Sul settimanale Left, allegato ogni sabato a l’unità, lo scorso 8 dicembre Salvatore Settis ha denunciato con sorprendente virulenza la sostanziale continuità mostrata dai Governi Berlusconi e Monti nei confronti del patrimonio culturale e paesaggistico nazionale.
Nel corso
dell’intervista di Simona Maggiorelli, che ripropongo di seguito integralmente,
Settis difende con passione la Costituzione della Repubblica del 1948 che
continua ad essere attaccata da più parti.
Lo storico dell’arte della Normale denuncia la
continuità tra i governi Berlusconi e Monti: «La destra colta e
perbene sta facendo gli stessi danni al patrimonio culturale e
paesaggistico di quella precedente»
Se l’Italia
ha un Codice dei beni culturali e paesaggistici lo deve a Salvatore Settis,
storico dell’arte e archeologo della Normale di Pisa che non si è mai
risparmiato nella battaglia per la piena attuazione della Costituzione. Che con
l’articolo 9 «promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione».
Rientrato in Italia nel 1999, dopo aver diretto il Getty Research Institute di
Los Angeles , Settis ha intrapreso una tenace battaglia contro la svendita del
patrimonio pubblico. Cominciata nel 1991, quando il governo Andreotti provò a
istituire la Immobiliare Italia Spa, e culminato dieci anni dopo con la
Patrimonio dello Stato spa di Tremonti che prevedeva cartolarizzazioni e
dismissioni non solo di palazzi pubblici, ma anche di pezzi di paesaggio: «Da
allora le ipotesi di dismissione ricorsero assai spesso, più o meno a ogni
finanziaria», scrive Settis nel suo nuovo libro Azione popolare, cittadini per
il bene comune (Einaudi). «Anche con i governi di centrosinistra del
1996-2001». Per denunciare lo scellerato tentativo di mettere all’asta il
Paese, nel 2002 pubblicò l’incisivo Italia spa. L’assalto al patrimonio
culturale (Einaudi) e da allora la sua battaglia per la tutela e la
valorizzazione non ha conosciuto soste, sul piano degli studi scientifici, ma
anche su quello più direttamente politico. Arrivando, appunto, a stilare il
Codice dei beni culturali nel 2004 ma anche a dimettersi da presidente del Consiglio
superiore dei beni culturali in dissenso con i feroci tagli alla cultura
firmati dal ministro Bondi nel 2009 e con i suoi tentativi di silenziare
quell’organo consultivo. Dopo tutto questo, come tacere ora davanti allo
scempio della cosa pubblica che continua ben oltre la caduta del governo
Berlusconi sotto l’egida del governo Monti? Perciò l’elegante e coltissimo
professore, facendo suo il motto “Indignez-vous!” del partigiano Stéphan Hassel
mira a scuoterci dal torpore con il suo nuovo libro (il più schiettamente
politico). E ci invita a rileggere la Costituzione come manifesto politico
contro «la prevalenza del profitto privato sul bene pubblico, la sopraffazione,
l’arroccarsi delle caste a difesa di privilegi immeritati, la concezione di
ambiente e paesaggio come materia bruta da devastare a proprio vantaggio».
Professore,
gli italiani hanno perso la capacità di indignarsi per il sacco della cosa
pubblica?
In realtà
penso che i cittadini siano sempre meno indifferenti. C’è una grande
sensibilità che sta crescendo. Nonostante questo, il sacco dell’Italia è
evidente. Perciò credo sia molto importante collegare il saccheggio al
patrimonio culturale e al paesaggio con tutte le altre forme di saccheggio a
cui stiamo assistendo, con l’economia di rapina che sta proliferando a spese
dello Stato e delle istituzioni pubbliche. Dobbiamo reagire. Avendo la
consapevolezza che l’assalto al patrimonio culturale, così come quello a
diritti come la salute e il lavoro, insieme all’assalto alle proprietà
pubbliche o al demanio, sono parte di uno stesso disegno di smontaggio dello
Stato; un disegno che ha il “piccolo difetto” di essere completamente illegale.
Oltreché contrario all’interesse della generalità dei cittadini.
Nel suo
nuovo libro scrive che il patrimonio d’arte è un “bene comune”. Ma da Craxi a
Tremonti a Renzi è considerata «giacimento da sfruttare». La nostra classe
dirigente non capisce che la cultura è un’esigenza irrinunciabile, non merce da
depredare?
