Mentre al MoMA (The Museum of
Modern Art) di New York è in corso una importante Mostra su Pasolini, mi pare
opportuno riproporre la famosa intervista che Oriana Fallaci nel 1966 fece allo
scrittore italiano in occasione di un suo viaggio nella città americana.
ORIANA FALLACI
– UN MARXISTA A NEW YORK
"Eccolo che arriva: piccolo,
fragile, consumato dai suoi mille desideri, dalle sue mille disperazioni,
amarezze, e vestito come il ragazzo di un college. Sai quei tipi svelti,
sportivi, che giocano a baseball e fanno l’amore nelle automobili. Pullover
nocciola, con la tasca di cuoio all’altezza del cuore, pantaloni in velluto a
coste nocciola, un po’ stretti, scarpe di camoscio con la gomma sotto. Non
dimostra davvero i 44 anni che ha. Per ritrovarli, quei 44 anni, deve andare
verso la finestra dove la luce si abbatte spietata sul viso e schiaffeggia
quegli occhi lucidi, dolorosi, quelle guance scarne, appassite, la pelle tesa
agli zigomi fino a rivelare il suo teschio. Per la stanchezza, suppongo. La
notte scappa agli inviti e se ne va solo nelle strade più cupe di Harlem, di
Greenwich Village, di Brooklyn, oppure al porto, nei bar dove non entra nemmeno
la polizia, cercando l’America sporca infelice violenta che si addice ai suoi
problemi, i suoi gusti, e all’albergo in Manhattan torna che è l’alba: con le
palpebre gonfie, il corpo indolenzito dalla sorpresa d’essere vivo. Siamo in
molti a pensare che se non la smette ce lo troviamo con una pallottola in cuore
o con la gola tagliata: ma è pazzo a girare così per New York? È a New York da
dieci giorni. È venuto per il festival cinematografico, vi davano due dei suoi
film. Sono proprio curiosa di saper se l’America piace a questo marxista
convinto, a questo cristiano arrabbiato, insomma a Pasolini. «Dieci giorni son
pochi per dare un giudizio, è ben vero, ma Orson Welles una volta m’ha detto
che per capire un paese ci vogliono dieci giorni o dieci anni: all’undicesimo
giorno ti abitui e non vedi più nulla.» All’undicesimo giorno, domani, riparte.
L’ho pregato per questo di venire da me a bere un drink. «Whisky?» gli chiedo.
«Birra? Cognac?» «Coca-cola», risponde. La finestra s’apre lungo una strada di
grattacieli, uno accanto all’altro, uno dopo l’altro, dall’East River
all'Hudson. Ti gira la testa a guardarli, ti senti in trappola come una bestia
che ha sete di verde. O di silenzio. Entra, dal vetro socchiuso, l’inferno:
brontolar di motori, squillare di clacson, martellare di perforatrici, sirene.
La città ha acceso i termosifoni e la polvere nera ti si attacca perfino alle
ciglia, rendendoti cieco. Piove, è una di quelle giornate in cui tutto ti
irrita, ti nega entusiasmo. Ma lui beve con gusto la sua Coca-cola e d’un
tratto esclama: «Vorrei aver 18 anni per vivere tutta una vita quaggiù».
«Quaggiù?! A New York?» «È una città magica, travolgente, bellissima. Una di
quelle città fortunate che hanno la grazia. Come certi poeti che ogniqualvolta
scrivono un verso fanno una bella poesia. Mi dispiace non esser venuto qui
molto prima, venti o trent’anni fa, per restarci. Non mi era mai successo
conoscendo un paese. Fuorché in Africa, forse. Ma in Africa vorrei andare e
restare per non ammazzarmi. L’Africa è come una droga che prendi per non
ammazzarti, una evasione. New York non è un’evasione: e un impegno, una guerra.
Ti mette addosso la voglia di fare, affrontare, cambiare: ti piace come le cose
che piacciono, ecco, a 20 anni. Lo capii appena arrivato. Arrivai da Montreal,
con il treno. Scesi a un’enorme stazione affogata nel buio, una sotterranea.
Non c’eran facchini e la mia valigia pesava. Eppure andavo come se fosse
leggera. Mi muovevo verso una luce accecante, in fondo al tunnel c’era una luce
accecante, e quando fui fuori la città mi aggredì come un’apparizione.
