Massimo Cacciari, in un articolo pubblicato oggi su La Repubblica, spiega chiaramente le ragioni che spinsero Dante, contro gli accademici del suo tempo, a sostenere le ragioni del volgar eloquio. Riproponiamo di seguito l’articolo:
Massimo Cacciari - Il bello del volgare
Una straordinaria edizione del De
vulgari eloquentia, a cura di E. Fenzi, inaugura la nuova edizione
commentata delle opere di Dante, promossa dal Centro Pio Rajna. Impresa che si
annuncia da questo primo volume davvero monumentale. Il De vulgari non è
soltanto commentato, sulla scorta in particolare delle fondamentali ricerche di
Pier Vincenzo Mengaldo, con una vastità di erudizione e profondità critica, che
non ha precedenti, ma, oltre a un importante saggio di F. Bruni sulla Geografia
dantesca in riferimento alle aree linguistiche considerate nel trattato, ci
sono offerti in appendice tutti i testi poetici francesi, provenzali, italiani
citati da Dante e il primo volgarizzamento del De vulgari ad opera del
Trissino, stampato a Vicenza nel 1529, che sottraeva l’opera ad un oblio
secolare.
Opera, a mio avviso, così
rivoluzionaria, da non poter essere lasciata “pascolo” della sola erudizione
storico-filologica. Verità mai prima “tentate” affronta Dante anche qui. Anche
qui egli è “profeta”. E la prima, fondamentale di queste verità è che solo
l’uomo parla. Nessun altro animale, né angelo. Gli animali usano segni, sì,
fanno-segni, ma sensibili soltanto. E gli angeli comunicano immediatamente
riflettendosi tutti nello “specchio” del Divino sovraessenziale. Ma la lingua è
segno sensibile e razionale, congiunge in sé spirito e natura. E ciò ne
costituisce l’intatta nobiltà, simbolica nell’accezione più pregnante.
L’istinto è unico per ogni specie
animale. E neppure le specie angeliche si distinguono, se non per il posto che
occupano nella celeste Gerarchia. Nell’uomo, invece, la ragione «diversificetur
in singu- lis», si manifesta diversamente nelle diverse persone. Ognuno di noi
come ha una propria, individuale anima, così manifesta quasi una propria
ragione. E non è affatto un “male” – anzi dobbiamo godere di ciò. Ma
insieme anche comprendere le difficoltà e responsabilità che ne nascono.
Comunicare tra umani sarà sempre esposto al pericolo del fra-intendersi. È
necessario esserne consapevoli ed elaborare perciò una sapiente eloquenza, un
linguaggio per quanto possibile ordinato e capace di esprimere col massimo
rigore le idee, sempre destinate per manifestarsi ad incarnarsi in segni
sensibili.
Ecco allora l’imperiosa necessità di costruire
un volgare illustre – un volgare con cui potersi esprimere nelle accademie e
nelle corti, nei tribunali e nella grande politica. Un volgare cardine del
nostro comunicarci, che si innalzi sulle miserie municipali – non perché
Dante abbia cessato di amare Firenze, anzi: la ama da esule ancora di più – ma
proprio da esule ha imparato che le città vivono solo se universali,
solo se la loro lingua è così potente da comunicare a tutto il mondo.
Ma non basta il latino? Certo, è
nobile la grammatica, certo essa garantisce un ordine perfetto. Ma non
solo essa non può essere da tutti compresa – e il nuovo intellettuale,
Dante, vuole da tutti essere compreso. Il vero problema è che mai potrò
esprimere in latino i drammi dei tempi nuovi, mai potrò rappresentare in
latino la vita di queste città, il loro conflitto con Chiesa e Impero, la
scandalosa decadenza della Chiesa, la catastrofe dell’idea imperiale. Le idee e
i conflitti di questa età debbono trovare il proprio linguaggio, così come il
nuovo ordine di Augusto l’aveva trovato in Virgilio. Altrettanto nobili
entrambi. Ma solo il primo oggi vivente. Inutile allora il latino?
Nient’affatto – il latino è l’esempio insuperabile della sintesi di sapienza e
eloquenza. Il latino insegna a volerla e perseguirla nel volgare.
Ma non diventerà così anche il volgare
una lingua artificiale? Impossibile – esso affonda nella matrice, esso è
radicato, prima di ogni parola, nella nostra infanzia. Insieme al dono
stesso della libertà, Dio infonde nella nostra anima quella forma
locutionis, che ci rende capaci di assumere, senza nessuna regola,
qualsiasi lingua con cui la madre ci chiami. (So bene che il Fenzi
intende diversamente l’espressione “forma locutionis”, come riferita alla sola
prima lingua parlata da Adamo, che per Dante, come per tutta la tradizione
precedente, non poteva che essere l’ebraico). Non artificiale deve essere il
volgare, ma così potente da esprimere ogni idea, da comunicare ogni contenuto.
Da essere poesia, insomma, nel senso primo di poiesis, capacità
fabbrile, forza tettonica. Poetica dovrà essere perciò la fondazione
della lingua da tutti parlata e da tutti in qualche modo intesa – poetica,
meglio, quella sua ri-fondazione, che la renderà atta a creare vere
comunità di parlanti. Poeti saranno i fabbri migliori del parlare
materno.
Ma non diviene instancabilmente questo
parlare? Come dargli una forma? E non è questo suo continuo fluire immagine
dello stesso animale uomo «instabilissimum atque variabilissimum»? Come
“curare” le infinite varietà delle lingue, e le varietà interne ad ogni singola
lingua? Ma proprio la universale vicissitudine delle cose rende necessario
cercare il Comune, costruire forme di intesa e comunicazione, che a
tutti possano appartenere proprio perché a nessuno appartengono. Nessuna
astrattezza in tale compito – il Comune va perseguito attraversando la
concretezza vissuta delle forme di vita che i diversi idiomi rappresentano.
Nessun sedentario lavoro “a tavolino”, ma caccia appassionata da città a
città, anzi: da quartiere a quartiere, e cioè da vita a vita, per scovare
quelle forme che appaiano le più salde, quelle dotate di più “storia”, quelle
capaci di rendere più forte e convincente il nostro dire. E anche più bello,
più sonante, più armonioso. Straordinario impasto di coscienza storica,
sperimentalismo, ricerca di “grande forma”. E di amore per il parlare materno.
In epoche in cui la lingua viene
ridotta a puro mezzo per scambiarsi qualche informazione, in cui la sua forza
simbolica viene strapazzata, in cui i municipalismi più plebei minacciano di
dissiparne l’energia comunicativa universale, e sembra che a questi si debba
rispondere soltanto con il rigore dei linguaggi formali-artificiali delle
“scienze esatte”, l’appello di Dante in onore del volgare, sì, ma perché
si faccia illustre, suona ancora in tutta la sua carica innovativa.
Loquor ergo sum, parlo e perciò sono –
ma per poterlo affermare la mia locutio deve saper tendere a quella
sapienza, eloquenza e bellezza le cui tracce e i cui indizi il Vate indaga
senza riposo, e con i quali costruisce la somma architettura della Commedia.
Da La Repubblica del
11 dicembre 2012
Anche Pasolini è stato attratto dal "volgar eloquio"!
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