qualche decennio di attribuire una vera funzione etico-civile al moderno intellettuale-legislatore?
Carla Benedetti  È vero che nel tempo in cui inizia a scrivere La Divina mimesis, a metà degli anni Sessanta, Pasolini avverte come ormai lontano e irrimediabilmente lacerato il tessuto culturale e civile degli anni Quaranta, quello in cui aveva esordito come poeta e come militante comunista. Attorno allo scrittore ora non c’è più quella collettività virtuosa, cementata dalla vittoria contro il fascismo, ma un nuovo inquietante deserto. Il Canto I si apre proprio con l’immagine dei militanti riuniti in un cinema per ricordare Julian Grimau, giustiziato dai franchisti il 20 aprile 1963 (il suo ritratto è la prima delle immagini che formano l’ultima sezione del libro, intitolata “Iconografia ingiallita”). In quella riunione ci sono “il palco degli anni Quaranta; le bandiere degli anni Quaranta; il microfono degli anni Quaranta: tutto traballante […] e ricoperto di povera stoffa rossa. Che stringeva il cuore!”. Quella cerchia di militanti, tutta concentrata verso ”quel suo centro pieno di certezza”, che però lascia fuori “il mondo”, appare così già segnata dall’”Irrealtà” di cui si parlerà nel IV Canto.
Ma da quel nuovo deserto Pasolini non deduce, come invece fanno altri scrittori del suo tempo, la comoda conclusione che l’intellettuale moderno non è più investito di una funzione etico-civile. Ne deduce al contrario la necessità di attraversare quel deserto. È così che inizia il viaggio del protagonista nei gironi di un moderno Inferno, che Pasolini chiama anche “inferno neocapitalistico”.
Che l’intellettuale moderno non fosse più investito di una funzione etico-civile è un verdetto che circolava molto in quegli anni. Ma Pasolini non lo fa suo. È il fenomeno a cui comunemente ci si riferisce con l’espressione “fine del mandato”. Ed è secondo me una di quelle ambigue diagnosi di stampo storicistico-sociologico che hanno paralizzato tanti intellettuali italiani del tempo e successivi, fornendo loro anche un alibi all’inerzia, se non addirittura al cinismo. Di quale investitura sociale avrebbe mai bisogno uno scrittore, un artista o un pensatore? Il mandato non se lo prende forse da sé, talvolta anche contro la collettività che lo caccia? Dante scriveva in esilio. E quell’intellettuale recanatese che nei primi decenni dell’Ottocento scrisse il Discorso sopra i costumi presenti degli italiani , esprimendo un conflitto con l’ethos dell’intera nazione, quale collettività lo aveva mai investito di un ruolo civile? Pasolini si trova in quegli anni in una condizione analoga: “solo, vinto dai nemici, noioso superstite per gli amici”. Ciononostante si arrampica per quella “nuova assurda strada”, non solo inedita ma, stando ai paradigmi correnti in quegli anni, impraticabile. Perciò io non leggerei La Divina Mimesis come la messa in scena della perdita della funzione dell’intellettuale, ma al contrario come l’espressione dell’urgenza di attraversare quel deserto per connettersi con qualcosa di più forte, di più profondo, e di più umano. Per l’autore della Divina Mimesisil mandato è qui e ora, e si gioca in questa catastrofe, che è già avvenuta. Come dopo una fine del mondo, una voce si muove tra le macerie, prende su di sé la materia del tempo anche nei suoi aspetti più repellenti, per trasportarla in alto, per sfondare in un altro mondo.
