Sistema di memoria, Giordano Bruno
Nella
monumentale edizione delle «Opere lulliane» diretta da Michele Ciliberto, torna
la più grande lezione del filosofo che sarebbe finito al rogo: non c’è vera conoscenza senza la
possibilità di critica. Dall’inserto culturale del 24 ORE di ieri riprendiamo
questo articolo:
Massimo Bucciantini - Giordano Bruno e la combinatoria
delle libertà
Provate
a immaginarvi la scena. Siamo nell’aula magna di una delle più celebri
università tedesche, centro pulsante e simbolo culturale del luteranesimo.
L’aula è gremita, e schierati nelle prime file stanno il rettore e l’intero
senato accademico, venuti lì ad ascoltare il discorso di congedo di uno strano
conferenziere, di un esule, «piccolo di corpo, scarso di beni, privo di favore,
premuto dall’odio della folla, quindi sprezzabile agli stolti e a quegli
ignobilissimi che non riconoscono nobiltà se non dove splende l’oro e tinnisce
l’argento». Un “forestiero” in tutti i sensi, che però in quella università era
riuscito a trovare un po’ di pace, e che appunto per questo aveva sentito il
dovere di ringraziare quei professori che non solo non lo avevano disprezzato,
ma anzi lo avevano accolto, offrendogli la possibilità di svolgere l’attività
che più desiderava: quella di insegnare liberamente.
Era
l’8 marzo 1588. Quel fuggiasco si chiamava Giordano Bruno, di professione
filosofo, 40 anni appena, e il luogo in cui venne pronunciata quella che poi
diventerà una celebre Oratio era Wittenberg, la città di Lutero e
Melantone.
Dopo
anni inquieti trascorsi a peregrinare per mezza Europa, dopo essere stato
cacciato dai teologi di Oxford, come dai filosofi della Sorbona, Bruno sembra
aver finalmente incontrato il luogo giusto per ripararsi dal morso dei tanti
suoi calunniatori. Nel giugno del 1586, dopo aver lasciato definitivamente
Parigi, giungeva in Germania, dove soggiornò prima a Magonza e a Wiesbaden.
Poi, il mese successivo, si spostò a Marburgo, nella speranza di poter leggere
filosofìa (ma anche questa volta gli venne negato il permesso, troppa era la
distanza che lo separava dalle posizioni aristotelico-ramiste allora
dominanti). Il 20 agosto era a Wittenberg e, grazie all’intercessione del
giurista Alberigo Gentili, ottenne l’immatricolazione all’università, ricevendo
l’incarico di tenere lezioni di filosofia. A questo compito si dedicò fino alla
primavera del 1588, quando il luteranesimo moderato e tollerante che fino
a quel momento aveva guidato la politica del ducato lasciò il posto a un
calvinismo ben più oltranzista: una brusca svolta che portò alla destituzione e
alle dimissioni di non pochi professori dello Studio, ai quali si aggiunse
anche Bruno. Di qui nasce la sua idea di tenere un discorso di commiato, l’Oratio
valedictoria, per esprimere tutta la propria stima a quel corpo insegnante
che, caso più unico che raro, lo aveva accolto con particolare benevolenza. Il
seguito della storia lo conosciamo: lasciata Wittenberg, Bruno si rimetterà in
viaggio andando prima a Praga, alla corte di Rodolfo II, dove resterà solo sei
mesi, e poi a Tubinga e Helmstedt, per poi trasferirsi a Francoforte e da lì,
sua penultima e tragica stazione, a Padova e a Venezia.
Com’è
facile intuire i due anni trascorsi a Wittenberg furono particolarmente felici.
Proprio nella città tedesca, nel 1587, Bruno pubblicava uno dei suoi scritti
maggiori dedicati alla conoscenza (ma anche alla revisione e al completamento)
dell’ars di Raimondo Lullo, il De lampade combinatoria
lulliana. L’opera, ora edita da Adelphi con testo italiano a fronte e
arricchita da un esauriente commento, occupa la parte centrale dei suoi scritti
lulliani. E tra questi è sicuramente il più suggestivo e il più ricco di
implicazioni filosofiche: oltre trecento pagine tra testo e commento, a cui si
aggiungono due altri lavori a stampa, il De compendiosa architectura &
complemento artis Lullij (Parigi 1582) e il De specierum scrutinio et
lampade combinatoria lulliana (Praga 1588), e il manoscritto, tramandato
in un unico testimone (ora alla Stadtbibliothek di Augsburg), delle Animadversiones
circa Lampadem Lullianam.
