Il libro di Walter Benjamin, di cui Il Sole 24 ore di ieri ha pubblicato l’estratto che segue, si intitola Aprendo le casse della mia biblioteca. Discorso sul collezionismo (traduzione di Elisabetta Dell’Anna Ciancia, pagg. 36, €22,00) edito da Henry Beyle nella collana «Piccola Biblioteca degli oggetti letterari». È tirato in 575 copie numerate su carta Zerkall Biitten e impresso con caratteri Garamond monotype corpo 12 (formato cm 13,50 per 19,50). È una raffinata strenna per bibliofili, oltreché un libro di godibilissima lettura.
Walter Benjamin - Faccio ordine
tra i miei libri
Sto
aprendo le casse della mia biblioteca. Già. Dunque non è ancora disposta sugli
scaffali, ancora non ravvolge la lieve noia dell’ordine. Né io posso incedere
lungo le sue file schierate, per passarle in rivista al cospetto di un benevolo
uditorio. Lorsignori non hanno a temere tutto questo. Devo pregarli di seguirmi
nel disordine delle casse aperte, nell’aria satura di polvere di legno, sul
pavimento coperto di brandelli di carta, tra le pile di volumi appena riportati
alla luce dopo due anni di tenebra, per poter in qualche misura condividere fin
dall’origine lo stato d’animo, niente affatto elegiaco, teso e ansioso
piuttosto, che essi suscitano in un autentico collezionista. Poiché tale è
colui che a lorsignori parla – tutto sommato non parlando d’altro che di sé
stesso. Non sarebbe forse da presuntuosi enumerare qui, ostentando un’apparente
obiettività e spassionatezza, gli esemplari o le sezioni più importanti di una
biblioteca, o esporre la storia del suo formarsi, o addirittura la sua utilità
per lo scrittore?
Io,
comunque, con le parole che seguono miro a qualcosa di più scoperto, di più
tangibile: quel che mi sta a cuore è consentire a lorsignori di gettare uno
sguardo dentro il rapporto che un collezionista ha con le sue raccolte, uno
sguardo dentro il collezionismo, più che dentro una collezione. Che per fare
ciò io scelga di basarmi su un esame delle diverse modalità di acquisizione dei
libri è del tutto arbitrario.
Un
tale criterio, come qualunque altro, è solo un argine contro la piena dei
ricordi che si riversa su qualsiasi collezionista quando si occupi dei suoi
tesori. Se ogni passione, infatti, confina con il caos, quella del
collezionismo confina con il caos dei ricordi. Ma dirò di più: caso e destino,
che colorano ai miei occhi il passato, sono tangibilmente presenti anche
nell’abituale confusione di questi libri. Cos’altro è infatti, questa raccolta,
se non un disordine in cui l’abitudine si è talmente ambientata da farlo
apparire ordine? Loro avranno già sentito di persone che si sono ammalate per
aver perduto i loro libri, di altre che per acquisirli si sono macchiate di
crimini. Qualsiasi ordine è, proprio in questi ambiti, null’altro che lo stare
sospesi sopra un abisso. «La sola conoscenza certa» ha detto Anatole France
«è quella dell’anno di pubblicazione e del formato dei libri». In effetti,
se esiste qualcosa di simmetricamente opposto all’assoluta assenza di regole
che caratterizza una biblioteca, è proprio il rigore del suo catalogo.
In tal
modo l’esistenza del collezionista si colloca nella costante tensione
dialettica tra i poli del disordine e dell’ordine.
Ovviamente
essa è legata anche a molto altro: a un rapporto oltremodo enigmatico con la
proprietà, sul quale più avanti bisognerà ancora spendere qualche parola. E
poi: a un rapporto con gli oggetti che non ne mette in primo piano il valore
funzionale, e dunque la loro utilità o fruibilità, ma li studia e li ama in
quanto scena, teatro del loro proprio destino. Quel che più profondamente
affascina il collezionista è collocare il nuovo acquisto dentro una sfera
magica in cui, mentre è percorso dall’ultimo brivido, il brivido del venire
acquisito, l’oggetto si immobilizza. Ogni ricordo, pensiero, consapevolezza
diventa zoccolo, cornice, piedistallo, cella del nuovo tesoro. Epoca, luogo,
bottega, precedente proprietario – tutto questo il vero collezionista lo vede
confluire, per ogni pezzo della propria collezione, in una magica enciclopedia
la cui intima essenza è il destino di quel suo oggetto.
Qui
dunque, in questo spazio conchiuso, è possibile immaginare come i grandi
fisiognomi – e i collezionisti sono i fisiognomi del mondo degli oggetti –
diventino veggenti Basta osservare come un collezionista maneggia gli oggetti
della sua vetrina. Non appena ne prende in mano uno, il suo sguardo ispirato
sembra trapassare l’oggetto e perdersi nelle sue lontananze. Fin qui il lato
magico del collezionista, potrei dire: la sua visione di vegliardo. Habent
sua fata libelli era forse concepito come un motto sui libri in generale.