Nel Discorso sopra i costumi presenti degli italiani, Leopardi descrive una nazione avvelenata quasi dagli stessi mali che anche Pasolini avrebbe esperito un secolo e mezzo più tardi, solo un po’ ammodernati: la verità sentita come inutile e persino dannosa, il conformismo, l’opportunismo, l’assenza di illusioni che si trasforma in cinismo. Quel nemico interno, che sta dappertutto, radicato nel costume degli italiani, Pasolini lo avverte anche nella cultura, e in particolare in quella che in Petrolio chiama la «scienza italianistica», cioè l’abitudine alla collusione col potere da parte dei letterati italiani. Nei gironi della Divina Mimesis si incontrano i “moralisti del dovere di essere come tutti”, tra i quali anche i “parassiti politici” e i “piccoli intellettuali” che hanno non solo rinunciato, ma anche ideologizzato e codificato “la propria impotenza”. E poi i “Conformisti”, cioè tutti coloro che odiano la grandezza, i “Riduttivi – o Troppo Continenti” che “hanno peccato contro la grandezza del mondo”. Altro che consapevolezza della perdita di funzione dell’intellettuale! Semmai Pasolini anche in queste pagine addita una classe intellettuale disonorevole, che manca di radicalità in politica, conformista e addomesticata, come ha fatto già un’infinità di volte in altri suoi scritti, esprimendo questo semplice concetto: gli intellettuali in Italia sono cortigiani. Egli apre così un altro tipo di trincea che taglia in due la vecchia e sociologica questione del mandato sociale dello scrittore.
Per la stessa ragione non parlerei nemmeno di schizofrenia tra due intenti o due consapevolezze. Pasolini non è schizofrenico. È uno scrittore e un artista che nelle opere poetiche e cinematografiche, e anche nei suoi scritti “civili”, ha espresso qualcosa di più avanzato rispetto agli schemi concettuali che circolavano nella cultura del tempo, nei quali talvolta – occorre dirlo – resta lui stesso invischiato quando teorizza. Pasolini teorico è spesso più indietro del Pasolini poeta e cineasta. Lo si vede anche nella sua teoria del cinema, oscurata più che illuminata dai termini strutturalistico-semiologici allora in voga, di cui riveste le sue intuizioni.
E anche quando prende la parola nel discorso pubblico, con interventi, articoli, discorsi, interviste, Pasolini sfugge alle categorie cristallizzate del tempo, a cominciare – sebbene egli stesso ne faccia uso quando teorizza – da quella di “intellettuale”, così come si è configurata nel secolo scorso. Quanto è distante Pasolini da un Sartre, cioè dall’intellettuale per antonomasia che per tanti anni è stato preso a modello di impegno! E se ne distanzia non su una cosa secondaria, ma capitale, che tocca le strutture di pensiero. L’engagement sartriano tollerava che si tacessero parti di verità, per esempio sull’Unione Sovietica di allora, in nome della “causa”, che altrimenti avrebbe rischiato di indebolirsi durante la guerra fredda. Una disposizione a tacere che, per quanto scusabile nella contingenza, implicava un rovesciamento gravido di conseguenze: l’opportunità politica veniva infatti messa al di sopra del vincolo della verità. Pasolini, al contrario, sceglie il vincolo opposto: la verità (che per lui come per Simone Weil ha un carattere produttivo e quasi sacro) contro l’opportunità (sempre pronta a degenerare in opportunismo). Proprio per mettere in luce questa differenza tra la voce pubblica di Pasolini e la figura novecentesca dell’intellettuale impegnato, ho proposto di usare per lui una categoria estranea al sistema ideologico del tempo, richiamandomi a quella dell’antica parresia, che meglio coglie le particolarità di Pasolini. Il parresiasta è colui che dice tutto ciò che si deve dire, semplicemente perché è la verità. In questo Pasolini è più vicino a una figura come Simone Weil che non a Sartre o all’intellettuale-legislatore di cui si discuteva in quegli anni.
Ma anche rispetto all’altra figura novecentesca di intellettuale, quella del “pensatore critico” o del “critico della cultura”, Pasolini rivela una differenza abissale. Prendiamo ad esempio la Società dello spettacolo di Guy Debord (1967) e confrontiamolo con La Divina Mimesis, incubato in quegli stessi anni anche se pubblicato nel 1975. Entrambi annunciano ciò che di inedito e di terribile sta per accadere nel mondo, entrambi descrivono l’azione distruttrice di un nuovo potere, molto più capillare e devastante delle forme di potere conosciute fino ad allora. La diagnosi diDebord non è meno cupa e apocalittica di quella di Pasolini. Però le loro formae mentis sono opposte. Debord è ammaliato da quella macchina di potere perfetta che ci sta mostrando e che egli chiama “società dello spettacolo”, e il suo sguardo è privo di disperazione. Non è tragico, cioè è senza conflitto. È la forma mentis apocalittica, abbastanza diffusa nel pensiero critico novecentesco, che capitola sotto l’idea della necessità storico-sociale della macchina di dominio che sta denunciando. Quella di Pasolini invece è una forma mentis tragica, che dà voce, quasi come un corifeo dell’antica tragedia, alla pietà per il dolore dell’umanità travolta dai nuovi poteri, e ci fa percepire l’odierno corso della storia non come necessario ma come intollerabile. Egli è certo disperato, ma non capitola. È schizofrenico essere al tempo stesso disperati e inarresi? Direi proprio di no. Leopardi ne è il massimo esempio. E anzi, si potrebbe persino aggiungere che, a volte, solo se si è disperati è possibile opporre una resistenza.
