07 marzo 2023

SESSO E LEGGE IN JUDITH BUTLER

 



Esce oggi per Feltrinelli nella collana “Eredi”, il libro di Enrico Redaelli Judith Butler. Il sesso e la legge: un attraversamento delle opere e del pensiero della femminista, attivista Lgbtq+, intellettuale militante e filosofa statunitense. Di seguito un capitolo del libro ripreso da https://www.leparoleelecose.it/?p=46293

IL SESSO E LA LEGGE

Enrico Redaelli


Il classico modo di fraintendere e depotenziare il pensiero di Butler si articola in due mosse. La prima è schiacciare il suo pensiero sul costruttivismo, secondo cui tutto ciò che definiamo naturale è in realtà una costruzione culturale: uomo e donna sono convenzioni sociali, non vi sono essenze naturali, la nostra immagine della natura è storicamente determinata ecc. ecc. Un pensiero potenzialmente dinamitardo viene così agghindato come un discorso di buon senso perché sia presentabile nei salotti bene. La seconda mossa consiste nel chiedersi se possa esistere solo la cultura, se cioè ogni aspetto della vita umana, o addirittura la realtà nel suo complesso, possano essere ridotti a dei semplici costrutti socio-simbolici. La risposta è ovviamente negativa. Di qui l’inevitabile conclusione: certo, bisogna tenere in considerazione tanto la natura quanto la cultura. Altrimenti dove andremo a finire, signora mia. E la bomba Butler è così disinnescata.

 

Questo procedimento non solo prende ovviamente per buona la distinzione tra natura e cultura, basata su un dualismo da cui tutto il pensiero novecentesco (e invero anche molta filosofia precedente) ha in vario modo cercato di smarcarsi. Ma, per di più, ha già deciso che cos’è natura e che cos’è cultura. E ha così espunto il vero elemento problematico, su cui Butler torna costantemente in più occasioni e in particolare in Bodies that matter. Ciò che non è riducibile né alla natura né alla cultura, perché è il gesto che istituisce questa stessa distinzione. Quello che non è possibile agghindare in alcun modo essendo semmai proprio il gesto col quale l’umanità ha iniziato ad agghindarsi.

 

Per dirla con Bodies that matter, è vero che “i corpi contano” (la questione non è solo culturale) ma è anche vero che “i corpi fanno problema” (l’elemento non-culturale non è naturale, bensì paradossale). Dunque, non: la cultura non è tutto, perché c’è anche la natura. Bensì: la cultura/natura non è tutto, perché c’è anche la barra che le divide e che, dividendole, le istituisce nella loro differenza. Siccome c’è la barra, i corpi contano ma i conti non tornano. E il non tornare dei conti è ciò che impedisce di agghindare Butler e presentarla come costruttivista culturale, paladina del genere et similia, facendone una statuina rassicurante. Lasciando sparire la domanda “che cos’è reale?” sotto il tappeto.

 

Ci cascano in molti. Il classico discorso dello psicoanalista progressista, ad esempio, suona più o meno così: nell’identità sessuale conta tanto la natura (l’anatomia) quanto la cultura (il discorso dell’Altro, ossia l’ordine simbolico), ma ad essere decisivo è infine il modo in cui queste due vengono assunte dal soggetto attraverso una scelta. È la narrazione della psicoanalista Geneviève Morel, che scandisce il processo di sessuazione in tre tempi: il primo è quello delle macchine scientifiche che rivelano il sesso anatomico del feto; il secondo è quello del discorso dell’Altro che avvolge il corpo del neonato di attese, di idealizzazioni, di angosce, ecc.; il terzo è quello della scelta soggettiva del sesso, ossia il modo singolare con cui un soggetto, di solito in età adolescenziale, assume retroattivamente sia il dato anatomico sia il discorso dell’Altro come condizioni sullo sfondo delle quali articolare la propria identità sessuale[1]. Tutto ciò è molto edificante ma non privo di ingenuità.

