22 dicembre 2012

VERO E FALSO SECONDO UMBERTO ECO





Mi piace riproporre oggi l’interessante intervista rilasciata lo scorso 21 dicembre da Umberto Eco ad un giornalista de L’AVVENIRE in occasione della ristampa dei suoi scritti sul pensiero medievale:


Umberto Eco: «Adoro il falso, ma cerco il vero»


Poderoso è poderoso. E anche ponderoso. Il volume in cui Umberto Eco ha deciso raccogliere i suoi Scritti sul pensiero medievale (Bompiani, euro 35) supera le 1.300 pagine e copre un arco di oltre mezzo secolo. Dal 1959 a oggi, per l’esattezza, passando per gli studi sull’estetica di Tommaso d’Aquino – che fu oggetto della sua tesi di laurea – e l’Apocalisse commentata da Beato di Liébana, le diverse metafore della conoscenza adottate nell’Età di Mezzo e i debiti di James Joyce nei confronti della Scolastica. Impossibile, mentre si passa da un contributo all’altro, dimenticare che il semiologo Eco (splendido ottantenne, sia detto per inciso: il 5 gennaio saranno 81) è l’autore del Nome della Rosa, romanzo controverso finché si vuole, ma interamente costruito sulla sua passione ed erudizione di medievista. Chiedergli come sia nato in lui un interesse tanto duraturo può risultare istintivo, oltre che vagamente rischioso.

«Sono sempre imbarazzato a rispondere a questa domanda – esordisce il professore – e di solito rispondo in modo polemico: c’è della gente che è appassionata di alpinismo, altri di corse di cani, e io sono appassionato del Medioevo. La verità è che ho avuto un meraviglioso professore di filosofia al Liceo, Giacomo Marino, che aveva fatto una splendida lezione su san Tommaso, e san Tommaso mi era così rimasto impresso nella mente quando sono andato all’università. Poi all’epoca militavo nella Gioventù Cattolica; non è che questo mi abbia spinto a studiare Tommaso per ragioni ideologiche, che anzi mi rifacevo più a Emmanuel Mounier che a neotomisti come Maritain (con cui sono molto severo proprio in questa mia raccolta); ma è che frequentavo abbazie. E nel corso del mio primo viaggio a Parigi, a vent’anni, la visita al Musée des Monuments Français, mi aveva rapito, con il plastico del portale di Moissac che tanti anni dopo è tornato nel Nome della Rosa. Ecco, il gusto per il mondo medievale si stava formando a poco a poco e proprio in quel periodo avevo scelto il tema della mia tesi. Mia moglie mi rimproverava di non guardare bene le scintille quando accendevamo in campagna dei falò di foglie secche; poi ha letto la mia descrizione dell’incendio nel Nome della Rosa e mi ha detto: “Allora le scintille le guardavi!”. E io ho risposto: “no, ma so come poteva vederle un monaco medievale”».











Lei mette spesso in guardia dalla tentazione di adoperare le categorie medievali per interpretare la modernità, però indica un possibile punto di incontro nel “vorace pluralismo enciclopedico” dei nostri anni. Quanto c’è di medievale nel web?
«Ci sono in comune alcuni aspetti negativi. Il Medioevo (ma in effetti l’Alto Medioevo prima del Mille, quelli che erano stati chiamati i secoli bui) aveva perso la memoria del passato classico, di cui possedeva solo pochi testi, e il sapere procedeva sulla base di notizie tradizionali spesso imprecise e intessute di leggenda (si veda l’uso magico di Virgilio), glosse, glosse di glosse, dove nessuno riusciva più a ricostruire filologicamente l’origine e la paternità delle idee, da cui il disordine delle grandi enciclopedie che mescolavano facilmente dati di esperienza e fantasie leggendarie. Così è il web, un giovane navigatore dei nostri tempi ha perso la memoria del passato, si trova vicino a un universo di notizie immenso senza più sapere quale sia vera e quali sia falsa… Quindi il nostro internauta è in procinto di diventare un uomo dell’Alto Medioevo in attesa di una riforma Carolingia e della Scolastica più matura».

Il Medioevo, lei scrive, era caratterizzato da un’immaginazione fortemente visiva. C’è stata una qualche coincidenza fra i suoi primi studi e la sua riflessione sui media, avviata negli anni Sessanta?

«Questo non glielo so proprio dire. Oserei pensare di sì, ho sempre pensato che pictura sit laicorum literatura, forse è perché ero lettore di fumetti che mi piaceva l’arazzo della Regina Matilde a Bayeux, e così via. Ma è pur vero che, a quei tempi in cui per un laureato c’erano sbocchi professionali, subito dopo la laurea ero entrato in televisione e lì avevo sperimentato nuovi linguaggi in un periodo pionieristico. Forse tutto è nato da un cocktail tra Medioevo e tv. Salvo che il Medioevo è poi andato avanti e la tv è regredita.

Nell’attraversamento del Medioevo Tommaso d’Aquino è sempre stato il suo primo interlocutore privilegiato. Che cosa rappresenta oggi per lei questa figura?

«A parte l’affetto che si prova per il protagonista della propria tesi di laurea, anche se fosse stato Barbablù, di Tommaso mi piace la pulizia argomentativa, la capacità di vedere tutti i lati della questione, anche quelli più contraddittori, e poi tentare una sintesi. Qualcosa deve essermi restato di quella lezione, perché non riesco a sopportare i filosofi che non si capisce che cosa dicono».

Nei suoi romanzi ha affrontato il tema della falsificazione, spesso in una prospettiva che potremmo definire “teologica” (Dio, in definitiva, è la misura del vero). Non sarà questo il tratto più “medievale” della sua opera?

«Questa è una domanda un po’ troppo teologica. Ma c’è qualcosa di interessante in proposito ed è che da certi ambienti cattolici (si sa, non tutti i cattolici hanno la sottigliezza di san Tommaso) mi sono giunte critiche per cui, visto che racconto sempre di falsi, è perché credo che tutto sia relativo e nulla sia vero. Obiezione infantile: per dire che qualcosa è falso bisogna assumere che qualcosa d’altro non lo sia. Forse in questa mia continua fenomenologia del falso c’è la ricerca continua dei criteri per riconoscere qualcosa come vero – che è poi il problema filosofico per eccellenza. La differenza con san Tommaso è che lui era convinto di possedere la sua verità, e io sono più prudente, e umile. Se fossi splendidamente arrogante come lui dovrei essere santificato. Ma c’è anche un aspetto non teologico del mio interesse per la falsificazione. È che sono convinto (e sono convinto che sia vero) che viviamo sommersi da falsificazioni, dalla menzogna come strumento di potere e di manipolazione del consenso, dalla diffusione di false notizie come arma di destabilizzazione. Questo è il Diavolo».

Alessandro Zaccuri  su Avvenire del 21.12.2012

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