Gerusalemme che appare agli occhi del Crociato. Non mi sentivo straniero,
imparai subito a girare le strade neanche ci fossi nato: eppure non la
riconoscevo. Perché nessuno ha mai rappresentato New York. Non l’ha
rappresentata la letteratura: a parte le vignette di Arcibaldo e Petronilla, su
New York esistono solo le poesie di Ginsberg. Non l’ha rappresentata la
pittura: non esistono quadri di New York. Non l’ha rappresentata il cinema
perché... Non lo so. Forse non è cinematografabile. Da lontano è come le
Dolomiti, troppo fotogenica, troppo meravigliosa, e dà fastidio. Da vicino, da
dentro, non si vede: l’obiettivo non riesce a contenere l’inizio e la fine di
un grattacielo. Ma non è solo la sua bellezza fisica che conta. E la sua
gioventù. È una città di giovani, la città meno crepuscolare che abbia mai
visto. E quanto sono eleganti, i giovani, qui.» «Eleganti?!» «Hanno un gusto
favoloso: guarda come sono vestiti. Nel modo più sincero, più anticonformista
possibile. Non gliene importa nulla delle regole piccolo-borghesi o popolari.
Quei maglioni vistosi, quei giubbotti da poco prezzo, quei colori incredibili.
Non si vestono mica, si mettono in maschera: come quando da piccola ti mettevi
la palandrana della nonna. E così mascherati se ne vanno, orgogliosi, coscienti
della loro eleganza che non è mai un’eleganza mitica o ingenua. Ti vien voglia
di imitarli e magari li imiti perché dove puoi vestirti così? A Roma? A Milano?
A Parigi? Io là ho sempre paura che la gente si volti, mi guardi. Qui non ho
alcun complesso, posso andarmene vestito come voglio, senza che nessuno si
volti e mi guardi. Qui invece nessuno ti turba con la sua curiosità. Ieri sulla
Quarantacinquesima ho visto un uomo che stava morendo. In mano aveva un
pacchetto: l’ha fissato e poi l’ha scaraventato con una tale violenza che il
pacchetto s’è rotto. Chissà che c’era dentro. Dopo s’è appoggiato al muro, ha
messo la testa sull’avambraccio, è scivolato piano piano per terra ed è rimasto
li a piangere. Anzi a morire. Senza che nessuno si fermasse a guardarlo,
neanche per offrirgli un bicchier d’acqua, un aiuto. La sera avanti, poco
lontano dal Metropolitan, ho visto un vecchio disteso sul marciapiede: coperto
da un plaid. Accanto gli stava un ragazzo, bello, elegante come dici tu: scarpe
di cuoio perfetto, calzini leggeri, pantaloni ben tagliati, un pullover
favoloso. Il vecchio stringeva sul petto la mano del giovane e il suo volto era
bianco, già levigato dalla morte. La gente passava e non si fermava, qualcuno
rideva. Ma è male questo? O non è male il nostro fermarsi a curiosare? Non è
detto che il loro silenzio sia mancanza di pietà, forse è una forma superiore
di pietà. La pietà di non avvicinarsi, non curiosare...» L’America è proprio
una donna fatale, seduce chiunque. Non ho ancora conosciuto un comunista che
sbarcando quaggiù non abbia perso la testa. Arrivano colmi di ostilità, preconcetti,
magari disprezzo, e subito cadono colpiti dalla Rivelazione, la Grazia. Tutto
gli va bene, gli piace: ripartono innamorati, con le lacrime agli occhi. Sì o
no, Pasolini? Lui scuote le spalle, sdegnoso. «Io sono un marxista
indipendente, non ho mai chiesto l’iscrizione al partito, e dell’America sono
innamorato fin da ragazzo. Perché, non lo so bene. La letteratura americana,
tanto per fare un esempio, non mi è mai piaciuta. Non mi piace Hemingway, né
Steinbeck, pochissimo Faulkner; da Melville salto ad Allen Ginsberg.
L’establishment americano non ha mai potuto conciliarsi, ovvio, con il mio
credo marxista. E allora? Il cinema, forse. Tutta la mia gioventù è stata
affascinata dai film americani, cioè da un’America violenta, brutale. Ma non è
questa America che ho ritrovato: è un’America giovane, disperata, idealista.