I libri – dunque La Divina Commedia oppure l’Etica di Spinoza o L’origine delle
specie – hanno i loro destini. Il bibliofilo invece interpreta in modo diverso
questo detto latino. Per lui ad avere i loro destini non sono tanto i libri in
sé quanto i singoli esemplari E dal suo punto di vista il destino più rilevante
del singolo esemplare è quello di imbattersi in lui, nella sua collezione. Non
esagero dicendo: per il vero bibliofilo acquisire un vecchio libro è farlo
rinascere. E qui sta invece la visione del fanciullo, che nel collezionista si
intreccia con quella del vegliardo. I fanciulli infatti posseggono, quale
proteiforme pratica mai abbandonata, la facoltà di rigenerare l’esistenza. In
loro, nei fanciulli, il collezionare è soltanto una delle possibili procedure
di rigenerazione, un’altra è il colorare gli oggetti, un’altra ancora il
ritagliare, un’altra il decalcare e così via lungo tutta la scala delle
modalità infantili di appropriazione della realtà, che va dall’afferrare su su
fino al nominare. Rigenerare il vecchio mondo – ecco l’istinto più profondo che
sta alla base del desiderio del collezionista di acquisire nuovi pezzi, e per
questo il collezionista di vecchi libri è più vicino alle scaturigini del
collezionismo di quanto non sia chi si interessa alle novità librarie. E ora
qualche parola su come i libri giungano a varcare la soglia di una collezione,
a divenire proprietà di un collezionista, insomma: qualcosa sulla storia della
loro acquisizione. (…)
Degli
acquisti più importanti solo una parte, ovviamente, passa attraverso la visita
a un libraio antiquario. I cataloghi svolgono un ruolo molto più considerevole.
E per quanto l’acquirente conosca bene il libro che ordina su catalogo: quel
preciso esemplare resta sempre una sorpresa e l’ordinazione conserva una dose
di azzardo. Vi sono, accanto a cocenti delusioni, anche scoperte esaltanti.
Così ricordo di aver ordinato un giorno un libro con illustrazioni a colori per
la mia vecchia raccolta di libri per l’infanzia solo perché conteneva delle
fiabe di Albert Ludwig Grimm e il luogo di pubblicazione era Grimma, in
Turingia. E da Grimma giunse sì un libro di fiabe, pubblicato appunto da Albert
Ludwig Grimm. Ma quel libro di fiabe, nell’esemplare ora in mio possesso, era
con le sue sedici tavole l’unica testimonianza superstite degli esordi del
grande illustratore tedesco Lyser, vissuto ad Amburgo intorno alla metà del
secolo scorso. Bene, la mia istintiva reazione alla semplice assonanza tra i
due nomi aveva colto nel segno. Grazie a quell’incontro fortuito scoprii altri
lavori di Lyser, e precisamente un’opera, Linas Mahrchenbuch, rimasta
sconosciuta da tutti i suoi bibliografi, mentre meriterebbe un cenno ben più
esauriente di questo – il primo – che ne faccio qui io.
In
nessun caso l’acquisto di libri è solo questione di denaro o solo questione di
competenza. E perfino le due cose insieme non bastano per creare un’autentica
biblioteca, la quale ha sempre un che di impenetrabile e, nel contempo,
inconfondibile. Chi compera attraverso un catalogo deve possedere, in aggiunta
al denaro e alla competenza, anche un buon fiuto. Data e luogo di
pubblicazione, formato, precedente proprietario, copertina, e così via, tutte
queste cose devono parlargli e non solo prese aridamente in sé e per sé: devono
essere in consonanza tra loro, e dall’armonia e dalla nitidezza di questa
consonanza il collezionista deve poter riconoscere se un libro gli si confà o
no Altre ancora sono le capacità che gli richiede una vendita all’asta. Al
lettore di cataloghi deve parlare il libro da solo e tutt’al più, quando sia
nota la provenienza dell’esemplare, il suo ultimo proprietario. Chi voglia
intervenire a un’asta deve invece dividere la sua attenzione in parti uguali
tra il libro e i concorrenti, e per di più mantenere sufficiente sangue freddo
per evitare di accanirsi nella gara, come quotidianamente accade, e – dopo
l’ultimo rilancio dettato più dall’amor proprio che dal desiderio di
aggiudicarsi il libro – ritrovarsi infine solo, con un prezzo esorbitante da
pagare. In compenso va annoverato tra i ricordi più belli del collezionista il
momento in cui è accorso in aiuto di un libro mai forse sfiorato dai suoi
pensieri, e men che meno dai suoi desideri, solo perché l’infelice se ne stava
lì sulla piazza negletto e sconsolato; e, così come nelle fiabe delle Mille e
una notte il principe comprava una bella schiava, lo ha comprato per donargli
la libertà. Per il bibliofilo, infatti la vera libertà – per qualsiasi libro –
sta da qualche parte su uno dei suoi scaffali. (…)
Una
sola osservazione mi resterebbe da fare: il fenomeno del collezionismo,
perdendo il suo soggetto, perde anche il suo senso. Se rispetto alle collezioni
private quelle pubbliche possono essere più accettabili sotto il profilo
sociale e più utili dal punto di vista scientifico, è solo nelle prime che agli
oggetti è resa piena giustizia. Del resto so bene che per il tipo umano di cui
sto qui parlando, e che ai loro occhi ho rappresentato un po’ ex officio, sta
per spalancarsi la notte. Ma, come dice Hegel: è solo con le tenebre che la
civetta di Minerva spicca il volo. Solo nel suo estinguersi il collezionista
verrà compreso.
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