03 dicembre 2012

GIORDANO BRUNO E' VIVO

Sistema di memoria, Giordano Bruno  


Nella monumentale edizione delle «Opere lulliane» diretta da Michele Ciliberto, torna la più grande lezione del filosofo che sarebbe finito al rogo: non c’è vera conoscenza senza la possibilità di critica. Dall’inserto culturale del 24 ORE di ieri riprendiamo questo articolo:

 Massimo Bucciantini - Giordano Bruno e la combinatoria delle libertà
 

Provate a immaginarvi la scena. Siamo nell’aula magna di una delle più celebri università tedesche, centro pulsante e simbolo culturale del luteranesimo. L’aula è gremita, e schierati nelle prime file stanno il rettore e l’intero senato accademico, venuti lì ad ascoltare il discorso di congedo di uno strano conferenziere, di un esule, «piccolo di corpo, scarso di beni, privo di favore, premuto dall’odio della folla, quindi sprezzabile agli stolti e a quegli ignobilissimi che non riconoscono nobiltà se non dove splende l’oro e tinnisce l’argento». Un “forestiero” in tutti i sensi, che però in quella università era riuscito a trovare un po’ di pace, e che appunto per questo aveva sentito il dovere di ringraziare quei professori che non solo non lo avevano disprezzato, ma anzi lo avevano accolto, offrendogli la possibilità di svolgere l’attività che più desiderava: quella di insegnare liberamente.
Era l’8 marzo 1588. Quel fuggiasco si chiamava Giordano Bruno, di professione filosofo, 40 anni appena, e il luogo in cui venne pronunciata quella che poi diventerà una celebre Oratio era Wittenberg, la città di Lutero e Melantone.
Dopo anni inquieti trascorsi a peregrinare per mezza Europa, dopo essere stato cacciato dai teologi di Oxford, come dai filosofi della Sorbona, Bruno sembra aver finalmente incontrato il luogo giusto per ripararsi dal morso dei tanti suoi calunniatori. Nel giugno del 1586, dopo aver lasciato definitivamente Parigi, giungeva in Germania, dove soggiornò prima a Magonza e a Wiesbaden. Poi, il mese successivo, si spostò a Marburgo, nella speranza di poter leggere filosofìa (ma anche questa volta gli venne negato il permesso, troppa era la distanza che lo separava dalle posizioni aristotelico-ramiste allora dominanti). Il 20 agosto era a Wittenberg e, grazie all’intercessione del giurista Alberigo Gentili, ottenne l’immatricolazione all’università, ricevendo l’incarico di tenere lezioni di filosofia. A questo compito si dedicò fino alla primavera del 1588, quando il luteranesimo moderato e tollerante che fino a quel momento aveva guidato la politica del ducato lasciò il posto a un calvinismo ben più oltranzista: una brusca svolta che portò alla destituzione e alle dimissioni di non pochi professori dello Studio, ai quali si aggiunse anche Bruno. Di qui nasce la sua idea di tenere un discorso di commiato, l’Oratio valedictoria, per esprimere tutta la propria stima a quel corpo insegnante che, caso più unico che raro, lo aveva accolto con particolare benevolenza. Il seguito della storia lo conosciamo: lasciata Wittenberg, Bruno si rimetterà in viaggio andando prima a Praga, alla corte di Rodolfo II, dove resterà solo sei mesi, e poi a Tubinga e Helmstedt, per poi trasferirsi a Francoforte e da lì, sua penultima e tragica stazione, a Padova e a Venezia.
Com’è facile intuire i due anni trascorsi a Wittenberg furono particolarmente felici. Proprio nella città tedesca, nel 1587, Bruno pubblicava uno dei suoi scritti maggiori dedicati alla conoscenza (ma anche alla revisione e al completamento) dell’ars di Raimondo Lullo, il De lampade combinatoria lulliana. L’opera, ora edita da Adelphi con testo italiano a fronte e arricchita da un esauriente commento, occupa la parte centrale dei suoi scritti lulliani. E tra questi è sicuramente il più suggestivo e il più ricco di implicazioni filosofiche: oltre trecento pagine tra testo e commento, a cui si aggiungono due altri lavori a stampa, il De compendiosa architectura & complemento artis Lullij (Parigi 1582) e il De specierum scrutinio et lampade combinatoria lulliana (Praga 1588), e il manoscritto, tramandato in un unico testimone (ora alla Stadtbibliothek di Augsburg), delle Animadversiones circa Lampadem Lullianam.