V’è in loro un gran pragmatismo e allo stesso tempo un tale idealismo. Non sono
mai cinici, scettici, come lo siamo noi. Non sono mai qualunquisti, realisti:
vivono sempre nel sogno e devono idealizzare ogni cosa. Anche i ricchi, anche
quelli che hanno nelle mani il potere. Il vero momento rivoluzionario di tutta
la Terra non è in Cina, non è in Russia: è in America. Mi spiego? Vai a Mosca,
vai a Praga, vai a Budapest, e avverti che la rivoluzione è fallita: il
socialismo ha messo al potere una classe di dirigenti e l’operaio non è padrone
del proprio destino. Vai in Francia, in Italia, e ti accorgi che il comunista
europeo è un uomo vuoto. Vieni in America e scopri la sinistra più bella che un
marxista, oggi, possa scoprire. Ho conosciuto i giovani dello Sncc [Student
Non-violent Coordinating Committee, ndc], sai gli studenti che vanno nel sud a
organizzare i negri. Fanno venire in mente i primi cristiani, v’è in loro la
stessa assolutezza per cui Cristo diceva al giovane ricco: “Per venire con me
devi abbandonar tutto, chi ama il padre e la madre odia me”. Non sono comunisti
né anticomunisti, sono mistici della democrazia: la loro rivoluzione consiste
nel portare la democrazia alle estreme e quasi folli conseguenze. M’è venuta
un’idea, conoscendoli: ambientare in America il mio film su san Paolo. Voglio
trasferire l’intera azione da Roma a New York, situandola ai tempi nostri ma
senza cambiar nulla. Mi spiego? Restando fedelissimo alle sue lettere. New York
ha molte analogie con l’antica Roma di cui parla san Paolo. La corruzione, le
clientele, il problema dei negri, dei drogati. E a tutto questo san Paolo dava
una risposta santa, cioè scandalosa, come gli Sncc. Alle sette ha un
appuntamento con Herbert Blau, il direttore teatrale del Lincoln Center, che lo
ha invitato a cena. Non si trovano taxi a quest’ora e così andiamo a piedi.
Cade una pioggia sottile, esasperante. Ma lui cammina senza sentirla, o
apprezzandola forse, e ripete vedi le case di Arcibaldo e Petronilla, in fondo
è come tornare fanciulli. Gli è quasi sparita dagli occhi quella tristezza
gonfia di mille amarezze. «L’aspetto più importante di questa città è la
miseria.» «Miseria?! A New York?!» «Sì. Lo stesso tipo di miseria, o povertà,
che si trova nelle ex colonie divenute indipendenti da poco. Lo stesso tipo di
povertà che trovi a Calcutta, a Bombay, a Casablanca. Mi spiego? Non una
miseria economica, la miseria di chi non ha da mangiare: una miseria, ecco,
psicologica. Quella sporcizia diffusa, quella provvisorietà. Le strade male
asfaltate che quando piove si riempiono di gore. I muri neri o marroni,
costruiti in fretta per esser buttati giù in fretta. E mai un angolo tirato a
lucido, destinato a durare. C’è anche Park Avenue, siamo d’accordo, ci sono gli
splendidi grattacieli di vetro: ma quelle son le piramidi. Esser qui oggi è
come trovarsi in Egitto quando gli schiavi costruivano le piramidi. Sai, non è
mica detto che gli schiavi in Egitto vivessero male. Magari erano allegri, nella
disperazione, e la sera andavano a spasso, bevevano... Non c’entra. L’aspetto
importante resta questa miseria da ex colonia, da sottoproletariato.»
«Sottoproletariato? A New York?» «Sicuro. V’è in tutti le stigmate della
medesima origine sottoproletaria: a colpo d’occhio non la vedi mica la
differenza di classe. Come a Mosca quando cammini pensando che son tutti
uguali. Naturalmente la differenza esiste ma non se ne rendono conto, non ce ne
rendiamo conto. E lo sai perché? Perché non v’è in loro la coscienza di classe.
