"Nel regno della mafia", Napoleone Colajanni, è già titolo del 1900 – Napoli 1900. L’Italia è nata con la mafia attaccata.
“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
"Nel regno della mafia", Napoleone Colajanni, è già titolo del 1900 – Napoli 1900. L’Italia è nata con la mafia attaccata.
Le menzogne della guerra
Nei giorni scorsi abbiamo appreso la notizia della morte del professor Andrea Canevaro, straordinaria figura di pedagogista dell’Università di Bologna, educatore di generazioni di educatori (leggi anche Che strano il mondo senza di lui), che ho avuto la fortuna di incontrare molte volte nella mia professione educativa. Una di queste è stata al Convegno nazionale “Progettare futuri” che svolgemmo al Teatro Ariosto di Reggio Emilia dal 24 al 26 marzo del 2003, pochi giorni dopo l’inizio dei bombardamenti occidentali su Baghdad con i quali partiva l’illegale e pretestuosa occupazione militare dell’Iraq (20 marzo), con il diretto coinvolgimento italiano, che avrebbe provocato centinaia di migliaia di morti tra i civili. Mi colpì, in quella occasione, che Canevaro sentì – come sentii anch’io che intervenivo come educatore – il bisogno di modificare il tema dei suoi interventi rivolti a una platea di educatori e centrarli proprio sulla menzogna della guerra, sulla sua funzione diseducativa, al contrario dell’educazione ai conflitti, e sul bisogno di alzare una barriera educativa contro la violenza.
Andrea Canevaro: la vergogna e la menzogna della guerra
Diceva Canevaro (oggi in Progettare futuri. Pensieri, esperienze, passioni nella progettazione educativa territoriale, edito da EGA e curato da Alfonso Corradini):
Parto proprio dalle guerre e da questa che da pochi giorni ci ritroviamo. Tra i tanti danni che fanno c’è anche il grave danno di mettere da parte la ricerca della verità e di promuovere le menzogne, di dare le false semplificazioni degli schemi contrapposti: amico-nemico, carnefice-vittima, onnipotente-impotente. Questa è la falsificazione della verità che sta dilagando nelle nostre case e che avuto una lunga preparazione. (…). Accettazione di conflitto e capacità di dialogo camminano insieme e vediamo che l’incapacità del conflitto porta alla guerra. Il conflitto inteso come capacità di confronto, come necessità di ragionamento, di ragionare, di far ragionare, di ascolto diventa l’elemento importante. Se invece si rifiuta il conflitto si va in guerra. (…) Rubo un tempo brevissimo per citare alcune parole di un narratore importante, Nuto Revelli. Nuto, che ho la gioia di conoscere e sentire spesso, è un grande educatore, di quelli che non hanno un titolo. Lui era ufficiale, aveva frequentato l’accademia a Modena negli ultimi anni del fascismo, poi aveva partecipato alla guerra di Russia e subito aveva pensato che la guerra fosse una vergogna, e dovremmo saperlo anche in questi giorni. La guerra è una vergogna e non ci si può abituare, per cui Nuto aveva cominciato a notare e appuntare il perché è una vergogna e non voleva diventare come altri che la vivevano con una banalizzazione continua della morte, della puzza, degli orrori. L’aspetto della menzogna continua, soprattutto questo, credo che sia quello che sta emergendo anche in questi giorni, perché le guerre sono la cancellazione delle verità, la necessità di fingere, di raccontare delle cose non vere, di giustificare con delle menzogne. (…) L’ultimo libro di Nuto Revelli Le due guerre: guerra fascista e guerra partigiana è anche un’insegna della vergogna della guerra, per cui è intonato a questi giorni e sarebbe bello che avesse una bella diffusione e fosse molto conosciuto. Chiedo scusa se ho speso troppo tempo, ma ho sentito la necessità di far capire che non siamo indifferenti a quel che accade, abbiamo il desiderio di non far passare niente senza ricordarci che dobbiamo vergognarci per quello che sta accadendo e che dobbiamo alzare una barriera contro la violenza, contro la menzogna.