C’è una
diffusa leggenda secondo cui la destra becera della stagione berlusconiana
sarebbe stata sostituita da una destra colta e pulita. Ma bisogna constatare
amaramente che la destra colta e tecnocratica del governo Monti fa esattamente
le stesse cose della destra becera precedente. La destra di Sarkozy, invece,
non ha tagliato i fondi alla cultura. Anzi ha puntato sulla ricerca come
settore strategico. Beninteso la destra, come lei può ben capire, a me non
piace per niente. Registro però che Frédéric Mitterrand dichiarava che i fondi
del ministero della Cultura vanno considerati un santuario intoccabile. E,
infatti, non furono diminuiti di un euro. Questo mentre in Italia si tagliava
spietatamente. E al ministro Sandro Bondi non importava un bel niente.
Continuando
il confronto, nell’attuale crisi, il ministro della Cultura del governo
Hollande, Aurelie Filippetti, ribadisce che tagliare la cultura sarebbe una
follia. E in Italia?
Bisogna
avere il coraggio di dirselo chiaramente. Ormai anche la sinistra è rassegnata
a subire i tagli alla cultura come una sorta di fatalità, dettata dalla crisi
economica. Ma non è vero. Si veda anche la Germania che reagisce alla crisi
dicendo che in cultura, tuttavia, si investe. Sono sempre di più i cittadini
italiani che protestano contro questa concezione marginale della cultura, vista
quasi fosse un lusso. Ma non sono ancora abbastanza. Intanto i ministri Passera
e Ornaghi firmano il manifesto per la cultura de Il Sole 24 ore, si stracciano
le vesti per dire che non vorrebbero mai tagliare in cultura e intanto lo
fanno. C’è questa doppia verità, questo doppio binario.
Al teatro
Eliseo, anche la platea di addetti ai lavori degli Stati generali della cultura
ha contestato apertamente i due ministri.
Ero in Cile
(per un ciclo di conferenze sui beni culturali, ndr), l’ho appreso dai
giornali. Ma posso dire che i ministri contestati, Ornaghi e Profumo, sono del
tutto appiattiti sull’operato dei loro predecessori, Bondi e Gelmini. Trovo
veramente stupefacente che un governo tecnico – appoggiato anche dal Pd – abbia
una così totale assenza di prospettiva nella politica culturale del Paese. Il
ministro Passera e il viceministro Mario Ciaccia, nel frattempo, continuano a
dire che troveranno 80 miliardi, 100 miliardi… Parlano di infrastrutture, di
autostrade, non parlano mai seriamente di messa in sicurezza del territorio
nonostante il Paese sia devastato da sismi e dissestato sotto il profilo
idrogeologico. Passera parla sempre in occasioni pubbliche di un’agenda
culturale del governo, ma è un flatus vocis dietro al quale non si vede il più
remoto progetto concreto. Per non dire poi di Ornaghi, che non fa nemmeno
promesse. Si limita a dire che lo Stato deve aspettare l’arrivo di finanziatori
privati.
Per i beni
culturali, Ornaghi auspica «meno Stato e più privati».
Che dica
questo è gravissimo. Sarebbe come se un ministro della Repubblica per mantenere
l’ordine pubblico dicesse «sarebbe bene chiamare la mafia». Contributi privati
ai beni culturali sono i benvenuti, purché funzioni (secondo Costituzione) il
sistema pubblico della tutela, con risorse pubbliche.
Soprintendenze
territoriali sempre più depauperate di competenze, blocco delle assunzioni e
nomine politiche ai vertici delle maggiori istituzioni, come la Melandri al
MAXXI. Da dove ripartire per uscire da questo impasse?
Nel libro
non suggerisco delle ricette per i beni culturali. Ho voluto dare un messaggio
del tutto diverso: per poter affrontare il problema della cultura in maniera
risolutiva è necessario inquadrarlo in un ambito più ampio. Il diritto alla
cultura fa parte di un orizzonte costituzionale. Bisogna capire alla radice il
problema. Tutte le questioni che lei cita sarebbero facilissime da risolvere se
ci fosse un ministro competente capace di prendere tutti i provvedimenti
necessari. Ma un tecnico di indubbia competenza come Mario Monti ha scelto come
ministro della Cultura la persona più disadatta, la più lontana da questo
compito. Per evitare che in futuro il ministro della Cultura sia una figura di
quarta o quinta fila bisogna ridare centralità alla cultura e leggerla
nell’orizzonte degli altri diritti costituzionali. L’articolo 9 non è frutto
del caso. Non è un’intrusione. È assolutamente essenziale. La cultura, come il
diritto alla salute, al lavoro, all’istruzione (scuola, università, ricerca)
sono essenziali alla democrazia, alla libertà e all’uguaglianza, cioè ai
valori fondamentali della Carta. Capendo questo si trova poi anche la soluzione
alle singole questioni.