Per uno che vien dall’Italia lo smarrimento è più fondo che in Africa, in
India. Voglio dire che entri a Calcutta, a Karthum, ed entri nel cuore di una
razza, di un contesto sociale: la classe operaia, borghese, piccolo-borghese, e
ciascuna con la sua coscienza di esistere. Entri a New York e cosa trovi? Un
fuoco d’artificio di razze assimilate e rese analoghe dallo stesso sistema, dal
medesimo fondo: il sottoproletariato. Guarda l’operaio americano, questa
mescolanza mostruosa e affascinante di sottoproletariato e di piccola
borghesia. Non esiste l’operaio in quanto tale perché non esiste in lui la
coscienza della classe operaia. Una voragine. Ma ovunque ti affacci, in
America, in un’anima come in una strada come in un ambiente, ti affacci su una
voragine. Quasi tu ti sporgessi da un grattacielo. Ciò è bene, ciò è male? Non
so, mi sento confuso. In Europa mi sembrerebbe negativo, qui no. Ammiro il
momento rivoluzionario americano, ovvio che il mio cuore è per il povero negro
o il povero calabrese, e contemporaneamente provo rispetto per l’establishment,
il sistema americano... Devo tornare, devo approfondire.» Il ristorante dove
incontriamo Herbert Blau è famoso per le aragoste alla griglia. Cena? Aragoste?
Pasolini esce come un sonnambulo dal dedalo delle sue confusioni e ordina un
bicchiere di latte, una macedonia di frutta ma senza le arance. È afflitto da
un’ulcera, dovrebbe farsi operare, si nutre come un bebè. Parlando di teatro,
progetti, Blau lo fissa un po’ sbalordito: questo rivoluzionario che si nutre
come un bebè. Si saluteranno presto, reciprocamente annoiati. Conclusa la cena
Blau lo ha accompagnato dentro il Lincoln Center, a vedere le prove di una
commedia in costume. Ma a Pasolini non importa nulla delle commedie in costume,
dell’apparato elettronico che sposta in pochi secondi le scene, gira il
palcoscenico, alza la platea: nel suo mondo non c’è posto per simili
meraviglie. Come non c’è posto per i grattacieli di vetro, Park Avenue, un
razzo che parte, il trapianto chirurgico di un cuore vivo: l’America bella,
pulita, comoda che piace a chi spera nel Paradiso. Come Rimbaud (o certi
martiri) lui vuol sempre tornare all’inferno, ai quartieri dove si rischia un
colpo di rivoltella nel cuore, incontri tragici e magari perversi, la
punizione, il Greenwich Village come glielo descrisse Elsa Morante, Harlem come
l’ha visto ieri sera ed è stata una bellissima sera. Gli presentarono un
sindacalista negro, di estrema sinistra, sai quelli che non accettano il
sistema della non-violenza propagandato da Martin Luther King, e son pronti ad
uccidere. Il sindacalista lo portò a casa di un operaio caduto dal
quarantaseiesimo al quarantaduesimo piano dove restò appeso miracolosamente ad
un filo. L’operaio era un vecchio negro, disteso in un letto e rideva felice,
felice, ed era così commovente. D’un tratto mi saluta, impaziente, una stretta
leggera di mano, e se ne va tutto solo nel buio. Oggi parte ed ha molte cose da
fare: anzitutto posar per un tale che ha molto insistito e gli pare si chiami Avalon.
«Dick Avedon?» «Sì, qualcosa del genere.» «Non sai chi è Dick Avedon?» «No, chi
è?» «Forse il più grande fotografo che esista in America, senza dubbio uno dei
più grandi nel mondo.» «Ah, sì?» Avedon lo ha pregato di venire al suo studio
verso le undici ma lui è giunto in ritardo perché sulle scale c’era un
vagabondo ubriaco dall’alba, e un vagabondo ubriaco dall’alba vale cento
fotografie di Avedon. L’ascoltava con pazienza materna, dolcezza, prima di
lasciarlo gli ha dato non so quanti dollari, e certo ora guarda con meno
interesse la immensa istantanea che copre una intera parete dello studio
Avedon: Charlie Chaplin ritratto come un demonio, gli indici e i mignoli ritti
sopra le tempie a mo’ di corna o forconi. «La scattai l’ultimo giorno che passò
negli Stati Uniti», spiega Avedon, «poche ore prima che gli partisse la nave
diretta in Europa. Venne qui e...» - Ma a Pasolini preme più la storia di altre
fotografie: questo ragazzo negro, ad esempio, che morì di botte per essere