La dis/educazione della violenza
Oggi che un’altra, ennesima, guerra ci vede coinvolti, questa volta sul territorio europeo, attraverso l’invio di armi pesanti al governo ucraino nella guerra contro l’occupante russo – anziché l’invio di mediatori internazionali in coerenza con il ripudio costituzionale delle guerra – si pone nuovamente e pesantemente il tema educativo. Sia come clima culturale nel quale siamo repentinamente precipitati che costruisce già di fatto una pedagogia bellicista diffusa (come avevo annotato qui, lo scorso marzo). Sia come tentativo di giustificazione della nostra partecipazione militare sul territorio ucraino, in chiave specificamente dis/educativa.
Nonostante l’estremo timore con cui gli adolescenti guardano le immagini di guerra con le quali sono bombardati da mesi su tutti i dispositivi, per cui otto/nove ragazzi su dieci fra i 13 e i 19 anni temono il coinvolgimento diretto dell’Italia e lo scoppio della terza guerra mondiale (esito di una ricerca anticipata da la Repubblica), il presidente Mario Draghi, non ha trovato di meglio che spiegare così, incredibilmente, nella scuola media Dante Alighieri di Sommacampagna (20 maggio), dove era stato chiamato dalle lettere degli studenti a dire il perché di questa guerra: “Come quando uno grande e grosso prende a schiaffi per strada uno più piccolo. Ora, quello più piccolo è più grande e si difende dagli schiaffi perché è stato aiutato dagli amici e perché combatte e si difende per la libertà”. Se qualunque educatore affrontasse in questo modo il bullismo – di fronte al bullo chiama gli amici e mena più forte – sarebbe licenziato in tronco. Posso solo immaginare la fatica degli insegnanti nello spiegare ai ragazzi – dopo questo “autorevole” intervento dis/educativo – che, veramente, non si risponde alla violenza con una violenza più grande e di gruppo, ma ci sono altre strategie contro il bullismo. Tanto quello interpersonale quanto quello internazionale.
Ciò che emerge da questa vicenda è il salto logico e etico tra l’educazione ai rapporti interpersonali, ispirate alla nonviolenza, anche grazie al lavoro di pedagogisti come Andrea Canevaro (salvo le pedagogie mafiose, come insegna Michele Gagliardo), e la politica dei rapporti internazionali, guidata ancora dalla logica della violenza. Le parole di Draghi – che provano a spiegare goffamente la seconda con la prima – mostrano il corto-circuito tra le due logiche ed etiche. Sempre più contrapposte ed antitetiche. Almeno, ancora, nel nostro Paese, nonostante i dis/educatori sempre all’opera.
Adolescenti, armi e stragi. Dagli Usa all’Ucraina
Altro discorso se guardiamo al modello statunitense – purtroppo sempre più punto di riferimento politico e culturale – dove l’uso e la retorica delle armi come legittimo diritto per risolvere tutti i conflitti, invece non ha soluzioni di continuità, dalla dimensione personale a quella internazionale, dagli arsenali di fucili casalinghi alle testate nucleari negli hangar, come modello educativo di massa. Sostenuto e promosso attivamente dai finanziamenti alla politica da parte dell’industria bellica. Sconcerta, in questo senso la memoria cortissima, del presidente Joe Biden che di fronte all’ennesima, incredibile, strage compiuta da un diciottenne – aspirante marine – che ha ucciso diciannove bambini e due maestre nella sua vecchia scuola elementare del Texas (24 maggio), si sia chiesto “quando, per l’amor del cielo, affronteremo l’industria delle armi?”. Solo pochi giorni prima (3 maggio) Biden aveva non solo affrontato, ma visitato e ringraziato la Lockheed Martin – la più potente industria delle armi statunitense, come abbiamo raccontato qui – per essere l’alimento dell’”arsenale della democrazia”, annunciando in cambio 30 miliardi di ulteriori commesse di armi, da inviare in Ucraina. Senza dimenticare, in quel caso, di ricordare il particolare raccapricciante dei genitori ucraini che danno ai propri figli il nome di Javelin e Javelina, come i missili inviati dagli Usa con i quali gli ucraini colpiscono i mezzi e i militari russi. Anch’essi per lo più diciottenni inviati a combattere, come carne da macello, da quell’altro dis/educatore di guerra del presidente russo Vladimr Putin. Diciottenni con un’arma in mano con le quali fanno stragi, esattamente come il diciottenne texano. Adolescenti, uccisi a loro volta dalla menzogna della violenza e della guerra. Confermata anche dal procuratore del Texas che propone di armare gli insegnanti contro la violenza degli studenti, in una stringente quanto perversa logica bellica dell’escalation permanente e continua, dal micro al macro.
