Ci è capitato
recentemente di soggiornare brevemente a Budapest e Praga, città
vivacissime ormai pienamente inserite nei ritmi di vita frenetici
dell'Occidente, ma osservando meglio e soprattutto parlando con persone
non più giovani ci è parso di notare una tristezza di fondo diffusa, una
mancanza di aspettative, un grigiore dell'animo. La cosa ci ha
colpito, poi, leggendo il bel libro di Heda Margolius, moglie di un
esponente comunista impiccato negli anni '50 per tradimento, abbiamo
incominciato a capire come il crimine peggiore dello stalinismo sia
stato privare un popolo della speranza. Perchè senza speranza non
c'è vita, ma solo sopravvivenza.
Pietro Citati
Praga, anni ’50 le
vite spezzate di Heda e Rudolf
Nel 1945 in
Cecoslovacchia molti diventarono comunisti, come racconta Heda
Margolius Kovály in un bellissimo libro ( Sotto una stella crudele,
Adelphi, pagg. 216, euro 20), per una profonda disperazione nella
natura umana. Il Partito comunista divenne l’ideale assoluto. Non
era, in nessun modo, l’ideale. Nel partito erano entrati
collaborazionisti, truffatori, burocrati. Le onnipotenti portinaie
diventarono la spina dorsale del Partito: spiavano, ricattavano, come
segretarie delle cellule. I comunisti sostenevano che gli ideali
della Repubblica cecoslovacca prima della guerra, gli ideali
democratici e umanistici, erano un’illusione senza fondamento.
Nel febbraio 1948,
avvenne il colpo di stato comunista. Heda Kovály ebbe la sensazione
di brancolare nel buio: un buio doppiamente angoscioso, perché
abitava fuori di lei e dentro di lei. I confini vennero chiusi.
Cominciò uno spietato processo di collettivizzazione, che provocò
danni gravissimi all’agricoltura. La voce di Klement Gottwald
tuonava dagli altoparlanti. La polizia politica irrompeva nelle case,
arrestando bottegai e droghieri, i quali venivano rinchiusi in
carcere, senza sapere di cosa venissero accusati. Calò la cortina di
ferro. Il modello di stato era l’Unione sovietica.
I giornali dichiararono
che la lotta di classe si era intensificata: ma non c’era nulla da
temere, perché il Partito vegliava. Come in Unione sovietica, gli
arrestati dalla polizia confessavano quasi sempre, sebbene innocenti.
Il sospetto si diffuse; nessuno si fidava più di nessuno, perché il
nemico — si diceva — era anche dentro il Partito. Circa
cinquantamila cecoslovacchi finirono in carcere. Un mese dopo il
colpo di stato, il cadavere del ministro degli Esteri, Jan Masaryk,
venne trovato sul selciato sotto le finestre del ministero. Il
governo annunciò che si era suicidato per un attacco di depressione.
Era falso.
Heda e Rudolf Kovaly
Heda Kovály non si
iscrisse al Partito. Non le era mai piaciuto marciare a ranghi
serrati: non amava gli appelli e le folle, gli slogan urlati, la
parola “massa”. Trovò lavoro, come grafica, in una piccola casa
editrice. Il marito, Rudolf Margolius, lavorava all’Istituto per lo
Sviluppo industriale: era così preso dal suo lavoro che tornava a
casa la sera tardi, rimanendo a leggere fino a notte inoltrata.
Studiava economia. Seguiva un programma a favore di Israele, che si
interruppe presto. Tutto, attorno a lui, era Segreto e Segretissimo.
Diventò vice-ministro responsabile del Commercio con l’occidente.
Era comunista, ma senza fanatismi: convinto che presto gli arrestati
dalla polizia sarebbero tornati a casa. Ciò non avvenne. Diede le
dimissioni, che non furono accettate. La notte camminava su e giù
per la casa, mentre la moglie stava a letto, senza riuscire a
dormire, con gli occhi spalancati nel buio.
L’anniversario del
colpo di stato, il Febbraio Vittorioso, veniva festeggiato ogni anno.
Nel 1950 anche Heda Kovály fu invitata, insieme al marito, nel
Castello di Praga. La moglie del presidente, Marta Gottwaldová,
vestita di uno splendido abito verde con strascico, avanzava tra due
file ossequiose. Klement Gottwald entrò barcollando, sostenuto dal
presidente dell’Assemblea nazionale: si avvicinò alla Kovály e
farfugliò: «Cos’ha? Non sta bevendo. Perché non beve?». Quel
viso paonazzo, quegli occhi spenti affogati nel grasso, quel
balbettio roco le ricordarono le acclamazioni della gioventù
comunista: «Noi siamo il futuro della nostra nazione: di Gottwald
noi siamo la generazione». Ora quest’uomo, la speranza del 1945,
uccideva la disperazione e la paura nell’alcol.