 

Butler avrebbe buon gioco a mostrare che i primi due tempi sono uno. È vero che, nel primo momento, le macchine della scienza possono rilevare ancor prima dell’apparizione del corpo sessuato il sesso del feto. Ma le macchine che ci fanno lì? Esse sono parte del discorso dell’Altro e della sua “volontà di sapere”, da tale discorso nascono e al suo servizio operano. A che servirebbero le macchine se non appunto a definire il corpo incasellandolo negli schemi dell’ordine simbolico che preesiste loro e di cui esse sono un’estensione? Così come ciò che mangiamo non è naturale ma culturale (nei termini di Lévi-Strauss, non è crudo ma cotto), allo stesso modo nel nominare l’organo sessuale del neonato o nel rilevarlo tecnologicamente ancora prima della nascita non vi è nulla di naturale[2], essendo il nominato/rilevato, proprio in quanto nominato/rilevato, già passato nella griglia del simbolico (mai cruda anatomia, la corporeità umana è sempre “alla griglia”[3]).

 

Se, parafrasando Hegel con Lévi-Strauss, il simbolo cucina la cosa, non c’è per l’umano cosa che non sia cotta, cioè barrata, grigliata sulla barra del linguaggio. Sicché le macchine che rilevano il sesso del nascituro sono proprio quelle con cui lo si griglia e lo si mostra bello e pronto agli occhi sapienti del ginecologo. Tolta la barra in tutte le sue declinazioni, cioè le macchine, il discorso dell’Altro, i significanti, il linguaggio, quel che resterebbe (il gesto dell’ostetrica che, impossibilitata a parlare, indica i genitali del neonato) non sarebbe una “cruda” ostensione della differenza sessuale (“c’è questo anziché quello”) ma un’ineffabile epifania (un puro “c’è”). Come dicevamo, un pene da solo – un “crudo” pene – non significa nulla: nei termini della hegeliana certezza sensibile, vedo un questo ma non posso dire che cosa sia, né colgo la differenza col suo altro (niente barra, niente differenza, niente questo/quello, questo anziché quello). Perché significhi qualcosa è necessario che sia barrato, grigliato, che entri cioè in relazione con almeno un altro segno. È insomma necessario il linguaggio, la griglia su cui tutto cuoce – o, direbbe Lacan, il brodo in cui siamo da sempre in cottura. Appunto il discorso dell’Altro. Quella forma di sapere-potere che è sempre in gioco sin dall’inizio, prima ancora che ciascuno venga al mondo, nelle aspettative dei genitori come nelle macchine scientifiche. Di nuovo, non c’è biologia che non sia già da sempre biopolitica.

 

Dunque, è tutto una costruzione culturale? Per nulla. Contro il costruttivismo, Butler sottolinea che “esiste un ‘esterno’ a quanto è costruito dal discorso”, ma, aggiunge subito dopo, “non si tratta di un ‘fuori’ assoluto, un luogo ontologico che eccede o contrasta i confini del discorso”[4]. Di che si tratta, dunque?

Questo “fuori” non è la materia, giacché, osserva Butler con toni hegeliani, “porre una materialità all’esterno della lingua significa, comunque, porre quella materialità”[5]. Come direbbe Gilbert Simondon, la materia è sempre materia formata. Butler suggerisce il medesimo riferendosi al corpo: “non esiste rimando a un corpo puro che non sia allo stesso tempo un’ulteriore formazione di quel corpo”[6].

 

Non esiste insomma una materia non barrata, non grigliata, una “mera materia”. Né esiste un “mero corpo”, dunque neppure un “mero sesso”. O meglio, perché qualcosa di simile possa esistere è necessario un’operazione molto complessa. Non vi è nulla di più intellettuale e artificioso di un “mero pene” o di una “mera vulva”. Entrambi sono infatti frutto di una duplice operazione culturale (una doppia grigliatura): anzitutto l’esperienza umana di base, che è sempre un’esperienza sessualizzata (barrata, passata dalla griglia del linguaggio e dunque attraversata dallo scarto di parallasse); a questa si viene ad aggiungere, in seconda battuta, la sua de-sessualizzazione ad opera dello sguardo scientifico moderno (che non è assenza di griglia, ma un altro modo di grigliare, evolutosi dal primo).