È contro quella filiera della violenza che gli educatori devono, invece, alzare ovunque la barriera culturale dell’educazione alla nonviolenza, dai rapporti interpersonali a quelli internazionali. Come invitava a fare anche Andrea Canevaro.
Gran concerto del flautista Manuel Zurria nella splendida cornice dell' Oratorio di Santa Cita di Palermo. (fv)
Mario Pintacuda
IL SASSOLINO NELLE SCARPE
Questa mattina, mentre ero in giro in occasione delle manifestazioni delle “Vie dei tesori” per una Palermo splendente, luminosa e inondata di turisti (soprattutto settentrionali), ho avuto la sventura di vedere ai Quattro Canti l’obbrobriosa scultura bianca a forma di “macchina demolitrice” che è stata follemente collocata (per fortuna a titolo provvisorio) al centro di una delle più splendide piazze d’Europa.
L'opera di Arcangelo Sassolino, "Elisa", è stata voluta dal Comune di Palermo (in piena agonia comatosa) per la ricorrenza del 23 maggio ed è composta da un esagono in cemento armato sul quale è stato poggiato il braccio meccanico di un escavatore.
Non riferisco per carità di patria i commenti sardonici, meravigliati, “schifiati” dei turisti, che a me ricordavano quello di Fantozzi a proposito della “Corazzata Potemkin”.
Mi pare invece opportuno trascrivere la roboante “didascalia” affissa al reticolato, che - senza neanche rispetto per la sintassi nella parte centrale (“premia gli indifferenti, ai moderati…”) - recita così:
«ELISA di Arcangelo Sassolino - Nel salotto della più fragile grande bellezza dell’architettura storica della città di Palermo, la brutalità del cemento, seppur temporaneo, e l’ottusità della macchina demolitrice, che mangia tutto, anche il suo stesso altare di presunzione. Opera accusatoria verso quella palude culturale che fa urlare contro l’arte contemporanea nei luoghi storici e premia gli indifferenti, ai moderati che negli anni hanno taciuto sull’abusivismo speculativo di Cosa Nostra e del Sacco di Palermo. La bestia bianca, come un sepolcro, come un demonio di ferraglia, è una provocazione passeggera, come un improvviso riflesso sconcertante nello specchio di un’inattesa vetrina che ci rivela come davvero siamo, ipocriti e fragili. FONDAZIONE FALCONE».
In effetti, sono innegabili “la brutalità del cemento” (che ci si augura davvero “temporaneo”) e “l’ottusità della macchina demolitrice”; quanto alla presunta “opera accusatoria verso la palude culturale”, sembra destinata a impaludarsi in un ben peggiore pantano di saccente snobismo autoreferenziale.
La “bestia bianca” ottiene sicuramente il risultato di “mandare in bestia” qualunque palermitano ammiri la bellezza e il decoro; che poi Cosa Nostra possa preoccuparsi minimamente di questo “demonio di ferraglia” e di questa “provocazione passeggera” è, più che improbabile, inverosimile: anzi, più si crea il brutto (con farneticanti scopi di protesta e di denuncia), più si accentua l’opera di devastazione della bellezza di Palermo che da molti decenni viene perpetrata impunemente.
Non si combattono certo così l’illegalità, la mafia e l’abusivismo; non si ottiene nulla di concreto e di risolutivo con operazioni cervellotiche e pseudoculturali di questo tipo. Che poi la “macchina demolitrice, che mangia tutto” (compreso il cervello di chi l’ha concepita) riesca a rivelare “ipocrisie e fragilità” non sembra proprio, vedendo gli sguardi allibiti dei turisti.
E chiunque osi pontificare - con la consueta arroganza - che le provocazioni devono essere fatte per scuotere le coscienze, impari invece a confrontarsi con i veri problemi della gente, con il suo modo di pensare, con la realtà concreta di tutti i giorni.
