Foto di f.v.
Jean Starobinski è uno di quei grandi vecchi che, dall’alto
dei suoi 92 anni, riesce ancora a dare risposte chiare agli interrogativi che
la crisi pone agli uomini d’oggi. Lo
dimostra l’interessante intervista
rilasciata a Franco Marcoaldi , pubblicata oggi da Repubblica:
FRANCO MARCOALDI INTERVISTA JEAN STAROBINSKI
Più passa il tempo e più
scolorano e si confondono le differenze tra vero e falso, bello e brutto,
morale e immorale, necessario e superfluo. Eppure rimane intatta la necessità
di orientarsi rispetto a giudizi comunque indispensabili per chi intenda vivere
in modo cosciente. Da qui l’inevitabile domanda: quali sono le vie attraverso
cui si forma il giudizio? Quali le sue basi? Come si giudica un libro, un’opera
d’arte, un film, una mostra? Secondo quali criteri un professore giudica un
allievo? E un giudice, un reato? Infine, chi è credente, come si rapporta al
giudizio di Dio e riesce a farlo proprio? È talmente ampio e delicato il fronte
delle questioni legate alla necessità di una rinnovata “arte del giudizio”, che
è bene procedere con cautela. Passo dopo passo. E scegliendo i migliori
interlocutori possibili. A cominciare da colui che ci aiuterà ad introdurre il
tema: Jean Starobinski.
Il ginevrino - 92 anni molto ben portati - è uno degli ultimi rappresentanti della grande tradizione umanistica. Ha attraversato i campi della scienza medico-psichiatrica e della poesia, della filosofia e dell’arte, con il passo sicuro di chi ha a cuore l’integrità dell’essere umano. Leggere le pagine dei suoi libri, o ascoltare la sua voce calma e profonda, infonde sicurezza. Perché si combinano in lui due doti sempre più rare: una appassionata lucidità critica e una profonda gentilezza d’animo. E non è certo un caso se tra i tanti pensatori e scrittori di cui il grande critico si è occupato (Rousseau, Diderot, Racine, Montesquieu, Stendhal), un posto privilegiato sia occupato da Michel de Montaigne. Che è stato anche il primo a trasferire integralmente sull’individuo la responsabilità di giudizio rispetto alla realtà circostante. Così, sarà proprio lui a farci da viatico nella prima tappa di questo itinerario.
Il ginevrino - 92 anni molto ben portati - è uno degli ultimi rappresentanti della grande tradizione umanistica. Ha attraversato i campi della scienza medico-psichiatrica e della poesia, della filosofia e dell’arte, con il passo sicuro di chi ha a cuore l’integrità dell’essere umano. Leggere le pagine dei suoi libri, o ascoltare la sua voce calma e profonda, infonde sicurezza. Perché si combinano in lui due doti sempre più rare: una appassionata lucidità critica e una profonda gentilezza d’animo. E non è certo un caso se tra i tanti pensatori e scrittori di cui il grande critico si è occupato (Rousseau, Diderot, Racine, Montesquieu, Stendhal), un posto privilegiato sia occupato da Michel de Montaigne. Che è stato anche il primo a trasferire integralmente sull’individuo la responsabilità di giudizio rispetto alla realtà circostante. Così, sarà proprio lui a farci da viatico nella prima tappa di questo itinerario.
«Il problema del giudizio si è fatto oggi impellente e va ridiscusso in profondità. Perché da un lato abbiamo bisogno di tornare con la memoria a certi principi tuttora validi, dall’altro dobbiamo procedere a stretto contatto con i nuovi problemi che abbiamo di fronte. Ogni giudizio muove dalla necessità di soppesare le diverse possibilità e di scegliere tra le diverse opzioni in campo. E questa scelta comporta delle conseguenze, imponendoci di tenere fede all’impegno preso. Nella consapevolezza che il nostro giudizio può essere sottoposto a revisione, sulla base di nuove esperienze o grazie al confronto con altre visioni del mondo. Esiste poi, aggiungo, quella che potremmo chiamare la “vita spontanea”, ovvero lo spazio in cui si esprimono invece dei giudizi impliciti, che dimorano inconsciamente dentro di noi e sono in qualche misura preliminari a un’arte del giudizio adeguatamente argomentata».
È sempre più difficile giudicare anche perché non si sa bene a quale autorità, interna o esterna, sia possibile affidarsi.
«Ecco la vera questione: chi e cosa rappresenta l’autorità? L’autorità ci offre forse un accesso alla verità pratica? Ci indica la direzione di una crescita spirituale nella nostra esistenza? Un miglior rapporto con l’altra vita? È un principio che senza dubbio potremmo adottare. Così come potremmo dire che l’autorità concerne l’etica, il problema del bene e del male. E in questo frangente formula dei doveri morali. Ma l’autorità nel campo estetico compie dei tragitti completamente diversi. L’etica e l’estetica, sovente, coabitano con difficoltà: non si possono mescolare tra loro. La valutazione di un’opera d’arte non può essere sottoposta a un giudizio strettamente morale».
Anche sul piano estetico, però, ci sarebbe bisogno di uno standard condiviso. Ed è proprio questo che sembra sia venuto a mancare.