 

Fino all’inizio della modernità, infatti, il cosmo di cui l’uomo fa esperienza è sempre stato un cosmo sessualizzato, barrato, visto alla luce della differenza sessuale. Basti pensare alle ierogamie e alle cosmologie antiche basate sulla dialettica tra un principio maschile e uno femminile (yin e yang, luce e oscurità, cielo e terra, ecc.), per non parlare delle molte lingue, compresa la nostra, che distribuiscono generi sessuali con grande prodigalità a destra e a manca, persino a cose non viventi come i sassi (maschi) e le pietre (femmine). In seguito il disincanto della scienza moderna ha prodotto qualcosa di completamente nuovo, la mera “realtà oggettiva”, privata di ogni fine e di ogni senso, ma anche di ogni sesso. L’oggetto della scienza sorge, per dirla con Kant, tramite la sospensione dei giudizi morali ed estetici, emerge cioè per sottrazione, sottoponendo la realtà a una robusta cura dimagrante. Come ha infatti osservato Husserl, la mossa che ha dato origine alla modernità scientifica, la galileiana matematizzazione della natura, è una potente operazione di astrazione che passa per lo svuotamento dei plena, ossia per la cancellazione di tutte le caratteristiche qualitative degli enti naturali (odore, sapore, colore, ecc.), sloggiate dall’ambito dell’oggetto ed esiliate in quello del soggetto[7]. In capo all’oggetto, ridotto all’osso, rimangono soltanto le caratteristiche quantitative (misura, peso, forma, ecc.). Husserl non ne fa parola ma è chiaro che questo moderno processo di astrazione ha prodotto anche una de-sessualizzazione della realtà: come le caratteristiche qualitative, che da reali diventano meramente soggettive, così anche Eros da forza cosmico-divina diviene una mera pulsione interiore della soggettività psicologica. Con la mathesis universalis, insomma, la scienza cancella per sempre le antiche concezioni sessualizzate del cosmo. Ma è appunto un effetto della griglia matematica attraverso cui il mondo è stato passato al setaccio. Non assenza di griglia, ma un altro modo di grigliare.

 

Non vi è perciò nulla di più astratto e artificioso di un mondo smagrito e de-sessualizzato quale quello che emerge dalla scienza moderna, frutto di un’operazione culturale estremamente raffinata. E infatti è soltanto agli occhi di uno scienziato moderno che può apparire qualcosa come un “mero pene”, che – lungi dal costituire un ritorno alla natura dopo la presunta sbornia sessomaniacale degli antichi – è piuttosto una rarità che confina sovente con la patologia se non addirittura con la morte: solo medici e anatomo-patologi hanno a che fare con “meri organi sessuali” (la cui artificiosità ha un tratto paradossale in quanto oggetti sessuali de-sessualizzati).

Pensando alla classica analogia freudiana tra cibo e sesso, viene qui in mente un paragone con l’esperienza occidentale del “mero pesce crudo”. Fino a qualche anno fa non vi era nulla di più artificioso, per un occidentale, della degustazione del sushi che, lungi dal costituire un ritorno alla natura, ossia all’esperienza selvaggia dell’animale, era semmai un’esperienza piuttosto raffinata: prima che divenisse familiare, il gusto sofisticato del crudo per un occidentale risiedeva anche nella piacevole trasgressione della nostra tradizionale norma culinaria che impone di mangiare solo carni e pesci cotti. È in gioco anche qui una duplice operazione culturale: l’abitudine alla cottura, anzitutto, cui si viene ad aggiungere, in seconda battuta, l’esperienza, almeno inizialmente insolita e un po’ esotica, di gustare del cibo non cotto.

 

Non vi è insomma nulla di più culturale dei vari “ritorni alla natura” fosse anche la “mera natura” o la “cruda natura”: queste operazioni politiche, turistiche o di marketing sono tutti buoni esempi dell’hegeliano presupposto posto (il passato costruito per differenza dal presente e proiettato indietro come se fosse sempre stato là)[8]. Vi rientra anche il “crudo pene” che, rilevato dalle raffinate macchine scientifiche, è un prodotto culturale tanto quanto le “crudités” uscite dall’altrettanto raffinata cucina di uno chef stellato: là c’è l’esperienza di una sessualizzazione cui è seguita una de-sessualizzazione, qua l’abitudine alla cottura cui è seguita una voluta e ricercata non-cottura. Non assenza di cucina, ma un altro modo di cucinare.

