Per i
nuovisti Keynes, un economista che
mise al centro della soluzione della crisi la creazione di lavoro, è un fossile
da rottamare . La sua colpa (in un epoca
in cui alla crisi si risponde distruggendo il lavoro e ogni forma di sicurezza
sociale), agli occhi dei liberisti odierni, è di non essere stato un semplice
contabile del capitale, ma un grande umanista che aveva compreso che l'uomo è
la radice di tutto da cui occorre sempre partire al momento delle scelte.
Riproponiamo
di seguito il bel pezzo di Nadia Fusini,
pubblicato ieri su La Repubblica:
Nadia Fusini - L’educazione di Keynes tra
classici e filosofia
Il buon
economista deve possedere “una combinazione di doti rara”: essere insieme “uno
storico, un matematico e un filosofo”; capire i simboli e saper usare le
parole; nel pensiero toccare l’astratto e il concreto. E soprattutto osservare
il particolare alla luce del generale. Questo pensava e di tanto fu capace John
Maynard Keynes, un economista assai speciale.
Speciale per
qualità ‘naturali’, per virtù inscritte nel suo genio, ben coltivato da
un’educazione ai classici e alla matematica. A dieci anni pare conoscesse
Euclide e leggesse Ovidio e i prosatori latini. A testimonianza di quanto la
solida borghesia vittoriana credesse nell’educazione della propria prole —
naturalmente, se maschia — Maynard arrivò giovanissimo a Eton. E subito dopo al
King’s College di Cambridge, il più adatto a prendersi cura del versatile
allievo.
A Eton si
interessò allo studio della propria discendenza e disegnò la silhouette
dell’albero geneaologico da cui come un frutto maturo lui pendeva. Risalì a un
antenato che verso la fine del Seicento aveva scritto una specie di Ragionato
Compendio per convincere tutti, ogni genere di persona a dissentire dalla vera
religione. Era un brillante retore, l’avo, e aveva una disposizione alla
felicità dell’espressione che Keynes ereditò, diventando oltre che uno storico,
un matematico e un filosofo, un elegante scrittore. Le due brevi memorie
che Adelphi ci offre, introdotte da un saggio giustamente ammirato di Giorgio
La Malfa, sono due piccole gemme.
Le mie prime convinzioni, che dà il titolo al libro, ritorna
agli anni di studio a Cambridge, anni assolutamente formativi per il nostro
eroe, fu letto il 9 settembre 1938; il secondo Melchior: un nemico
sconfitto riguarda gli anni del Trattato di Parigi, e fu letto il 2 febbraio
1921. Letti, sì: perché questi due ‘pezzi’ bisogna immaginarseli così — come
delle vere e proprie performances oratorie, recitate ad alta voce in mezzo agli
amici di Bloomsbury, nel calore di una comunità che celebra una memoria
condivisa. Il Club della Memoria, che cominciò a riunirsi nel marzo del 1920 e
proseguì, anche se in modo niente affatto regolare fino al 1946, era questo.
Senza avere
la pretesa di assurgere a mémoires, questi ricordi, o reminiscenze che, ripeto,
decide di condividere coi Bloomsberries (come qualcuno li chiamerà
ironicamente, quasi fossero delle fragoline in fiore), sono tanto più speciali
perché Keynes non scriverà mai un’autobiografia, anche se praticò il genere
biografico con grande gusto. Si vedano i suoi Essays in Biography, dove
isolando con straordinaria chiarezza le figure del mondo culturale e
scientifico a lui contemporanee, o del recente passato, ricostruì i tratti
autentici e profondi della intelligentsia britannica.
La quale
tradizione, legata ai nomi di Locke, di Hume, di Bentham, di Darwin e Mill, si
distingue per il rigore del pensiero, per l’amore del vero, per la tensione
pratica, per una istintiva insofferenza di ogni forma di sentimentalismo, e
vacuità metafisica. E per l’idea, sempre presente e spesso citata nel testo, di
liberarsi da “ogni forma di edonismo per immergersi nelle esperienze del
presente”. Idea, per altro, molto legata allo spirito di abnegazione e
all’impegno civile. Tutti tratti, questi, condivisi dai principali esponenti
del gruppo di Bloomsbury, che provengono da famiglie di tradizione
Non-conformist e Dissenter — come appunto gli Stephen, i Fry. E cioè, la
famiglia di Virginia Woolf, di Roger Fry. Di Keynes stesso. Perché i giovani di
Bloomsbury, niente affatto esponenti privilegiati di una razza e di una classe
borghese cieca e avida, furono intellettuali impegnati non a conservare, ma a
cambiare il mondo che avevano trovato. E seppero trasformare l’agnosticismo dei
genitori in impegno civile. E fare della vita una prova di conoscenza. Un
esercizio di impegno etico e morale volto a chiarire le ragioni stesse del
vivere.
Se
ispirandosi al medesimo umanesimo e idealismo e soprattutto modernismo degli
artisti di Bloomsbury, il giovane economista a Parigi seppe cogliere nel
particolare il generale, e cioè leggere negli occhi del banchiere ebreo di
Amburgo Carl Melchior la dignità della sconfitta, questo fu per la sua
coltivata e moderna flessibilità mentale, che lo rese capace di spostare il
punto di vista — come fa Virginia Woolf nei suoi romanzi — e dunque di mettersi
nel posto dell’altro, lo sconfitto; e capire la colpa del vincitore,
quell’eccesso di hybris, da cui sarebbe deflagrato il nazismo.
Grande lezione
di intelligenza che ci viene da chi sa apprendere la verità nella conoscenza
dei comportamenti umani e pensa l’economia anche come una scienza morale.
Purtroppo oggi facoltà assai desueta.
(Da: La
Repubblica del 3 dicembre 2012)
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