Per una critica delle evidenze: il femminismo materialista di Christine Delphy
di Marcella Farioli
È stato tradotto di recente da Deborah Ardilli il volume di Christine Delphy, L’ennemi principal. 1. Économie politique du patriarcat, Syllepse, Paris 1998 (Il nemico principale. 1. Economia politica del patriarcato, VandA, Milano 2022, pp. 323).
«…et puis je suis tombée sur Delphy et ce fut comme une révélation» (S. Chaperon, in «Autour du livre de Christine Delphy L’ennemi principal», Travail, genre et sociétés 4, 2000/2, p. 164)
«Come una rivelazione», «come inforcare un paio di lenti», «come una boccata di aria fresca»: la maggior parte delle lettrici di Christine Delphy sintetizza con espressioni di questa natura la forza argomentativa e l’effetto dirompente di sgretolamento delle “evidenze” relative ai rapporti sociali di sesso provocato dalle pagine della sociologa francese, esponente tra le più illustri del gruppo di studiose e militanti femministe fondatrici della rivista Questions féministes. A partire dagli anni Settanta il collettivo di Questions féministes, animato da donne della componente femminista radicale del Mouvement de liberation des femmes, elabora l’insieme di analisi e di strumenti teorici definiti da Delphy come “femminismo materialista”. Le basi materiali dell’oppressione delle donne sono al centro dell’analisi di queste studiose, che sviluppano, soprattutto in campo antropologico e sociologico, importanti analisi del patriarcato, dei meccanismi di oppressione e appropriazione delle donne attraverso il lavoro domestico, dello scambio sessuo-economico e infine, ben prima della teoria queer, del ruolo binarizzante dell’eteronormatività.
L’analisi di Delphy si fonda sull’estensione del metodo materialista al genere, che la porta a identificare due modi di produzione analiticamente distinti: al modo di produzione capitalista descritto da Marx si affianca un secondo modo di produzione, quello domestico (o patriarcale), che funziona fuori dal meccanismo del plusvalore ed è basato sulla cosiddetta “divisione diseguale” del lavoro domestico e sulla sua non-remunerazione. Con il termine “lavoro domestico” (travail domestique), Delphy designa non solo il lavoro familiare e di cura (travail ménager), ma anche il lavoro gratuito effettuato dalle donne nelle attività economiche del marito o del padre. Mentre il primo modo di produzione avvantaggia i capitalisti, il secondo avvantaggia gli uomini.
Questa eretica – e sovente contestata – applicazione dell’analisi marxiana ai rapporti sociali tra i sessi è declinata nei dieci articoli, del periodo 1970-1978, che compongono la raccolta L’ennemi principal 1, uscito in Gran Bretagna nel 1984 con il titolo di Close to Home, poi in Francia nel 1998 in una versione accresciuta, ed ora egregiamente curato ed tradotto per la prima volta in italiano da Deborah Ardilli per le edizioni VandA. Alla stessa Ardilli, storica del movimento femminista e studiosa di teoria politica, si deve l’illuminante introduzione – un saggio critico, più che un’introduzione – intitolata Istruzioni per una politica femminista dell’inimicizia.
Il volume si apre con l’articolo che da il nome all’intera raccolta, L’ennemi principal, uscito sulla rivista Partisans nel 1970: si tratta dell’unico scritto di Christine Delphy ad essere stato tradotto e pubblicato in Italia dalle femministe della seconda ondata, nel 1972, nel volume del collettivo Anabasi Donna è bello e, nello stesso anno, nella raccolta Per un movimento politico di liberazione della donna curata da Lidia Menapace. La circolazione di questo saggio fu esigua, in rapporto alla novità teorica di cui esso si faceva portatore; nemmeno le femministe del salario, che Delphy conosceva e criticava, ne fanno menzione. I suoi contenuti spiegano d’altronde questa censura, sia da parte delle correnti differenzialiste del movimento, sia da parte di approcci che, pur condividendo con le materialiste l’uso di strumenti analitici mutuati dal marxismo, attribuivano al solo capitalismo lo sfruttamento e l’oppressione delle donne.