La
Costituzione, lei scrive, è un manifesto politico, quanto mai vivo. Non un
feticcio.
I diritti
che citavo concorrono parimenti a garantire l’autonomia e la dignità del
cittadino. L’articolo 9 va messo in relazione con la messa in sicurezza del
territorio e con la tutela del paesaggio. D’altro canto la concezione
costituzionale di tutela dell’ambiente risulta dalla combinazione con la tutela
della salute e va letta in parallelo all’articolo 32, inteso come diritto alla
salute. Per il futuro dell’Italia dobbiamo tenere insieme tutte queste cose.
Non devono essere la seconda o la terza o la quarta preoccupazione, bensì la
prima. Attuando la Costituzione si creerebbe tantissimo lavoro. E ce n’è molto
bisogno oggi, specialmente per le generazioni giovani.
Il giurista
Stefano Rodotà è stato invitato in Tunisia perché, dopo la Primavera araba, c’è
chi pensa a una costituzione sull’esempio della nostra. La nostra Carta viene
presa a modello all’estero e in Italia c’è chi la ritiene inattuale?
La nostra
Carta è già stata presa ad esempio da altri Paesi. L’articolo 9 è stato copiato
dalla Costituzione portoghese e da quella maltese ed è stato praticamente
parafrasato da Paesi del Sudamerica. Chi parla della nostra Costituzione come
di “un ferro vecchio” non sa quel che dice. O forse lo sa molto bene… Chi
protesta contro l’articolo 42 sul diritto di proprietà che è limitato nella
Carta italiana dall’utilità sociale, ora dice – come fa Berlusconi – che è
vecchia e andrebbe cambiata. E non si accorge che sta criticando una
Costituzione del 1948 auspicando un ritorno allo Statuto Albertino del 1848.
Nello Statuto Albertino, infatti, la proprietà privata era un valore assoluto.
Ora, dire che la Carta è invecchiata per poi tornare indietro di cento anni, mi
sembra una mossa suicida.
_______________________________________________
Settis:«Cittadini, riprendiamoci i beni comuni»
«Il nesso tra neoliberismo e distruzione dei beni comuni è diretto e profondo, e il riconoscerlo è merito non piccolo di quest’ultimo libro di Salvatore Settis». Un libro col quale l’autorevole intellettuale esce dal suo tradizionale campo di riflessione e agitazione per annodare alcune grandi questioni dei nostri tempi, beni culturali e beni comuni, paesaggio e proprietà . Il manifesto, “alias”, 6 gennaio 2013
«Sarebbe assurdo che una generazione precedente potesse limitare l’uso che (della terra, n.d.r.) faranno le generazioni successive, poiché la terra appartiene ad esse proprio come appartenne ai loro predecessori, al loro tempo». Sono parole che potrebbero provenire da uno dei tanti benemeriti difensori dell’ambiente, parole che figurerebbero benissimo anche in un editoriale del nostro manifesto. Sono invece tratte dalle Lezioni di Glasgow di Adam Smith, i corsi accademici che il maggior fondatore della moderna teoria economica tenne nell’università scozzese tra il 1762 e il 1764 (tradotte in italiano da Giuffré nel fatidico 1989). Già, proprio quello Smith di cui il neoliberismo, fuori e dentro d’Italia, si è – indebitamente – appropriato come padre nobile al fine di legittimare la propria ideologia imperniata sull’homo œconomicus, egoista e dedito solo al profitto immediato, tale quindi da giustificare anche lo sfruttamento senza tregua di quei beni comuni apparentemente gratuiti (perché senza cartellino di prezzo), che chiamiamo ambiente o territorio o, semplicemente, natura.
Il nesso tra neoliberismo e distruzione dei beni comuni è diretto e profondo, e il riconoscerlo è merito non piccolo di quest’ultimo libro di Salvatore Settis – Azione popolare Cittadini per il bene comune (Einaudi «Passaggi», pp. 240, € 18,00) –, l’archeologo che da anni si è trasformato in intellettuale militante per la tutela non solo del patrimonio storico-artistico, come pure ci si potrebbe attendere da un esperto del settore, ma di quel bene molto più fragile – perché perlopiù intangibile e quindi meno o per nulla difeso – che è il paesaggio italiano. Questo era appunto il tema di Paesaggio costituzione cemento (Einaudi 2010), che ricostruiva il dibattito secolare sulla difesa del territorio, partito addirittura prima dell’unità d’Italia, all’epoca degli stati italiani pre-risorgimentali, e che trovò una sintesi felice nell’articolo 9 della Costituzione, che considera i beni culturali e il paesaggio come un unico patrimonio culturale da salvaguardare. A quel libro e alle sue ultime pagine, che esortavano a resistere alla crescente devastazione attraverso forme di azione popolare da intraprendere per una più piena attuazione della condizione di cittadinanza, si riallaccia il titolo di questo nuovo testo, che fonde assieme una vasta serie di analisi che si nutre di apporti provenienti dalle più diverse discipline: storia, economia, sociologia, diritto, filosofia e persino biologia evolutiva.