Il bello è che, come sempre avviene in questo ambiente di persone fuori dal mondo e dalla realtà, non sono mancate le (auto)celebrazioni di rito:
1) Vittorio Sgarbi (con la consueta faccia da “passapititto” e spregiatore dell’universo creato) ha commentato così: «Più che una scultura, è un’idea che pone l’accento sul degrado legato alla violenza della mafia, sull’abbattimento di edifici liberty per sostituirli con il cemento armato, alla speculazione selvaggia. Un’immagine meccanica della contemporaneità che non vuole competere come scultura ma come concetto. La ruspa come conseguenza di una vittoria contro la mafia e il male». Concetto per me non chiarissimo (ma forse non lo capisco io, da “capra” come mi definirebbe l’insigne docente): se la ruspa è “conseguenza di una vittoria contro la mafia” non sembrerebbe un gran successo…
2) Un sito di “Arte e cultura italiana” (http://www.rosarydelsudartnews.com) definisce il mostro bianco «un'opera monumentale di grande potenza», ne racconta la storia e ne esalta la funzione: «L’escavatrice si trovava in un cantiere, completamente bruciata, bloccata per questioni di appalti e dalla madre macchina, Arcangelo Sassolino ha dato nuova vita al braccio meccanico donandole un cuore [artificiale] attraverso un sistema idraulico. La scultura si presenta come una bestia primitiva che incide il cemento, lo spacca e distrugge lo stesso piedistallo su cui poggia. I tre bracci, svincolati l’uno dall’altro, creano forme diverse nello spazio. L’arte offre spunti di riflessione e pone interrogativi: l’opera di Arcangelo Sassolino evoca i tanti saccheggi architettonici e urbanistici che la mafia ha compiuto in tutta Italia, in particolare a Palermo e in Sicilia». Meravigliosa sintesi, come si vede, cui però sfugge il fatto evidente che, mentre si evocano “i tanti saccheggi architettonici e urbanistici”, se ne sta compiendo così un altro, non meno osceno.
Ora si può solo sperare che al più presto i palermitani si tolgano il Sassolino dalle scarpe e sia spazzata via al più presto questa “provocazione passeggera” (la quale però, frattanto, avrà purtroppo ottenuto lo scopo di far tornare alle loro case centinaia di turisti e di cittadini palermitani con i sintomi dolorosi di un maleducatissimo pugno in un occhio).
P.S.: il 24 maggio scorso, appena terminata, l’installazione ai “Quattro canti” era crollata con un grande boato; come si legge su Palermo News 24, «in realtà non si era verificato alcun incidente che danneggiasse la struttura: gli organizzatori hanno spiegato che si è trattato di un “percorso emozionale” dell’opera. Il braccio meccanico è funzionante, ma il suo percorso prevede una serie di movimenti fino alla caduta e al danneggiamento della base. Un meccanismo previsto e simbolico».
Fantastico! Se dunque qualche notte sentite un altro boato, non preoccupatevi e non “santiate”, ma godetevi questo non richiesto percorso “emozionale”: è del tutto gratuito (in tutti i sensi della parola).
MARIO PINTACUDA
Nel 1915, nello scritto Juniusbrochüre, così scriveva Rosa Luxemburg a proposito dello sconcerto suscitato scoppio della guerra in Europa:
Per la prima volta oggi le bestie feroci, liberate dall’Europa capitalistica contro tutte le altre parti del mondo, hanno fatto di un balzo irruzione nel bel mezzo dell’Europa. Un grido di raccapriccio è risuonato per il mondo, quando il Belgio, la piccola e graziosa gemma della civiltà europea, quando i più venerandi monumenti culturali della Francia settentrionale sono caduti fragorosamente in pezzi sotto il cozzo di una cieca forza di distruzione. Il “mondo civile” – il quale aveva tollerato che questo imperialismo votasse alla più spaventosa fine decine di migliaia di Herero, […] che a Putumayo una banda di cavalieri di industria europei per dieci anni martoriasse a morte quarantamila esseri umani […]; che in Cina un’antichissima civiltà tra incendi e assassini fosse data in preda alla soldatesca europea […] che la Persia soffocasse impotente nel cappio sempre più stretto del dispotismo straniero; che a Tripoli gli arabi fossero piegati a ferro e a fuoco sotto il giogo del capitale […] – questo “mondo civile” soltanto oggi si è accorto che il morso della bestia imperialista è apportatore di morte, che il suo fiato è nefando. Esso se ne è reso conto soltanto nel momento in cui la bestia ha piantato le sue zanne feroci nel grembo materno (Luxemburg 1976, pp. 510-511).