 

D’altronde, se fossimo dotati di “meri organi sessuali”, come gli animali, andremmo in giro nudi. Ma, come osserva Agamben, noi umani non siamo mai nudi, nemmeno quando siamo privi di vesti[9]. Lungi dall’essere “nudo e crudo” anche il nudista è sempre “cotto”, grigliato dalla barra del linguaggio, dunque invisibilmente vestito (e investito) dal desiderio e dalla sua conflittualità intrinseca. Non basta spogliarsi per “tornare alla natura”: la pratica del nudismo, tutt’altro che naturale è, di nuovo, l’effetto di una duplice operazione culturale. Se di solito andiamo in giro vestiti è perché i corpi contano ma i conti non tornano. O, in altre parole, perché nella nostra esperienza e percezione del corpo s’interpone già da sempre lo scarto di parallasse, cioè la differenza sessuale che, come un magnete, produce una distorsione conflittuale del campo. Sicché i nostri non sono mai “meri organi sessuali”, come se fossero oggetti neutri a cui siamo indifferenti considerandoli tutti alla pari sullo stesso piano, ma sono sempre sessi barrati, attraversati dalla differenza, concepibili come tali solo entro uno squilibrio costitutivo.

 

Così anche i nostri corpi non sono mai “meri corpi”, ma, come il femminismo ha sempre rimarcato, corpi sessuati, barrati dalla differenza, segnati dallo scarto di parallasse e dunque dalla conflittualità del desiderio. È solo per un’astrazione intellettuale che possiamo concepire un corpo umano sulla base delle sue mere funzioni biologiche come se fosse privo di sessualità, privo cioè di quello squilibrio irriducibile alle mere funzioni biologiche che la psicoanalisi ha chiamato pulsione[10].

 

[…]

 

In breve, più cerchiamo di sottrarre dalla corporeità gli effetti della barra, alla ricerca del “crudo corpo” privo di barrature, più in realtà stiamo reiterando la barra, producendo un corpo ancora più (o diversamente) barrato[11]. Così, più cerchiamo di sottrarre il genere dal sesso, alla ricerca del “mero sesso biologico”, più ci troviamo di fronte a un artificio, a un’astrazione culturale. In fondo, siamo di fronte allo stesso problema già illustrato da Lévi-Strauss nell’Introduzione a Le strutture elementari della parentela: si tratta di quel paradosso per cui, nel regno umano, la cultura è natura (la cultura è il tratto tipico, caratteristico, della natura umana) e la natura è cultura (ogni tentativo di sottrarre dall’uomo gli aspetti culturali per ricavarne la “mera natura” umana, ad esempio allevare un bambino senza le cure, le parole e gli insegnamenti dei genitori, produce risultati quanto mai artificiosi, che non si manifestano “naturalmente” presso alcuna popolazione umana)[12].

 

Detto altrimenti, la distorsione del campo è costitutiva dell’umano. Come suggerisce il coro dell’Antigone sofoclea nella lettura che ne dà Heidegger, l’uomo è straniero a casa propria[13]. Questa distorsione, questo squilibrio, questo tratto perturbante (unheimlich nel lessico heideggeriano) che struttura la vita umana sin dalla sua origine, è introdotto dalla barra: la barra che segna il funzionamento del linguaggio, la barra della castrazione simbolica, la barra della differenza sessuale, la barra di comando che porta con sé un eccesso inassimilabile. Sicché il perturbante (das Unheimlichkeit) è nell’uomo naturale, familiare (heimlich, l’opposto di unheimlich) e viceversa, ciò che è familiare è questa distorsione – come ha argutamente osservato Freud nel suo saggio Il perturbante, in tedesco il significato di heimlich si rovescia curiosamente nel suo opposto[14]. Ma se la distorsione è costitutiva, ogni tentativo di cancellarla non fa che aumentarla, rendendo ancora più innaturale e perturbante la caratteristica dimensione “naturalmente perturbante” (heimlich unheimlich) dell’umano.