stato aggredito dal Ku Klux Klan. O questo mulatto che al Parlamento fu eletto
due volte ma non riuscì mai ad entrarci perché è contro la guerra in Vietnam. O
questo Allen Ginsberg che posa nudo, coperto solo dalla sua barba e i suoi
peli, e lo induce a una altra dichiarazione d’amore: «Gli intellettuali
americani, capisci. Magari son pieni di contraddizioni; incontri un allievo di
Morris che ha dato la laurea sulla poesia del Petrarca, discute di semeiotica e
poi incontri due studentesse che ignorano perfino Apollinaire o Rimbaud. Quali
sono i poeti che preferisce, ti chiedono. Rimbaud, rispondi, Apollinaire,
Machado, Kavafis. Ti guardano cieche. Che Kavafis non lo conoscano, passi. Per
Machado è già grave, per Apollinaire è assurdo, per Rimbaud addirittura
scandaloso. Però hanno un tale rispetto per la cultura! Un rispetto pieno di
timore, umiltà: è una gran dote. Considera gli italiani: sono sempre padroni
del sapere, anche quando sono ignoranti. Non c’è mai un attimo di timidezza,
negli italiani, verso il sapere. Un tipo come Umberto Eco, ad esempio. Conosce
tutto lo scibile e te lo vomita in faccia con l’aria più indifferente: è come
se tu ascoltassi un robot. Un americano erudito come Umberto Eco è un uomo
umile, invece, non si considera mai padrone della sua sapienza, è quasi spaventato
dalla sua cultura. Ciò è giusto, mi piace...». E intanto Avedon scatta foto che
suppongo destinate alle frivole lettrici di «Vogue». Che scena, vale quella del
Village. Al Village ci va subito dopo per comprare i pantaloni e i giubbotti
che trova così eleganti e che a Roma non indosserà mai: ossessionato com’è dal
complesso d’esser riconosciuto, criticato, guardato. Lo attrae soprattutto una
certa camicia che è la copia esatta di quelle in uso nelle prigioni. Sul
taschino sinistro c’è scritto: «Prigione di Stato, galeotto Numero 3678». La
sta provando, sedotto, quando all’angolo della Decima Avenue scorge una
dimostrazione in favore della guerra nel Vietnam. Uomini e donne passano cupi
con grandi cartelli dove è scarabocchiato: «Bombardate Hanoi»; qualcuno ha un
distintivo che dice: «Ammazzateli tutti, quei rossi». Ed ecco che un’automobile
arriva, ne scendo due giovanotti e una ragazza bionda in calzoni. La ragazza ha
una chitarra. Si appoggia al cofano dell’automobile, mentre i due giovanotti le
si mettono ai lati, e incomincia a suonare qualcosa di triste. Poi, insieme,
tutti e tre attaccano una canzone di protesta. Continueranno finché gli altri
continueranno a sfilare coi loro cartelli: e non un insulto, un gesto di
ostilità. Pasolini resta fermo a fissarli, con la sua camicia da galeotto, i
suoi occhi sono umidi, buoni, quando sussurra: «Questa è la cosa più bella che
ho visto nella mia vita. Questa è una cosa che non dimenticherò finché vivo.
Devo tornare, devo star qui anche se non ho più 18 anni. Quanto mi dispiace
partire, mi sento derubato. Mi sento come un bambino di fronte a una torta
tutta da mangiare, una torta di tanti strati, e il bambino non sa quale stato
gli piacerà di più, sa solo che vuole, che deve mangiarli tutti. Uno ad uno. E
nello stesso momento in cui sta per addentare la torta, gliela portano via». È
l’istantanea di un marxista a New York. Fonte : "Pagine corsare"
Ritrovo Pasolini solo a tratti, così come è mistificato dalla Fallaci, il cui nome da solo contiene il travisamento di ogni cosa, a vantaggio dell'idolatria verso gli Usa. Suona falso. Scusami Franco, ma ho un pregiudizio verso questa inutile vanitosa, che poi non è tale (il pregiudizio), visto che mi è capitato di leggerla (non tutto, per carità)ed ogni volta provo lo stesso senso di fastidio. E' evidente l'assoluta superficialità con cui descrive Pasolini attraverso banali cliché. Quando ci vediamo magari mi spieghi. Forse sono stato io troppo superficiale. Un abbraccio, come sempre. Fabrizio
RispondiEliminaCaro Fab, se non ti fermi alle parole e ai pregiudizi della Fallaci ( che non piacciano neppure a me!), con un pò di attenzione troverai anche le parole dell'autentico Pasolini.
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