Oggi la guerra è ritornata nel cuore dell’Europa, minaccia di estendersi e ha indotto un senso di catastrofe imminente. Smarrimento, paura, angoscia, senso di impotenza dominano lo stato d’animo di tante persone che si sentono sull’orlo dell’abisso, ed anche i movimenti per la pace e per la giustizia ecologica e climatica faticano a rispondere con la chiarezza e l’energia che la gravità della situazione richiederebbe.
Per poter elaborare una pratica politica lucida ed efficace abbiamo bisogno innanzitutto di strumenti di analisi che, come ha scritto l’ecofemminista francese Françoise d’Eaubonne oltre quattro decenni fa, sappiano “andare al cuore stesso delle cose, al centro del pericolo, al nodo della questione. Non si tratta nemmeno più di volere o non volere cambiare il mondo. Se non cambia, moriremo. Tutte. E tutti” (D’Eaubonne 1980, p. 98).
Alle origini della guerra
A partire dal punto primo della bozza di documento che invita alla riflessione su “Guerra, nonviolenza e decrescita”, questo intervento* affronta la questione delle cause della guerra, non già quelle contingenti e immediate, bensì quelle profonde e antiche per poter esplorare in tutta la sua complessità il nesso crescita-guerra, globalizzazione economica e guerra globale, violenza alla natura, alle popolazioni del Sud del mondo e alle donne. Prenderò le mosse dal pensiero di Rosa Luxemburg su guerra e accumulazione capitalistica per poi trattare brevemente della riflessione di alcune ecofemministe anticipatrici del pensiero della decrescita: Françoise d’Eaubonne, colei che nel 1974 coniò il termine ecofemminismo, e le autrici della “scuola di Bielefeld” – Maria Mies, Veronika Bennholdt Thomsen e Claudia von Werlhof – che si sono ispirate al pensiero di Rosa Luxemburg.
Non è un caso che la riflessione femminista pacifista negli ultimi tempi si sia rivolta al pensiero di Rosa Luxemburg e alla sua opera L’accumulazione del capitale (1913)1, e in particolare il tema della catastrofe e dell’“effetto boomerang”. Ne ha scritto recentemente la filosofa di Losanna Marie-Claire Caloz Tschopp (2022), studiosa di Hannah Arendt e impegnata per il diritto d’asilo e contro la violenza di stato sui profughi2.
Le premesse teoriche fondamentali di Rosa Luxemburg che hanno ispirato la riflessione ecofemminista possono essere riassunte in tre punti fondamentali:
Di qui, violenza, guerra, rivoluzione. L’immagine del mondo nella fase terminale del capitalismo che traccia Rosa Luxemburg è quella di un’era di catastrofi, convulsioni politiche, sociali ed ecologiche.
L’attuale imperialismo […] è il periodo della lotta generale e acutizzata di concorrenza tra gli stati capitalistici per gli ultimi resti di ambiente non capitalistico sopravvissuti nel mondo. La catastrofe economica e politica è, in questa fase conclusiva, elemento di vita, forma normale di esistenza del capitale […], inseparabile dalle conquiste coloniali e di guerre mondiali che oggi viviamo.
Il segno caratteristico dell’imperialismo come estrema lotta di concorrenza per la dominazione mondiale capitalistica non è soltanto la particolare energia e multilateralità dell’espansione, ma sintomo specifico che il cerchio dell’evoluzione comincia a chiudersi! Il rifluire della lotta decisiva per l’espansione dai territori che ne formano l’oggetto sui luoghi d’origine. L’imperialismo riconduce così la catastrofe, come forma specifica della sua esistenza, dalla periferia dello sviluppo capitalistico al suo punto di partenza. Dopo aver gettato per quattro secoli in preda a ininterrotte convulsioni e distruzioni in massa l’esistenza e la civiltà di tutti i popoli non capitalistici in Asia, Africa, America e Australia, l’espansione del capitale precipita oggi gli stessi popoli civili d’Europa in una serie di catastrofi, il cui risultato non può essere che il crollo della stessa civiltà o il trapasso al modo di produzione socialistica (Luxemburg, Una Anticritica, 1968), pp. 585-586).