Pasolini non è comunque il solo scrittore italiano a percepirsi in quegli anni come un superstite. Anche Calvino e Montale attraversano una crisi analoga che li induce ad abbandonare la poetica precedente. Però solo Pasolini ne parla apertamente facendone il tema della Divina Mimesis, dove addirittura si rappresenta sdoppiato in due figure: da una parte il Pasolini del presente, smarrito “come un bambino che non ha più casa, un soldato disperso”. Dall’altra il Pasolini del passato, quel “piccolo poeta civile degli Anni Cinquanta”, ormai ingiallito, che farà da guida all’altro nella discesa all’inferno. Pasolini dunque dà a quella crisi, comune a molti scrittori del tempo, non solo una forma esplicita, ma anche una forma tragica, non pacificata, mentre Montalela cura con l’autoironia e Calvino la occulta dietro tutt’altra immagine di sé, quella dello scrittore che muta continuamente rotta, come Picasso, per sperimentare nuove soluzioni stilistiche.
2. “ANZICHÉ ALLARGARE, DILATERAI!”
Antonio Tricomi Mi sembra che il senso di quell’attraversamento del deserto di cui hai parlato sia espresso da Pasolini in un passo della Divina Mimesis, in forma di imperativo etico al quale attenersi tanto nelle proprie scelte stilistiche, quanto nella definizione del proprio sguardo sulla realtà: «Anziché allargare, dilaterai!»
Come hai già avuto modo di sottolineare, La Divina Mimesis è un’idea che risale alla metà degli anni Sessanta, tanto che in Progetto di opere future, ossia il componimento forse capitale tra quelli raccolti in Poesia in forma di rosa, essa viene annunciata quale «opera, se mai ve ne fu, / da farsi». All’incirca per un decennio, Pasolini pensa dunque a un testo che convalidi il seguente assunto, ancora dichiarato in Progetto di opere future: «la via / della Verità passa anche attraverso i più orrendi / luoghi dell’estetismo, dell’isteria, // del rifacimento folle erudito». Abbozzare una frammentaria, infedele, colta rivisitazione della Commedia per lui significa cioè misurarsi con l’opera-mondo per antonomasia della letteratura italiana al fine di ipotizzarne, più che di costruirne, una che a tal punto si fondi su regole nuove da correre persino il rischio di essere giudicata dai lettori «la peggiore delle arbitrarietà visionarie» possibili, invece che una potenziale summa della contemporaneità, della tradizione.
Per Pasolini, Dante «era sostenuto da una ideologia di ferro», che, rivelandosi «la più prepotentemente unitaria di tutta la nostra cultura», gli consentiva di “allargare”il proprio sguardo sull’intera realtà, di decifrarne pressoché ogni aspetto, di offrircene una coerente sintesi interpretativa. Non ambiva a fare qualcosa di diverso quel poeta civile che l’autore delle Ceneri ribadisce di essere stato, giacché egli pure poteva far leva, se non su una ideologia parimenti “di ferro”, almeno sui postulati di un orizzonte etico-politico condiviso da vari settori della società, da non pochi intellettuali e scrittori. La Divina Mimesis viene appunto a dichiarare estinta questa possibilità per il proprio autore e, a dire il vero, per chiunque altro. Pasolini ritiene di non poter più assumere un immobile punto di vista sul mondo in virtù del quale costruire un’opera internamente coesa e in cui, trasfigurati, i vari elementi del reale compaiano per saldarsi in un’armonica spiegazione del presente, della storia. Egli crede invece di dover “dilatare” la propria soggettività di autore e di intellettuale fino a consentirle di “aderire” alla totalità dell’esistente senza però pretendere di trovare una bussola per orientarsi nel magma del reale, e anzi restituendoci il caos dell’epoca per ciò che esso ormai gli appare: un guazzabuglio di irrisolvibili contraddizioni. Per questo, con l’eccezione di quella “esatta” allegoria dell’Apocalisse che è il Salò, ogni opera pasoliniana, dalla metà degli anni Sessanta in poi, si fonda sui principi esposti nella Divina Mimesis: «Asimmetria, sproporzione, legge dell’irregolarità programmata, irrisione della coesività, introduzione teppistica dell’arbitrario».