Pur in tanta ricchezza e complessità, l’obiettivo è sempre chiaro e mai perso di vista: la rivalutazione del bene comune, al di là di ogni uso retorico o strumentale, e dei beni comuni, senza cui il primo diventa solo un slogan vuoto, da stiracchiare per l’ennesima campagna elettorale. Di beni comuni oggi si parla molto, e anche confusamente, finendo per comprendervi tante cose diverse, a volte troppe. Al primo posto non possono che esservi i «beni comuni materiali naturali», come li chiama Giovanna Ricoveri ispirandosi a Empedocle: terra, acqua, aria, energia (in Beni comuni vs merci, Jaca Book 2010, di cui è imminente l’uscita in inglese con il titolo Commons vs commodities, con prefazione di Vandana Shiva). Ma se questo può bastare per i cosiddetti paesi in via di sviluppo, non è così per un paese come l’Italia, la cui identità storica è fatta anche di luoghi, di paesaggi, di monumenti che fino a poco tempo fa erano parte del demanio pubblico e che lo sciagurato federalismo demaniale rischia di smantellare una volta per sempre, all’insegna di quello slogan «padroni a casa nostra» che riflette, come forse nessun altro, lo sgretolamento dell'idea stessa di una cittadinanza italiana.
La riflessione di Settis oscilla costantemente tra memoria storica, battaglia politica e legale in nome disamina del presente e tensione verso il futuro, tenacemente sorretta dalla convinzione che se non si sa guardare indietro, non si può sperare di saper guardare avanti. Di qui l’ampia ricognizione di carattere giuridico sull’antica sull’antica nozione di usi civici o beni colletti vi, «un altro modo di possedere» (la definizione è del giurista Paolo Grossi) oggetto di una secolare battaglia politica e legale in nome dell’egemonia della proprietà privata che ha sempre cercato di ridurla ai minimi termini in quanto ostacolo al profitto dei ceti dominanti. Ma la proprietà collettiva, forma spontanea di auto organizzazione socio-economica pervasa da spirito comunitario, ha ricevuto anche di recente critiche drastiche da parte di scienziati sociali sulla base della teoria detta «tragedia dei beni comuni», secondo cui essi sarebbero inevitabilmente destinati a perire per l’eccesso di consumo collettivo. Una teoria che il lungo lavoro empirico di Elinor Ostrom, l’economista scomparsa da pochi mesi, ha rivelato privo di fondamenta, un puro asserto ideologico. È anche a lei che Settis guarda per rivalutare il principio di cooperazione che il neoliberismo ha sempre vilipeso in favore della competizione ossia del mercato, trattato come una sorta di entità metafisica, di nuova religione secolare, che l’autore smaschera come un falso mito. Così come smaschera come vera ed estrema antipolitica il tentativo di screditare come antipolitici tutti quei fermenti spontanei di protesta contro la politica ufficiale che esclude la voce dei cittadini proprio quando si tratta di decisioni vitali per la salute e il benessere della comunità (gli esempi al riguardo si sprecano, ma per chi scrive da Vicenza, già città del Palladio e ora di basi militari, il riferimento è immediato).
Quello di Settis è ancora una volta un appassionato richiamo
al diritto di resistenza sulla scia di una proposta che risale a Dossetti e La
Pira, pur senza entrare nella discussione di forme specifiche ma fornendo una
poderosa legittimazione storica e culturale.Diceva Andrea Zanzotto che siamo
passati dai campi di sterminio allo sterminio dei campi, «fatti apparentemente
distanti ma che dipendono dalla stessa mentalità». Questo libro ci aiuta a
capirlo
Link utili
vedi anche nell'archivio di eddyburg la lezione di Giovanna Ricoveri alla Scuola di eddyburg 2011, uno scritto di Elinor Olstrom, nonchè, sempre rovistando nell'archivio di eddyburg, numerosi scritti di Ugo Mattei e Stefano Rodotà, Paolo Cacciari ed Edoardo Salzano.
Nessun commento:
Posta un commento