Nel novembre 1951,
Rudolf Slánsky, il segretario del Partito, venne arrestato. La
polizia segreta, ora chiamata Sicurezza di Stato, si scatenò. Ma
Rudolf Margolius, il quale non conosceva Slánsky, era sempre
convinto che si trattasse di una crisi passeggera. «Se tutto è una
truffa — disse con innocenza alla moglie —, allora sono stato
complice di un crimine orribile. E se dovessi convincermi di questo,
non potrei più vivere, e nemmeno lo vorrei».
Una sera, all’inizio
del 1952, alla porta dei Margolius bussarono cinque uomini, uno dei
quali aveva in mano la valigetta di Rudolf. Il capo dei cinque salutò
la Kovály con esagerata gentilezza, annunciando che il marito era
stato arrestato. Perquisirono a fondo la casa: aprirono cassetti e
armadi, esaminarono uno per uno centinaia di libri, guardarono le
scarpe e gli oggetti da toeletta: lessero le lettere private e ne
confiscarono un paio; consultarono il diario dove la Kovály aveva
annotato l’altezza e il peso del figlio, scambiando questi numeri
innocenti per le cifre di un codice segreto.
La mattina dopo, la
Kovály telefonò ai ministri e ai funzionari suoi amici. Nessuno dei
colleghi del marito volle parlare con lei. Ormai era una lebbrosa,
evitata da tutti: l’incontro più casuale poteva suscitare
sospetti. La Sicurezza di Stato controllò tutti quelli che
conosceva: alcuni furono interrogati brutalmente. Nella casa editrice
nessuno le diceva una parola: ogni volta che entrava in una stanza,
le conversazioni si interrompevano, le facce impietrivano. Infine si
licenziò. Di notte continuava a scrivere ostinatamente ai ministri,
al comitato centrale, al presidente della Repubblica, al primo
ministro, a tutte le persone influenti che conosceva. Non ricevette
risposta. Seppe soltanto che il dossier del marito era contrassegnato
con la lettera S. La S. stava per “caso Slánsky”.
Quando presero suo
marito tutti smisero di parlare con lei di Rudolf Slánsky. Gli
imputati erano quattordici, tra cui Rudolf Margolius, accusato di
“sabotaggio”, “spionaggio”, “tradimento”, e di essere
ebreo. Gli imputati si accusarono di tutti i crimini, inventando
colpe immaginarie. Venne pubblicata la lettera del figlio di un
accusato, Ludvík Frejka. Diceva: «Esigo che a mio padre venga
inflitta la pena più severa, la condanna a morte. Voglio che questa
lettera gli sia recapitata».
Dopo quasi un anno, la
Kovály sentì la voce di Rudolf alla radio. Come un robot, stava
recitando un discorso a memoria. Confessava una menzogna dopo
l’altra: si era iscritto al Partito per tradirlo: aveva dedicato
tutte le proprie energie allo spionaggio e al sabotaggio: era al
servizio degli imperialisti: aveva organizzato un complotto contro la
Repubblica Ceca; durante la guerra, a Londra, era stato addestrato
come spia.
Il processo durò
appena una settimana. La notte del 27 novembre, dall’apparecchio
radio, una voce inondò la stanza della Kovály dal pavimento al
soffitto: «Nel processo per il complotto antistatale, Rudolf Slánsky
pena di morte: Rudolf Margolius pena di morte». La sera del 2
dicembre la Kovály vide il marito, che le disse: «Avevo paura che
tu non venissi». Tornò a casa: prima dell’alba si addormentò per
qualche minuto, proprio nel momento — seppe più tardi — in cui
Rudolf morì senza dire una parola.
Dopo la morte del marito,
la Kovály passò settimane distesa sul letto. Quando usciva di casa,
vestita a lutto, era seguita lungo i marciapiedi da sguardi di
disprezzo. Due anni dopo ricevette il certificato di morte:
«Occupazione del defunto: viceministro; causa della morte; asfissia
per impiccagione». Nell’aprile 1963, sette anni dopo il discorso
di Nikita Chruscëv, avvenne il grottesco capovolgimento. Il comitato
centrale del Partito comunista cecoslovacco decretò che «l’innocenza
di Rudolf Margolius è stata stabilita senza ombra di dubbio».
La Repubblica – 24
agosto 2017