È in nome di questo paradossale realismo che Pasolini, a un certo punto, sceglie di sottrarsi ai vincoli dell’opera compiuta o, diciamo pure, all’obbligo morale avvertito da ogni grande autore, cioè quello di impegnarsi nella faticosa costruzione del capolavoro, e prende anche, in un isolamento viepiù crescente, a spendersi senza requie, a volte confusamente e però sempre con generosità, in penetranti tentativi di definizione di inediti parametri culturali, civili, estetici. Ciò ha sovente fruttato alle sue opere e ai suoi interventi pubblici accuse di debolezza, gratuità, pressapochismo, mentre, per effetto del suo desiderio di trasformarsi nell’icona stessa dell’intellettuale a tutto campo, taluni sono persino giunti a riconoscere in lui nulla più che un secondo D’Annunzio.
Tu sai bene che io non accolgo in toto questi rilievi e a me non sfugge che tu non li condividi affatto. A quali argomenti ritieni però che potremmo più proficuamente ricorrere per controbattere, in parte o del tutto, a simili obiezioni al cospetto, per esempio, di un’opera come La Divina Mimesis, che Pasolini non ci presenta alla stregua di un monumento, ma definisce un «documento del passaggio del pensiero»?
Carla Benedetti Non direi che Pasolini desiderasse trasformarsi in un’icona – che è un ben misero destino – e ancor meno nell’icona dell’intellettuale a tutto campo. Semmai, come ho detto, in colui che dice la verità in un contesto che non la vuole vedere né sentire tutta, e questo lo ha inevitabilmente trasformato in una figura tragica, di conflitto, a momenti sacrificale. La cultura italiana, anche quella di tradizione marxista, è allergica a quel genere di figura così sbilanciata sulla singolarità individuale, tanto da doverle tessere attorno una specie di cordone sanitario. Mi riferisco alla rete di definizioni velenose da cui è stato avvolto Pasolini nel corso degli anni, anche dopo la sua morte. Definizioni che mirano a delegittimarne la voce, a renderla ideologicamente e artisticamente sospetta. Gli intellettuali di sinistra lo hanno infatti definito “populista” (Asor Rosa), “reazionario nostalgico” (Sanguineti e molti altri), affetto da “delirio di onnipotenza” (Fortini). In questa stessa chiave delegittimante è stato invocato per Pasolini anche lo spettro di D’Annunzio, cioè del Vate decadente e esteta. È una definizione che non ci rivela nulla di criticamente rilevante sulle caratteristiche di Pasolini scrittore, né sulla forma della Divina Mimesis. È solo una categoria morale che, in compenso, ci dice però molto sul terrore che gli intellettuali italiani nutrono nei confronti delle singolarità non conformi, che dicono no a quello a cui tutti dicono sì.
Quanto alla frase volutamente criptica “Anziché allargare, dilaterai!”, sono d’accordo con te. “Allargare” è appunto ciò che contraddistingue l’operazione linguistica di Dante, che il Pasolini di quegli anni non intende più seguire. In Empirismo eretico, parlando di Dante, Pasolini ricorre proprio a un’immagine di allargamento: “lo spostamento del punto di vista in alto, che aumenta smisuratamente il numero delle cose e dei loro nomi”. Ma all’ultimo Pasolini, ormai non più sostenuto come Dante “da un ‘ideologia di ferro”, questa via è preclusa. A lui non resta che dilatare, vale a dire: “Asimmetria, sproporzione ecc.”.