Raimondo Lullo con le scale della sua arte, miniatura
del secolo XIV
Ma
perché Lullo e qual è il legame che Bruno stabilisce tra l’arte combinatoria
del teologo e mistico catalano e la “nova filosofia” della Cena o dello
Spaccio? Siamo in presenza principalmente di un’appropriazione di tecniche
del discorso oppure c’è qualcosa di altro e di più profondo? Le risposte a
questi interrogativi emergono in modo esplicito proprio dalla lettura del De
lampade combinatoria. L’obiettivo è quello di «portare a perfetto
compimento la struttura e il metodo argomentativo di Lullo», ovvero di riuscire
a mostrare tutta la fecondità insita nell’ars combinatoria, la sua
utilità sul piano retorico e la sua potenza speculativa. Ma ecco che nella
lettera al senato accademico di Wittenberg con cui si apre l’opera, e che
contiene accenti encomiastici simili a quelli presenti nell’Oratio del
marzo 1588, questi orientamenti per così dire metodologici assumono anche
un forte significato civile. Come è stato messo bene in evidenza dai curatori
del volume, Bruno elabora un testo in cui l’uso dell’ars si apre
progressivamente a «un modello filosofico diametralmente opposto alla
tradizione dell’umanesimo». Per Bruno il lullismo «non appartiene all’ambito
della pura empiria né può essere declinato nell’orizzonte della retorica e
delle arti liberali», ma contiene in sé una vocazione altamente filosofica. Ed
è questo nuovo “asse” teorico che consente all’arte di Lullo di andare oltre il
suo intento originario, ovvero di «fornire un metodo per dimostrare la validità
della verità della fede», per trasformarsi in uno «strumento dialettico al
servizio di tutta la conoscenza».
Siamo
in presenza di “macchine”, ruote, scale vertiginose di parole che mettono in
movimento parti fondamentali del discorso e sfociano in un universo linguistico
molteplice e fecondo, dove «il dire molto e con varietà d’espressione è segno
di una prossimità, sostanziale e non solo virtuale, alla natura e al tutto». Di
fronte al dilagare della decadenza culturale e morale del suo tempo, il
perfezionamento dell’ars lulliana diviene cosi uno strumento per la
ricerca della libertas philosophandi. E non è certo un caso che
termini come «libertà filosofica», «libere discipline», «liberi altari delle
Muse» siano costantemente ripetuti proprio negli anni dei soggiorni a
Wittenberg e Helmstedt. Ovviamente, per un filosofo come Bruno, si tratta di
espressioni che resterebbero parole vuote se non si traducessero in opere
concrete. Per questo non trovava prova migliore dell’esempio virtuoso
rappresentato da Wittenberg, dove libertà e vita associata stavano dimostrando
la loro piena compatibilità. Eppure, ed è lui a sottolinearlo, la formazione
filosofica e la preparazione teologica dei professori non erano poi molto
diverse da quelle dei tanti loro colleghi con cui si era scontrato a Tolosa,
Parigi, Oxford. Ma c’è una differenza sostanziale tra questi ultimi e i «buoni
teologi» di Wittenberg: loro non hanno «storto il naso, affilato le zanne,
gonfiato la bocca» come invece avevano fatto gli altri. «Non avete – scrive da
par suo nel De lampade combinatoria – strepitato dai pulpiti, non
avete istigato contro di me il furore degli studenti, ma come si conviene allo
splendore della vostra umanità e dottrina vi siete comportati in modo tale da
mostrare di essere sapienti nei confronti miei, vostri, di tutti gli altri e al
posto di tutti gli altri». Pur consapevoli che quell’esule italiano non
condivideva gli ideali della Riforma, essi hanno riconosciuto nella
sua filosofia alcuni tratti comuni e originari di ogni società umana, quelli
legati alla «generalis philanthropia», all’amore per l’umanità nella sua
universalità. Qui sta il loro merito e la loro virtù: di aver capito che il
sapere, il vero sapere, «è una delle sorgenti primigenie nella vita dei popoli
e degli Stati».
«Le
opere lulliane, come quelle mnemotecniche, rappresentano un aspetto centrale
della “vocazione riformatrice” di Bruno» scrive Michele Ciliberto nel saggio
introduttivo. E per molto tempo sono state pochissimo lette, soltanto a partire
dagli anni Sessanta del secolo scorso sono riemerse dall’oblio in cui erano
precipitate. È stato allora, infatti, grazie ai lavori di Eugenio Garin, Frances
Amelia Yates e Paolo
Rossi, che il nostro modo di “vedere” Bruno è cominciato a cambiare
radicalmente. Oggi, cinquantanni dopo quella fortunata stagione di ricerche
storiche, libri come questo sono indispensabili per porre nuove domande e
aprire nuovi cantieri sul grande Nolano.
Sì, Giordano Bruno brucia ancora!
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