 

Se ad esempio dovessimo lavorare solo ed esclusivamente per nutrirci, non significherebbe che abbiamo finalmente toccato il “fondo naturale” dell’uomo, al di là dei riti, dei significati simbolici e culturali che accompagnano ogni attività lavorativa umana, ma significherebbe che siamo stati ridotti a un livello subumano, abbassati a una condizione di mera sopravvivenza come i detenuti nei campi di concentramento. Non vorrebbe dire neppure che siamo finalmente tornati alla “condizione animale”, perché, ridotti a uno stato di mera necessità, subiremmo una crudeltà che agli animali è del tutto sconosciuta, quella bestialità che, come ha ben sottolineato Derrida, è propria ed esclusiva dell’uomo[15]. Uno stato di necessità – in tedesco Notstand, traducibile anche come “stato di eccezione” – è quello in cui l’uomo è ridotto a “nuda vita”, ma questa, come ampiamente mostrato da Agamben, lungi dall’essere qualcosa di naturale, è semmai il prodotto artificioso di una macchina politica, spesso dispotica[16]. Allo stesso modo, se facessimo sesso esclusivamente a scopi riproduttivi (come le ancelle di The handmade’s tale), senza alcun desiderio, non significherebbe che siamo “tornati alla natura”, ma vorrebbe dire che siamo ridotti a uno stato di necessità del tutto innaturale (come il regime totalitario, seguito a una crisi della fertilità umana, raccontato nel medesimo romanzo e messo in scena dalla serie tv). Ogni volta che l’uomo è ridotto alle sue mere funzioni biologiche è come se fosse stuprato. Non è un caso se i regimi politici che hanno perseguito la “vera” o “mera” natura umana sono quelli che hanno commesso i peggiori crimini contro l’umanità (id est, contro la natura umana): ogni tentativo di eliminare lo squilibrio, di cancellare l’heimlich unheimlich, quell’eccesso perturbante ma anche caratteristico di tutti gli aspetti della nostra vita (il godimento e il sostrato simbolico insiti nel lavorare, nel mangiare, nell’unirsi sessualmente, ecc.), produce un eccesso ancora più spaventoso.

Se non si può “tornare alla natura”, allora, di nuovo, è tutto cultura? No, la cosa strana è che non ci si può nemmeno attestare sulla cultura. E neppure su un misto dell’una e dell’altra. La questione è più complessa e non priva di paradossi. […]

 

Note

 

[1] Cfr. G. Morel, Ambiguités sexuelles. Sexuation et psychose, Anthropos, Paris 2000.

[2] Butler parla in merito di “effetto naturalizzato”: “La matrice delle relazioni di genere è precedente all’apparizione dell’‘umano’. Si pensi all’espressione medica che (nonostante la recente comparsa dell’ecografia) fa diventare il generico ‘bambino’ una ‘bambina’. Nella nominazione la bambina è ‘fatta bambina’, portata nel campo della lingua e delle parentele attraverso l’appellativo di genere. Ma il ‘far bambina’ non finisce qui. Al contrario, quella attribuzione originaria è ripetuta da diverse autorità e in diverse occasioni per rinforzare o contestare l’effetto naturalizzato. La nominazione è, allo stesso tempo, la definizione di un confine e anche la reiterata affermazione di una norma” (J. Butler, Corpi che contano, Feltrinelli, Milano 1996, p. 7).

[3] Nelle parole di Butler: “Non è più possibile considerare l’anatomia un referente stabile che viene, in qualche modo, valorizzato o significato sottoponendolo a uno schema immaginario. Al contrario, l’accessibilità stessa dell’anatomia dipende, in un certo modo, da questo schema e coincide con esso” (ivi, p. 59).

[4] Ibidem.

[5] J. Butler, Corpi che contano, cit., p. 61.

[6] Ivi, p. 10.

[7] Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1959), il Saggiatore, Milano 1961.

[8] Nei termini hegeliani con cui Butler si riferisce alla differenza sessuale, “ciò che è costruito precede necessariamente la costruzione; e tuttavia non possiamo avere accesso a questo momento antecedente se non attraverso la costruzione stessa” (J. Butler, Fare e disfare il genere, Mimesis, Milano 2014, p. 276).

[9] Cfr. G. Agamben, Nudità, Nottetempo, Roma 2009.

[10] Cfr. S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), BUR, Milano 2015.

[11] Nelle prime righe della Prefazione a Corpi che contano Butler dice di aver iniziato a scrivere questo libro cercando di concentrarsi sulla materialità del corpo (il “mero corpo”, per così dire) e scoprendo che essa rinviava sempre altrove, tanto


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