Però io non lo intenderei come un dilatare la propria soggettività di autore e di intellettuale. Credo che si tratti piuttosto della dilatazione del corpo della poesia. La poesia dilaterà i suoi tessuti fino ad accogliere un corpo estraneo, fino a contenere in sé non solo tutto l‘impuro che c’è nel mondo odierno ma anche “il passato mai morto del cosmo” e tutto ciò che squarcia l’orizzonte sociologico-culturalista di quegli anni. Ed è anche un abbandono della soluzione stilistica di tipo mimetico, che il Pasolini precedente aveva fatta propria. Se la scrittura letteraria potrà ancora avere un rapporto col mondo, non sarà certo “allargandosi” per contenere in sé una sorta di “mondo-campione” da imitare linguisticamente, ma aprendosi a ciò che la sfera estetica non può tollerare. Pasolini infatti percepisce interamente quella sfera come una zona convenzionale e inerte, anche quando vi si compiono le più spericolate contaminazioni di linguaggi e di generi. E la dilatazione massima avviene secondo me nel punto in cui egli sceglie quella inedita forma compositiva che chiamerei la “forma-progetto”.
Dopo il Canto II, La Divina Mimesis subisce una sorta di mutazione di statuto. Cessa di essere un oggetto narrativo rifinito, e prosegue fino alla fine del volume nella forma di “Appunti e frammenti” e di “Note”. Persino l’”Iconografia ingiallita” reca come sottotitolo per un “Poema fotografico”, dove la preposizione “per” iscrive anche questa poesia per immagini nella modalità dell’abbozzo. Questa forma compositiva, programmatica nell’ultimo Pasolini, non va confusa con lo stato di incompiutezza. Non è semplicemente un’opera incompiuta o frammentaria che l’autore ci presenta, ma l’opera nel suo stato potenziale, non ancora rifinito. Molte delle ultime opere di Pasolini, sia letterarie sia cinematografiche, si presentano nella forma di appunti per “opere da farsi”: dagli “abbozzi” per film mai realizzati, gli Appunti per un film sull’India (1967-1968) e gli Appunti per un’orestiade africana (1968-1973), alla Divina Mimesis e, infine, ma a uno stadio ancora più radicale, a Petrolio. Questa forma-progetto io la leggerei però, più che come volontà di sottrarsi all’obbligo di creare il capolavoro, come un rifiuto di confezionare un oggetto estetico, fruibile come tale nella sua autonomiaformale. Lo stato progettuale forza le nostre abitudini di lettura. Di solito noi riserviamo un occhio diverso alle parti finite e alle parti solo abbozzate. Solo le prime mettono in moto l”attitudine estetica’, il godimento sensibile dell’opera in quanto oggetto estetico. Le seconde invece lo impediscono, restando eternamente in quel luogo in cui l’autore può parlare al lettore direttamente per esporgli ciò che ha intenzione di fare, e ogni frammento, anche quello più autosufficiente, resta allo stato potenziale, non come pezzo effettivo dell’opera futura, ma solo come un suo pezzo possibile. Questo è il modo che l’ultimo Pasolini si inventa per dilatare i confini della letteratura, per aprirvi una breccia attraverso cui ristabilire un rapporto non convenzionale tra scrittura e mondo.
Detto questo, non so se il risultato corrisponda all’intento. I primi Canti della Divina Mimesis, a rileggerli oggi, mi appaiono più toccanti delle Note, compresa quella intitolata Per una “Nota dell’editore” (di nuovo la preposizione “per”), dove un editore finge di presentare l’opera scritta da un autore «morto,ucciso a colpi di bastone, a Palermo».