                                                                                  

Raimondo Lullo con le scale della sua arte, miniatura del secolo XIV

 

Ma perché Lullo e qual è il legame che Bruno stabilisce tra l’arte combinatoria del teologo e mistico catalano e la “nova filosofia” della Cena o dello Spaccio? Siamo in presenza principalmente di un’appropriazione di tecniche del discorso oppure c’è qualcosa di altro e di più profondo? Le risposte a questi interrogativi emergono in modo esplicito proprio dalla lettura del De lampade combinatoria. L’obiettivo è quello di «portare a perfetto compimento la struttura e il metodo argomentativo di Lullo», ovvero di riuscire a mostrare tutta la fecondità insita nell’ars combinatoria, la sua utilità sul piano retorico e la sua potenza speculativa. Ma ecco che nella lettera al senato accademico di Wittenberg con cui si apre l’opera, e che contiene accenti encomiastici simili a quelli presenti nell’Oratio del marzo 1588, questi orientamenti per così dire metodologici assumono anche un forte significato civile. Come è stato messo bene in evidenza dai curatori del volume, Bruno elabora un testo in cui l’uso dell’ars si apre progressivamente a «un modello filosofico diametralmente opposto alla tradizione dell’umanesimo». Per Bruno il lullismo «non appartiene all’ambito della pura empiria né può essere declinato nell’orizzonte della retorica e delle arti liberali», ma contiene in sé una vocazione altamente filosofica. Ed è questo nuovo “asse” teorico che consente all’arte di Lullo di andare oltre il suo intento originario, ovvero di «fornire un metodo per dimostrare la validità della verità della fede», per trasformarsi in uno «strumento dialettico al servizio di tutta la conoscenza».
Siamo in presenza di “macchine”, ruote, scale vertiginose di parole che mettono in movimento parti fondamentali del discorso e sfociano in un universo linguistico molteplice e fecondo, dove «il dire molto e con varietà d’espressione è segno di una prossimità, sostanziale e non solo virtuale, alla natura e al tutto». Di fronte al dilagare della decadenza culturale e morale del suo tempo, il perfezionamento dell’ars lulliana diviene cosi uno strumento per la ricerca della libertas philosophandi. E non è certo un caso che termini come «libertà filosofica», «libere discipline», «liberi altari delle Muse» siano costantemente ripetuti proprio negli anni dei soggiorni a Wittenberg e Helmstedt. Ovviamente, per un filosofo come Bruno, si tratta di espressioni che resterebbero parole vuote se non si traducessero in opere concrete. Per questo non trovava prova migliore dell’esempio virtuoso rappresentato da Wittenberg, dove libertà e vita associata stavano dimostrando la loro piena compatibilità. Eppure, ed è lui a sottolinearlo, la formazione filosofica e la preparazione teologica dei professori non erano poi molto diverse da quelle dei tanti loro colleghi con cui si era scontrato a Tolosa, Parigi, Oxford. Ma c’è una differenza sostanziale tra questi ultimi e i «buoni teologi» di Wittenberg: loro non hanno «storto il naso, affilato le zanne, gonfiato la bocca» come invece avevano fatto gli altri. «Non avete – scrive da par suo nel De lampade combinatoria – strepitato dai pulpiti, non avete istigato contro di me il furore degli studenti, ma come si conviene allo splendore della vostra umanità e dottrina vi siete comportati in modo tale da mostrare di essere sapienti nei confronti miei, vostri, di tutti gli altri e al posto di tutti gli altri». Pur consapevoli che quell’esule italiano non condivideva gli ideali della Riforma, essi hanno riconosciuto nella sua filosofia alcuni tratti comuni e originari di ogni società umana, quelli legati alla «generalis philanthropia», all’amore per l’umanità nella sua universalità. Qui sta il loro merito e la loro virtù: di aver capito che il sapere, il vero sapere, «è una delle sorgenti primigenie nella vita dei popoli e degli Stati».
«Le opere lulliane, come quelle mnemotecniche, rappresentano un aspetto centrale della “vocazione riformatrice” di Bruno» scrive Michele Ciliberto nel saggio introduttivo. E per molto tempo sono state pochissimo lette, soltanto a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso sono riemerse dall’oblio in cui erano precipitate. È stato allora, infatti, grazie ai lavori di Eugenio Garin, Frances Amelia Yates e Paolo Rossi, che il nostro modo di “vedere” Bruno è cominciato a cambiare radicalmente. Oggi, cinquantanni dopo quella fortunata stagione di ricerche storiche, libri come questo sono indispensabili per porre nuove domande e aprire nuovi cantieri sul grande Nolano.
 






 

1 commento: