06 dicembre 2012

NON DIMENTICHIAMO PRIMO LEVI


Dal sito  http://lapoesiaelospirito.wordpress.com    prendo oggi il bel saggio che segue:



Augusto Benemeglio – Non dimentichiamo Primo Levi

1.I sommersi e i salvati

Venticinque anni fa Primo Levi ci ha lasciati, se ne è andato in quel buco nero che è la morte , gettandosi nella tromba delle scale della sua casa paterna di Torino, oppresso dal peso insostenibile del “ricordo” del Lager , quell’ombra terribile mostruosa e gigantesca per il suo breve e gentile corpo di uomo mite e sensibilissimo. Le poste italiane lo hanno voluto ricordare con un “folder”, che ho subito acquistato, e l’emissione di un francobollo commemorativo in ben 3 milioni di esemplari. Anche la Casa Editrice Einaudi ha voluto riproporre una nuova edizione de “I sommersi e i salvati”, in cui lo scrittore connota la conoscenza del tedesco come ciò che separava la vita dalla morte nel Lager. “Sapere il tedesco significava la vita.” Ma anche l’essere un valente chimico contribuì a salvarlo e a farlo entrare nel “Commando 98 di Chimica” anziché nel forno crematorio. E tuttavia sarà Dante con il Canto di Ulisse, uno dei più struggenti capitoli di “Se questo è un uomo”, a restituirgli il senso vivo dell’umana solidarietà , della bellezza, l’amore per il sapere e la nostalgia per la casa natìa. E sarà la stessa figura omerica-dantesca di Ulisse che riemergerà dopo molti anni ( espresse il desiderio che fossero scolpite in greco sulla sua lapide le parole “pollà plankte” che definiscono l’eroe e la sua voglia di andare per il mondo ) , nella circostanza della sua tragica morte.
Cinque anni fa , in occasione del ventennale dalla scomparsa , un compositore spagnolo , Luis de Pablo dedicò alla scrittore un’opera lirica, “Passio”, che fu eseguita dal maestro Gianandrea Noseda . Era una musica che rispecchiava fedelmente lo stile asciutto e distaccato, ma non scevro da tinte impressioniste di Levi, una riflessione sull’umanità destinata a soffrire senza ragione . “Una musica intensa, di grande impatto emotivo , ma non di facile intesa” , scrissero i giornali di Torino , città in cui Levi era nato la sera del 31 luglio 1919. da un’agiata famiglia di ebrei piemontesi di solide tradizioni intellettuali.

2.Rimandato all’esame di maturità con tre in italiano

Il padre, l’ing. Cesare , uomo vivo e vitale, straordinariamente versatile, estroverso , esuberante, era esattamente l’opposto di Primo , introverso, timido, di gracile costituzione fisica e di una sensibilità tutta particolare, quasi femminea , che avverte nei confronti del vigoroso genitore uno stato di quasi costante soggezione , che si colora talvolta di paura e di ombrosi risentimenti. L’impossibilità di avere un rapporto di confidenza con il padre accentua la sua introversione, tende sempre più a isolarsi, a vivere in un mondo tutto suo, carico di tensioni e di paura. Sembra , per certi versi, quasi ripetersi il rapporto che Franz Kafka esterna nella famosa “Lettera al padre”, ma il giovane Primo non pensa affatto alla scrittura. Fondamentale sarà per lui , in questa fase delicata dell’adolescenza , il vincolo affettivo che lo lega alla sorella che lo aiuta a superare l’ostacolo e le difficoltà del suo isolamento. Studia presso il ginnasio-liceo D’Azeglio e ha , per qualche mese , Cesare Pavese come insegnante di lettere. All’esame di maturità viene rimandato con tre in italiano. Non riesce a scrivere nulla sul componimento assegnato che ha per tema “La guerra in Spagna”. Consegna il foglio in bianco. Nel 1937 si iscrive alla facoltà di chimica dell’Università di Torino , dove si afferma ben presto come il migliore del suo corso e consegue la laurea nel 1941 summa cum laude. Esercita subito la professione di chimico in condizioni di semiclandestinità (fin dall’ottobre del 1938 era stata emanata la “carta della razza”, una serie di provvedimenti legislativi e amministrativi anti-ebraici) , in una cava d’amianto a Balangero presso l’industria Wander di Milano. L’8 settembre 1943 lascia l’impiego e si trasferisce in Val d’Aosta , sopra Saint Vincent, dove viene in contatto con altri giovani appartenenti al movimento “Giustizia e Libertà”. Sono in otto, sprovvisti di mezzi e di armi , senza nessuna esperienza militare. Hanno solo esuberanza ed entusiasmo giovanile. Il 13 dicembre vengono catturati e portati ad Aosta , dove saranno sottoposti a interrogatori e maltrattamenti. Dopo due mesi di prigionia Levi ammette di essere cittadino italiano di razza ebraica e viene così inviato a Fossoli , presso Modena, campo di raccolta degli ebrei.

3. “Se questo è un uomo” non interessa nessun editore.
Il 22 febbraio 1944, insieme ad altri seicentoquarantanove compagni di sventura , viene deportato ad Auschwitz. Soltanto tre di essi, compreso l’autore di “Se questo è un uomo”, sopravvivranno al Lager. E lo stesso Levi dirà paradossalmente che “ è stato il lager a rendermi forte; l’ossatura morale mi è venuta dopo, dopo di aver raccontato e scritto , dopo di essermi sentito depositario di un’esperienza orribile e fondamentale, che era necessario diffondere e commentare. Solo dopo che l’umanità mi era stata negata , e dopo averla conquistata scrivendo, mi sono sentito uomo nel senso del libro”. Ma non è vero. Levi riuscirà a sopravvivere all’inferno del Lager grazie alla sua forza morale e di carattere , alla sua profonda maturità, alla sua intelligenza , alla sua coerenza interiore, ma soprattutto – come abbiamo detto – furono gli studi di chimica e la conoscenza del tedesco a salvargli la vita e a farlo diventare il massimo scrittore – testimone del XX secolo, ad iniziare dal suo primo libro, che Levi comincia a scrivere subito dopo la deportazione , al ritorno a Torino, ( siamo alla fine del 1945 ) . Ma quei ricordi di prigionia non interessano nessuna delle grandi case editrici , né Natalia Ginzburg, che lavora per Einaudi, a cui Levi si rivolge. Sarà il piccolo editore Silva a pubblicare “Se questo è un uomo” in 2500 copie , in gran parte invendute. Ma se il libro non venisse stampato , Levi lo narrerebbe , lo urlerebbe per le strade , tale è il suo stato d’animo, l’esigenza di raccontare quanto ha visto e vissuto, rendere partecipi gli altri, attaccar discorsi, costringere i suoi interlocutori ad ascoltare, a prendere atto delle tragiche allucinanti avventure nelle quali è incorso.

4.La dimensione della memoria .
“L’idea di dover sopravvivere per raccontare quanto avevo visto mi aveva ossessionato giorno e notte , per cui posso affermare che il libro è nato nel Lager “, dirà lo scrittore. Ma il successo come tale lo otterrà solo dieci anni dopo, quando , in occasione di una sua conferenza a Palazzo Carignano sulla deportazione e le atrocità dei Lager , l’editore Einaudi decide di pubblicare il libro , che esce contemporaneamente al “Diario di Anna Frank”. Ed è subito un successo straordinario. Il libro viene tradotto in moltissime lingue e ottiene vari riconoscimenti internazionali. Nella sola Germania se ne vendono cinquantamila copie in tre mesi. “Io non credo – scrive Levi al traduttore della lingua tedesca Heinz Riedt – che la vita dell’uomo abbia uno scopo definito; ma se penso alla mia vita, agli scopi che finora mi sono prefissi, uno solo ne riconosco ben preciso e cosciente, ed è proprio questo, di portare testimonianza, di far udire la mia voce al popolo tedesco , di rispondere al Kapo che si è pulito la mano sulla mia spalla , al dottor Pannwitz, a quelli che impiccarono Ultimo e ai loro eredi…”. Si tratta di personaggi reali che ritroviamo nel suo capolavoro, nato dall’insopprimibile esigenza etica, dall’urgenza e dalla necessità di un obbligo morale, di rendere consapevoli i contemporanei, attraverso la propria testimonianza diretta, di una delle massime atrocità che gli uomini potessero compiere nei riguardi dei loro simili: l’attuazione dei campi di sterminio. Ma il libro nasce anche dalla volontà di cercare di comprendere – “non posso dire di capire i tedeschi e qualcosa che non si può capire costituisce un vuoto doloroso, una puntura, uno stimolo permanente che chiede di essere soddisfatto” – e dalla sua passione del ricordare, che sono doti tipicamente ebraiche. Egli aveva una tale dimensione della memoria, che è anche “trasmissione di una lingua remota dei padri, sacra e solenne, geologica, levigata dai millenni come l’alveo dei ghiacciai”, che lo portava in qualche modo sempre e comunque all’inevitabile missione della testimonianza e della profezia.

5.Ogni straniero è un nemico.
Ricordare, ricordare per sé e per gli altri compagni innocenti massacrati ; insegnare a tutti come si ricorda, come non si dimentica, come non si deve dimenticare e cercare di studiare e di capire l’uomo: come possa egli, l’uomo, degradarsi al più basso livello morale della sua storia, facendo dello sterminio gratuito, della tortura scientifica , dell’abbrutimento dei suoi simili la propria prassi e il proprio ideale. Che cosa ha trasformato quegli uomini in belve? Gli aguzzini del Lager “erano della nostra stessa stoffa, esseri medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi… ma erano educati al male” . Dunque , individui non diversi da tanti altri , non diversi , forse, da noi, trasformati in spietati carnefici. Per pigrizia mentale, per miope calcolo, per stupidità , per orgoglio nazionale, perché ” erano educati al male”? Ma chi li ha educati al male, e perchè ? “A molti individui o popoli – scrive Levi – può accadere di ritenere , più o meno consapevolmente , che ogni straniero è nemico. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come un‘ infezione latente…”. Ed è su questa infezione latente – che alberga (purtroppo) in ognuno di noi e può manifestarsi in qualunque momento in atti saltuari e incoordinati verso coloro che vediamo come “ stranieri”, o “ diversi” – che dovremmo ancora oggi riflettere, visto quello che si è ripetuto e continua a ripetersi nel mondo anche ora.

6. La Tregua
Levi non è diventato nichilista , né manicheista , si è fatto carico di un giudizio di valori, senza mai perdere di vista la distinzione insormontabile che esiste tra Bene e Male, ma non si è trasformato in rigido moralista ; è riuscito a mantenersi in equilibrio , non idealizzando le vittime e non demonizzando i carnefici , e lo ha fatto attraverso il continuo studio e l’analisi di alcuni aspetti dell’animo umano , ha tracciato una via obliqua verso una nuova dignità , “una cote su cui affilare il cuore e la mente , un crogiolo di purificazione , ma tenuta quasi segreta per evitare ogni retorica”. E lo ha fatto con una scrittura che fosse chiara , semplice , perfettamente lucida – “ una scrittura che deve servire a comunicare , a trasmettere informazioni o sentimenti da mente a mente , perché questo è il compito di chi scrive. Se si scrive in modo oscuro, col solo linguaggio del cuore , non si viene capiti da nessuno e non si trasmette nulla, si grida solo nel deserto”. Ed ecco, dopo la discesa agli inferi di “Se questo è un uomo “ , “La tregua” , il libro-odissea , il libro del ritorno, inteso come travaglio interiore , lotta contro le memorie , resurrezione alla vita , dove gli episodi , i personaggi, gli incontri, le stesse tappe del viaggio stanno ad illustrare , in chiave emblematica , i momenti cruciali di quel doloroso itinerario che è appunto il recupero dell’io , della propria integrità umana , calpestata e avvilita dalle tremende ferite che Levi ha dovuto subire. “La Tregua “ è anche una salita verso una liberazione che si mostrerà illusoria .

7. Il peso terribile del ricordo
“La libertà , l’improbabile , impossibile libertà , così lontana da Auschwitz che solo nei sogni osavamo sperarla, era giunta; ma non ci aveva portato alla Terra Promessa. Era intorno a noi, ma sotto forma di una spietata pianura deserta. Ci aspettavano altre prove, altre fatiche , altre fami, altri geli, altre paure”. E tutti i suoi libri successivi, fino all’ultimo, “I sommersi e i salvati” , conserveranno quel linguaggio “ chiaro , essenziale , comprensibile a tutti, come le elaborazioni chimiche che hanno una lunga ombra simbolica del ridurre , concentrare, distillare , cristallizzare , “una lunga arringa , – scrive Tzvetan Tudorov , – di chi rifiuta le risposte facili basati su esami frettolosi” . Levi non si accontenta di rievocare gli orrori del passato , ma si interroga a lungo e con pazienza sui significati che tali orrori hanno oggi per noi. Sa che le passioni e i comportamenti umani non cambiano mai radicalmente e la storia si ripete; ed è proprio in questo atteggiamento verso il passato che sta la sua lezione più preziosa. Che uomini come Levi abbiano camminato su questa terra , che siano sfuggiti all’insidiosa penetrazione del male che sapevano così bene descrivere , è fonte di incoraggiamento per il lettore di questo libro, comunque sprofondato negli abissi della miseria e nella malinconia . Levi non ce l’ha fatta a sostenere il peso dei ricordi, “ che giacciono in noi e sono incisi sulla pietra” , e che diventeranno man mano talmente ossessivi in lui da condurlo all’estrema tragica disperazione del gesto fatale perché sempre, al “superstite” del Lager “ad ora incerta,/quella pena ritorna,/e se non trova chi lo ascolti/ gli brucia in petto il cuore./ Rivede i visi dei suoi compagni/lividi nella prima luce,/grigi di polvere di cemento,/indistinti per nebbia,/tinti di morte nei sonni inquieti…. “Indietro, via di qui, gente sommersa,/Andate. Non ho soppiantato nessuno, /non ho usurpato il pane di nessuno,/nessuno è morto in vece mia. Nessuno./Ritornate alla vostra nebbia./Non è colpa mia se vivo e respiro. E mangio e bevo e dormo e vesto panni”.
Sarà quest’angoscia senza sosta , questo senso di rimorso senza fine che lo porterà al suicidio. “Nessuno sa le ragioni di un suicidio , neppure chi si è suicidato”. E’ la tarda mattinata dell’11 aprile 1987 , Primo ha da poco subito un delicato intervento alla prostata , soffre di depressione acuta e non può prendere antidepressivi, è stanco di rivivere la propria atroce sofferenza , anche a distanza di più di trent’anni; decide di farla finita , e dopo aver salutato e ringraziato con un sorriso gentile la portinaia che gli portava la posta, si getta nella tromba delle scale della casa paterna, lasciando un ultimo messaggio a tutti noi: “Non dimenticate”.

Roma, 29 novembre 2012                                                       Augusto Benemeglio


P.S.: Enrique Irazoqui, a proposito di Auschwitz, ieri mi ha ricordato queste illuminanti parole: "Dei fatti così reali che, in confronto, niente è più vero [...] aporia della conoscenza storica: la non coincidenza fra fatti e verità, fra constatazione e comprensione". (Giorgio Agamben, Quel che resta di Aushwitz, citazione in Studi su Agamben, a cura di Lucia Dell'Aia)



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