Novant'anni
fa nasceva Luciano Bianciardi, uno
dei pochi intellettuali critici che il sistema non è riuscito ad assorbire.
Insegnante e scrittore, anarchico e anticonformista, i suoi libri ci hanno
aiutato a capire l'Italia.
Marco Bucciantini - Bianciardi dove sei?
LUCIANO
BIANCIARDI AVEVA IL FEGATO AMARO E AVVELENATO, NON CI SAREBBE ARRIVATO A
NOVANT’ANNI: SAREBBERO STATI OGGI. S’è fermato un bel pezzo di strada prima, gli mancava
un mese a 49 anni, il 14 novembre del 1971. La bomba che voleva piazzare sotto
il Torracchione, per vendicare i minatori di Ribolla, morti per il grisù disse
il processo, crepati come sorci per calcolo e interesse del padrone, scrive
invece la storia, quella bomba lì gli era rimasta addosso. E la miccia bruciava
lenta, incendiata dalla sua vita impossibile, «agra», riassunse lui in un libro
che diventò un bel film di Lizzani, e un titolo che adesso è una frase fatta,
La vita agra, appunto.
Il
Bianciardi, un maremmano. Spesso capita di rimpiangere uno sguardo perduto, un
punto di vista genuino e diverso sulla realtà. Quante volte si è letto (si è
detto): «Ah, se ci fosse ancora Pasolini». O De André: ognuno può completare la
sua lista. Forse qualcosa di loro è rintracciabile, sono autori (anche idoli)
che hanno lasciato qualcosa dentro qualcuno. Sono occhi con cui è capitato di
«vedere». Con Bianciardi no: non ci sono eredi, né imitatori, neanche sbiaditi.
«Sopportatemi, duro ancora poco», disse a chi gli stava vicino, nei giorni che
correvano verso la morte. Durò poco.
La miniera
esplose il 4 maggio del 1954. Morirono 43 operai, Luciano li conosceva tutti.
Andava a sedersi fuori, li aspettava, ci parlava, portava libri da leggere
perché si era inventato era direttore della biblioteca Chelliana di Grosseto un
bus sgangherato per portare da leggere in campagna, e sollecitava il suo
assistente Aladino: «Mi raccomando, andiamo a occhio». Significava:
ricordiamoci a chi prestiamo i libri, perché compilare schede e fogli rientrava
in un senso pratico sconosciuto al Bianciardi. In questo modo sapeva di perdere
molti testi, ma ai rimproveri dell’amministrazione rispondeva alla Bianciardi:
«Meglio un libro rubato che un libro mai letto». I minatori, allora: «I miei
amici», diceva. Denunciava la loro condizione di povertà e di pericolo. Alcuni
di loro gli raccontarono della galleria in cui stavano scavando a fondo cieco,
«lo scriva sui giornali: corriamo il rischio di saltare tutti per aria». Questo
accadde.
E Bianciardi
va via, va a Milano, va a morire: ci metterà diciassette anni. Traduce (Miller,
Faulkner, tanti altri). Scrive, studia. S’incazza. Dissente. Beve, ma non si
corrompe. Trova il successo, cercandolo e odiandolo, perfino combattendolo,
rifiuta l’offerta di Montanelli di accasarsi al Corriere, si fa licenziare
dalla Feltrinelli, «perché strascicavo i piedi, e mi muovevo piano, mentre
altri erano fannulloni frenetici che riuscivano, non si sa come, a dare
l’impressione di star lavorando. Pensa, si prendono pure l’esaurimento
nervoso», ricordò un giorno alla figlia Luciana, che ne custodisce la memoria.