Molti critici dicono che Palermo stia qui a indicare il luogo in cui nel 1965 si riunirono Sanguineti e gli altri scrittori del Gruppo ’63, aperti avversari di Pasolini. Ipotesi avvalorata dalla foto di quella riunione compresa tra le immagini dell’”Iconografia ingiallita”. Ma c’è anche chi vi ha scorto un riferimento, suggestivo anche se improbabile per ragioni di date, al giornalista Mauro De Mauro sparito nel 1970 a Palermo, probabilmente per ordine dello stesso che aveva fatto saltare in aria l’aereo di Mattei, cioè Eugenio Cefis (a formulare questa ricostruzione dei due omicidi è stato il giudice Vincenzo Calia al termine di una lunga indagine, conclusasi nel 2003, sull’attentato all’allora presidente dell’Eni, di cui, come è noto, anche Pasolini parla in Petrolio, indicando Cefis come mandante). Sempre dall’indagine di Calia emerge l’ipotesi che Pasolini possa essere stato eliminato dalla stessa mano che ha commesso gli altri due omicidi.
Antonio Tricomi Come sai, la penso diversamente sulla morte di Pasolini: ritengo cioè che il suo assassinio abbia una innegabile valenza politica pur senza essere stato commissionato dal Palazzo o da pezzi deviati di potere o dalla criminalità organizzata. Sono però ovviamente disposto a mutare parere nel caso in cui le nuove inchieste dovessero rivelare una verità diversa.
Nelle proprie opere, e soprattutto in quelle degli anni Sessanta e Settanta, Pasolini indugia nella rappresentazione di sé come vicino al decesso o persino morto. Si tratta, pressoché sempre, di allusioni alla delegittimazione socioculturale di cui, a suo giudizio, è vittima l’arte, nonché di rimandi allegorici alla marginalità civile che egli sente di dover scontare in quanto poeta. Diversamente da ciò che crede Zigaina, l’intera opera di Pasolini non ne preannuncia quindi il suicidio, ma diventa una metafora di quella fine della letteratura, e dell’arte tutta, che l’intellettuale teme imminente.
«Il mondo non mi vuole più e non lo sa»: questa frase, con cui l’autore di Petrolio firma il suo unico disegno astratto, di datazione incerta, continua a sembrarmi l’ideale sinossi anche della Divina Mimesis.
Carla Benedetti  Io credo che sulla morte di Pasolini non ci sia da “pensarla” in un modo o in un altro. Non se ne può pensare nulla finché non si conosce la verità. È strano, e anche un po’ agghiacciante, che i letterati si siano invece preoccupati tanto di come la si debba interpretare, di quale significato allegorico le si debba attribuire, e abbiano prodotto tanti ricami sulla morte omosessuale, sulla morte sacrificale, sulla morte simbolo ecc.. Ma è un omicidio, mica un testo letterario! Un omicidio di cui non si conoscono ancora né i colpevoli né i moventi, e su cui la Procura di Roma ha riaperto una nuova indagine, che è ancora in corso, in seguito a nuovi elementi emersi e a quelli che già c’erano ma trascurati nelle precedenti inchieste.
Quanto all’opera di Pasolini, per tutto ciò che ho detto finora, non posso concordare con te quando dici che è una metafora della fine della letteratura, e dell’arte tutta. Lo si può dire forse dell’opera di altri scrittori del tempo, di un Sanguineti ad esempio, o di altri che della rappresentazione allegorica di quella fine hanno fatto la propria bandiera. Ma non dell’opera di Pasolini, che non conosce quella forma pacificata di elaborazione, ed è anzi tutta attraversata da un’energia poetica nello stesso tempo disperata e delicata, tragica e ascensionale, che lo porta continuamente a riaprire il piccolo orizzonte storicistico e sociologico di cui altri si accontentano, verso quelle regioni del passato e del cosmo da cui proviene la luce (la luce, altra protagonista della Divina Mimesis). E da cui provengono anche quei piccoli fiori di cui si parla nel Canto II, che sbucano col primo sole tra l’erbaccia, ignari della propria caducità. Ecco, se dovessi scegliere un passo per concludere, sceglierei proprio questo:
Anch’io, come un fiore – pensavo – niente altro che un fiore non coltivato, obbedisco alla necessità che mi vuole preso dalla lietezza che succede allo scoraggiamento. Poi certo verrà ancora qualcosa che mi offenderà e mi massacrerà: ma anche per me, come per i fiori delle altre primavere, il passato si confonde con il presente, e un prato è qui, e, insieme, nel cosmo”.
 
Dal sito http://www.ilprimoamore.com
 




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