«Il giudizio estetico è sempre stato condizionato dallo spirito del tempo, da gruppi e sottogruppi sociali, dalle mode, dalle diverse culture. Insomma, da una comunità che via via si sente investita dall’autorità necessaria per esprimere un giudizio sull’eccellenza o il fallimento di una determinata opera. E dunque per stabilire se quell’opera sia portatrice o meno di senso e di valore. Nella società contemporanea, in effetti, si è imposto uno standard estetico di ordine mediatico, hanno prevalso posizioni puramente mercantili e comunque poco motivate razionalmente, la necessità di scandalizzare a tutti i costi, l’acclamazione della celebrità in quanto tale. Il tutto secondo modalità tecniche piuttosto aggressive e tutto sommato prevedibili. Da qui il desiderio, più che comprensibile, di proteggersi da questa marea montante. Dalla quale ci si può difendere in due modi: o ignorandola, o ribellandosi. Ma ignorare non sempre è il miglior modo per esprimere la propria libertà, mentre può esserlo il rifiuto».
Veniamo a Montaigne, che abbiamo scelto come maestro ideale dell’arte del giudizio. Pensa che il suo insegnamento sia valido ancor oggi?
«Assolutamente sì, anche se con i dovuti distinguo. Non foss’altro perché la sua curiosità, per quanto straordinaria, non deve rapportarsi alle infinite sollecitazioni sotto le quali, oggi, corriamo il rischio di rimanere schiacciati. Se nei suoi confronti provo così tanta simpatia, è perché è un uomo che non rifiuta nulla e tutto accoglie. Ha ricevuto una educazione classica, conosce il mondo antico, e sa distinguere perfettamente tra antichi e moderni. Apprezza la diversità come massima ricchezza della vita, ma ciò non gli impedisce di cercare con tenacia una coerenza interiore. Il rapporto con gli altri è sempre improntato all’amichevolezza e al rigetto dell’ostilità. Così come va ricercato il senso, pur sapendo che questa ricerca conduce inevitabilmente alla contraddizione. I suoi valori sono molto semplici, essenziali: la nostra condizione di esseri viventi è legata alla presenza di altri esseri viventi, con i quali è necessario stabilire una relazione quanto più possibile armoniosa».
Compresi gli animali...
«Compresi gli animali».
Dunque Montaigne carica l’essere umano di tutta la responsabilità del giudizio. Ma la separazione da una verità trascendente non lascia quell’individuo in balia dell’arbitrio.
«Esattamente. Perché questo accada, però, bisogna che gli uomini siano motivati da un rapporto di riconoscimento reciproco. Montaigne è innanzitutto un nemico del fanatismo, molto forte nella sua epoca, perché sa che porta con sé un inevitabile carico di morte. La sua opzione, al contrario, si fonda sull’uso dell’intelligenza come volano e garanzia della vita».
Dunque, per Montaigne su cosa poggia l’autorità interiore?
«Parlerei di un doppio movimento: una continua apertura verso l’altro, senza che questa minacci la propria personalità. Perché ciò accada bisogna mantenere i sensi in uno stato di continua vigilanza, cogliendo la meraviglia dell’ignoto, di tutto ciò che supera la nostra conoscenza immediata. La curiosità che mosse i primi esploratori era la stessa che animava Montaigne».
Alla fine del suo viaggio interiore, però, rimette comunque al centro la coscienza personale, la vera bussola a cui affidarci... Quali sono i principali “antagonisti della coscienza”, per dirla con il titolo di un suo saggio?
«Innanzitutto la violenza, come sosteneva il mio amico Eric Weil. Ovvero tutto ciò che impedisce alla coscienza di vivere in uno spazio illimitato, ben superiore a quello del mero bisogno, della salvaguardia dell’integrità fisica dell’io. Perché la coscienza non si accontenta di garantire la sussistenza dell’individuo, si deve nutrire di un ulteriore insieme di piaceri, mentali e sensuali. Il suo orizzonte è diverso, più ampio, rispetto a quello del semplice combattimento per l’esistenza. Ecco perché il giudizio secondo Montaigne può tornare utile anche oggi. Perché la sua saggezza consiste nel riconoscere i propri limiti di essere mortale, senza per questo rinunciare ad attingere all’inesauribile diversità del mondo, necessaria a perseverare nella nostra ricerca di senso e di pensiero. Questa conciliazione tra l’immediatezza della vita sensibile e la conoscenza mediata del mondo, attraverso la tradizione classica, le scoperte scientifiche, la letteratura, mi sembra una delle sue massime virtù».
Proviamo ad applicare quanto detto alla sua idea di critica.
«Per farlo, è necessario tornare all’idea di relazione. L’arte della critica si fonda sul discernimento di quei sistemi di rapporto che le opere estetiche e le creazioni umane in generale sottopongono al nostro sguardo. Ciascun critico, come ciascun individuo, ha ovviamente una relazione particolare e personale con il mondo, ma quando legge deve essere capace di mettersi in posizione di ascolto rispetto a mondi diversi dal suo. E’ quanto cerco di fare da una vita, anche se non sono affatto sicuro che il mio sguardo e il mio grado di ascolto siano sufficientemente ampi…».
Fonte: La Repubblica 29 dicembre 2012
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