Ma la notorietà arriva comunque, con quel libro, La vita agra, con
l’intellettuale di provincia che va in città per far esplodere il Torracchione,
la sede della Montecatini, i padroni della miniera. Cercate questo libro fra
gli scaffali, o in libreria, leggetelo, e anche il Lavoro culturale: solo gli
autori così dis-integrati, gli intellettuali così puri possono essere (alla
lunga, ci vuole tempo) così profetici. Dentro quell’io narrante spudorato che è
lui certamente, ma è anche l’indefesso lavoratore dell’immateriale, al servizio
di un sistema imbattibile, c’è l’autobiografia di un qualunque trentenne di
oggi, costretto alla perdita dell’innocenza senza avere niente in cambio,
nemmeno la paga. È doloroso, Luciano: cerca compagni per la rivoluzione,
incontra persone che faticano a combinare il pranzo con la cena, indaffarate a
sopravvivere come formiche. Si addormenta, alla fine, annichilito, dopo aver
attraversato tutti i simboli del vivere comune, dalla famiglia al sesso, dal
lavoro ai soldi, senza trovarne il senso. Si rifugia nel bastione che la vita
non ha potuto distruggere: l’unica rivoluzione possibile è dentro, in interiore
homine. Ma non basta a curare l’esistenza.
Prima di
tutti tratteggiò il carrierismo politico, «arte della conquista e della
conservazione del potere». E pronosticò l’inevitabile cannibalismo consumista,
nei «bisogni indotti dalla pubblicità, con i padroni che decidono per noi cosa
dobbiamo desiderare». Questo è il Bianciardi che anticipa e che resta. Ma servirebbe
quello scomparso, quello introvabile, crudo e nudo, che odora di pastrano
sdrucito, di polvere e di carbone. Chi lo ha letto, lo sa, lo sa. Lui che
cammina per ballatoi e ciottolati, e spiega perché, come mai, che lima la
lingua e va avanti con il suo stile preciso, nuovo, fantasioso, davvero
anarchico, dolce e cinico, un cazzotto e un sorriso, un sogno e un’analisi, un
lessico allacciato alla manualità, un frasario che deve qualcosa a Gadda. Il
Bianciardi che consiglia ai bambini di leggere Diabolik, «dove il bene in
qualche modo vince sul male, dove la donna è forte», invece del libro Cuore,
«dove ti affezioni a personaggi che poi muoiono in guerra, straziati, e i
bambini poveri restano somari a vita, e quelli ricchi sono i più bravi della
classe». Straordinario.
Soffiava
vetriolo, ne aveva tanto in corpo da rovinarsi. Dopo La vita agra gli dissero:
insisti con il tema dell’incazzato, funziona e fai soldi. E lui scrisse un
romanzo del Risorgimento: adorava la storia e Garibaldi, il suo coraggio e la sua
energia democratica. Era un ribelle che camminando finiva sempre sulla strada
sbagliata, fuori campo, a concimare la sua penosa libertà. Da lì ci vedeva
meglio. La fedeltà a se stesso fu spietata: questo manca negli intellettuali
che oggi scelgono sempre una parte dove stare, un guadagno da proteggere. Che
confondono e truccano l’anticonformismo per il conflitto. Bianciardi non aveva
questo senso di colpa (l’unico: aver lasciato la Maremma). Non aveva bisogno di
negare l’adorazione per le gambe della Carrà, o l’interesse per il calcio: gli
ultimi due anni curò la rubrica delle lettere per il Guerin Sportivo di Gianni
Brera, quegli interventi sono diventati un libro di massime, Il fuorigioco mi
sta antipatico.
Era un
disturbo, era un’agenda con le date a caso, un trapezista che preferiva cadere,
perché non c’è verità nell’equilibrio, nell’ordine. Da vivo, era perfetto per
essere morto, per essere poi riscoperto, per essere rimpianto: tutte quelle
declinazioni dell’affetto che avrebbero chiesto ai suoi contemporanei il tempo,
la tolleranza, l’intelligenza, la curiosità. È un pensiero che fa rabbia, il
Bianciardi. È un conto aperto.
Un giorno
era seduto sulla scalinata della scuola elementare di Grosseto, in attesa che
dall’edificio dirimpetto, che ospitava il liceo classico dove aveva studiato e
insegnato, uscisse la figlia. Il bidello napoletano lo riconobbe e lo chiamò,
«professore, venite a sedervi di sopra, sui gradini ci sono le cacche di
piccione». Lui rispose: «Vedi Quirino, nella vita bisogna scegliere su quali
merde mettersi a sedere, io ho scelto questa».
(Da: L'Unità
del 14 dicembre 2012)
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