Il titolo Il nemico principale allude a uno degli aspetti più dirompenti del pensiero della sociologa francese, particolarmente “disturbante” anche per la coscienza femminista contemporanea. «L’idea che la politica femminista, al pari di ogni di ogni altra lotta di liberazione» scrive Ardilli «debba porsi il problema di individuare una controparte (un antagonista storico, un “nemico principale”) oggi appare stravagante, antiquata, semplificatrice, oltre che insostenibile sul piano delle condotte personali e collettive». Al giorno d’oggi prevale infatti la tendenza postmodernista ad annacquare l’efficacia strutturante delle grandi divisioni sociali, compresa quella tra i sessi. Al contrario, Delphy utilizza, per definire il gruppo sociale degli uomini e quello delle donne, il concetto di “classe”: se per classe intendiamo un gruppo sociale identificato dall’identica posizione dei suoi componenti nell’insieme del sistema di produzione (una posizione definita innanzitutto in funzione del loro rapporto con le condizioni della produzione e con le altre classi), le donne costituiscono una classe, definita dalla loro posizione subordinata e sfruttata nell’ambito del mondo di produzione domestico. È la classe degli uomini ad esercitare sulla classe delle donne uno sfruttamento legato a questo modo di produzione, che si attua attraverso l’estorsione di lavoro gratuito, in assenza di salario e (in parte) al di fuori del mercato. La classe degli uomini trae beneficio da tale sfruttamento, che si intreccia strettamente a quello capitalistico, pur rimanendone analiticamente distinto; lo sfruttamento domestico condiziona la partecipazione diseguale di uomini e donne al mercato del lavoro e, viceversa, la diseguaglianza tra i sessi nel mercato del lavoro costituisce «un’incitazione oggettiva al matrimonio» (p. 36), ovvero all’ingresso nel rapporto di produzione domestico.
L’applicazione del metodo materialista al genere è uno tra gli aspetti teorici più rilevanti del pensiero di Delphy: esso risponde all’esigenza di spiegare ogni fatto sociale con altri fatti sociali e di collocare il dominio sociale al centro della riflessione. Mostrando come il metodo materialista possa essere usato per analizzare altri rapporti di oppressione oltre a quello capitalista, Delphy restituisce all’appropriazione delle donne la sua centralità, riscattandola dall’etichetta di “oppressione secondaria” conferitole dalle formazioni politiche anticapitaliste (Capitalismo, patriarcato e lotta delle donne, pp. 287-301). A tal proposito, Delphy rimarca l’asimmetria metodologica con cui il marxismo “ortodosso” si approccia alla cosiddetta “questione femminile”; esso, derogando dagli strumenti analitici materialisti che gli sono propri, esamina l’oppressione delle donne attraverso un approccio culturalista o addirittura naturalista.
Da questi presupposti teorici fondamentali deriva una serie di corollari, il primo dei quali è la demolizione dell’oleografica visione della famiglia come irenico luogo di condivisione di affetti e unità di interessi. Ed è proprio sulla famiglia come istituzione economica che Delphy si concentra in numerosi articoli contenuti nella raccolta, che traggono origine dai suoi studi sociologici sulla trasmissione del patrimonio nelle società rurali francesi contemporanee: sono proprio le ricerche sulla famiglia e l’osservazione della grande quantità di beni che si producono e si trasmettono in seno ad essa che permettono a Delphy di individuare e isolare analiticamente un sistema di produzione che fuoriesce dal mercato, e che non si spiega nei termini del valore-lavoro (Lavoro familiare o lavoro domestico?, pp. 82-99): «Il non-valore mercantile è caratteristico dell’economia familiare. Esso non segnala l’assenza di attività economica, ma la presenza di un’economia altra» (p. 32). La famiglia si rivela così un’istituzione economica non solo in quanto unità rispetto all’esterno, ma anche nel suo funzionamento interno: un organismo gerarchico i cui membri sono caratterizzati da interessi differenti e antagonistici (Famiglia e consumo, pp. 100-124; La trasmissione ereditaria, pp. 125-160). Il lavoro gratuito delle donne, sia quello familiare sia quello destinato al mercato, scompare tuttavia dall’orizzonte visibile: i bilanci nazionali calcolano il valore dell’autoconsumo in natura delle famiglie agricole ma non quello del lavoro domestico delle donne, mentre gli enti previdenziali permettono, come si constata anche oggi in Italia, una totale deregulation nell’utilizzo della “collaborazione familiare gratuita”, che, oltre a dar luogo all’evasione contributiva, avalla lo sfruttamento del lavoro gratuito delle donne.
La diseguaglianza nella famiglia è rimarcata anche nel saggio Matrimonio e divorzio (pp. 161-178) in cui Delphy argomenta impeccabilmente una tesi in apparenza paradossale, quella della solidarietà sostanziale tra due istituzioni formalmente antitetiche, il matrimonio e il divorzio: esse sarebbero strutturalmente volte a garantire la continuità dell’esonero maschile dai compiti del lavoro familiare e della cura dei figli. In Le donne negli studi sulla stratificazione (pp. 179-194), la sociologa mette in evidenza la grottesca forzatura sottesa agli studi sociologici sulla stratificazione sociale quanto alla classificazione delle donne: queste ultime, infatti, se disoccupate, vengono inserite d’ufficio nella classe del marito, fatto che non si verifica nel caso di uomini disoccupati. Si giunge così al paradosso per cui la moglie nullatenente di un proprietario di mezzi di produzione, la “moglie del borghese” di certa retorica anticapitalistica, figura nella classe sociale del coniuge. Il tenore di vita e il mantenimento discrezionalmente offerti dal marito vengono così assimilati alla proprietà di mezzi di produzione e di beni o a un salario regolato da norme contrattuali; l’alleanza matrimoniale viene confusa con l’appartenenza di classe. «In breve, le mogli vengono trattate come se detenessero una posizione alla stessa stregua del marito, mentre il procedimento tramite il quale vengono annesse alla classe del marito presuppone esattamente il contrario: la non titolarità di una posizione propria» (p. 156).
Il tema della paternalistica solidarietà maschile al movimento femminista, in particolare nelle formazioni politiche anticapitaliste, è affrontato da Delphy nello sferzante saggio I nostri amici e noi. Fondamenti nascosti di alcuni discorsi pseudo-femministi (pp. 195-246), in cui l’autrice ritorna sul mito de “la moglie del borghese” e sulle accuse di antifemminismo mosse dai “nostri amici” alle donne; nella seconda parte del saggio; un’analoga ironia pungente, in cui l’autorevolezza dell’argomentazione si coniuga con la ferocia della satira, caratterizza il saggio Protofemminismo e antifemminismo (pp. 247-286), in cui Delphy attacca il femminismo essenzialista che, basandosi su presupposti idealistici e naturalistici, finisce per tradursi in una forma di antifemminismo.
Cinquant’anni dopo l’apparizione del primo articolo della raccolta, le pagine di Delphy non hanno perso nulla della loro freschezza e della loro straordinaria capacita di interpretare la realtà. Al contrario, la lettura de Il nemico principale è particolarmente urgente – e in controtendenza – in un momento storico come quello attuale, segnato da un prepotente prevalere, in una parte non esigua del femminismo, degli approcci culturalisti: ai rapporti materiali si sostituiscono quelli simbolici e psicologici, ai concetti di oppressione e sfruttamento quelli di “stereotipi di genere”, la cultura sessista è considerata la causa, e non la conseguenza, dei rapporti di forza in atto. Dalle pagine dei giornali, nei social-media e persino nelle mobilitazioni femministe, si inneggia a una «rivoluzione culturale», a un mutamento dei costumi e delle mentalità che abbatta un patriarcato pensato nei termini di «sistema simbolico», «sostrato culturale», o come insieme di stereotipi e pregiudizi, astratto dai rapporti sociali materiali. A ciò si aggiunga quel femminismo ecumenico che, appropriandosi della vulgata dei gruppi mascolinisti secondo cui il patriarcato “opprime tutti e tutte”, oblitera l’esistenza e ancor più l’identità dei reali beneficiari dell’oppressione delle donne: disincarnando l’analisi dai rapporti sociali materiali, si simmetrizzano le le posizioni dei dominanti e delle dominate, cancellando la diversa collocazione della classe degli uomini e di quella delle donne nella struttura gerarchica della società patriarcale. Un metodo che condiziona l’approccio alla militanza e la strategia del movimento femminista e rinchiude l’analisi stessa dei rapporti sociali di sesso dentro una prigione teorica: «Se l’impulso al cambiamento va subordinato a una strategia che armonizzi gli interessi di uomini e donne, è essenziale rimuovere qualsiasi richiamo alle fonti della divisione sociale tra classi di sesso […]. Una volta disperso il nesso tra interessi materiali e obiettivi politici, ci si autorizza a credere che soltanto l’ignoranza del danno provocato a “tutti” permetta alla società di opprimere le donne» (Ardilli, pp. 12-13).
Ne Il nemico principale la riflessione teorica non è mai disgiunta da una profonda esigenza militante, che ci esorta a non perdere di vista la necessità di riportare l’analisi materialista al centro della pratica femminista e della lotta al patriarcato; un compito sempre arduo, perché, come ci ricorda Delphy (p. 218), «il pensiero idealista è l’ideologia dominante, che impregna tutta la nostra vita e i nostri concetti più elementari, mentre il punto di vista materialista non è mai acquisito in anticipo, ma deve essere sempre duramente conquistato».
Articolo ripreso da https://www.nazioneindiana.com/2024/02/03/per-una-critica-delle-evidenze-il-femminismo-materialista-di-christine-delphy/
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