Gli eventi degli ultimi decenni confermano le analisi di Rosa Luxemburg. Quando il sistema capitalistico urta contro i suoi limiti economici, è sempre pronto a usare la guerra per forzare tali limiti; quando non c’è alcun campo d’investimento, lo si crea con la guerra che consente profitti derivanti dalla produzione di armamenti e dalla ricostruzione dopo la distruzione. In questo modo la guerra è condizione per una nuova crescita, una prosecuzione dell’economia con altri mezzi, come si legge nella bozza di documento. La guerra, dunque, non è una condizione eccezionale, ma un aspetto permanente della politica economica del capitalismo; lo sviluppo delle forze produttive, ovvero delle sue inerenti forze distruttive, è sempre stato legato all’esigenza della guerra.
Tuttavia, di fronte alla finitezza della terra, neppure la guerra riuscirà a scovare sempre nuove risorse terrestri, a trasformarle in capitale e infine a distruggerle. Il “cerchio comincia a chiudersi”; lo evidenziano la corsa furiosa a sfruttare gli ultimi mercati e la proliferazione dei conflitti. Poiché, come affermava Rosa Luxemburg, il capitalismo non può vivere in assenza di ambienti non capitalistici, nel neoliberalismo globalizzato abbiamo assistito e assistiamo alla espropriazione, al saccheggio e alla distruzione dell’economia non ancora diretta dai gruppi multinazionali, soprattutto di quella del settore pubblico e delle piccole e medie aziende private.
Ha scritto nel 2003 Claudia von Werlhof:
Si crea così una condizione di ‘autentica guerra’, ossia di guerra permanente al centro della vita di ogni giorno, che bandisce dalla società tutto quello che è civile, democratico, evoluto, umano, favorevole alla vita – e rende le società militarizzate, decivilizzate” (Werlhof 2005, p. 46).
Riflettendo sulla guerra in Iraq, l’ecofemminista tedesca, così continuava:
Trovo molto interessante che la guerra come modello per il futuro del Nuovo ordine mondiale sia contemporaneamente il modello del passato, ossia dell’origine del patriarcato proprio in Iraq circa 5000 anni fa. Là infatti ha avuto allora origine ciò che oggi assolutamente chiamiamo guerra: invasione, occupazione, appropriazione e consumo di risorse. Perciò, se pensiamo a delle alternative, sono in discussione non solo 500 anni di capitalismo e colonialismo, bensì 5000 anni di patriarcato (ivi, p. 47).
Patriarcato e capitalismo
Da lungo tempo le donne hanno riflettuto sul patriarcato, ovvero sulla relazione di potere che le ha oppresse e sfruttate. Impossibile ricostruire, neppure a grandi linee, la ricchezza degli studi e del dibattito sulla nascita e l’affermazione del patriarcato e della divisione sessuale del lavoro, basti ricordare che numerose autrici, fin dall’Ottocento, anticipando i lavori di Marjia Gimbutas (1999), hanno evocato un’epoca in cui la centralità della figura materna aveva assicurato una convivenza pacifica e un elevato grado di civiltà, in cui la vita era sacra e i ruoli femminili riconosciuti in ogni istituzione sociale. Questi studi hanno rivelato che molte delle caratteristiche del patriarcato sono proprie anche del capitalismo: la guerra come sistema di conquista e saccheggio, il dominio sulle donne, lo sviluppo di sistemi di sfruttamento dell’umanità e della natura, le credenze religiose centrate sulla figura maschile come vera creatrice della vita.
Tra le ecofemministe che hanno indagato il nesso tra patriarcato e capitalismo ricordo Françoise d’Eaubonne (1920-2005) che nel 1980 in La natura della crisi aveva previsto “la morte del mondo terrestre” in trenta-cinquanta anni se non fosse avvenuto un mutamento radicale nelle relazioni umane e tra gli esseri umani e la natura.
Non si tratta di tornare alla ruota per filare o alla barca a vela come ci accusano gli imbecilli; il passo da una parte non è un passo indietro. Si tratta di passare realmente all’età post-industriale, perché il mantenimento dell’età industriale – e non soltanto la sua crescita –, il suo semplice mantenimento è la fine del mondo terreste in trenta-cinquant’anni. Non si può andare oltre queste date conservando il sistema del profitto. Non si può abolire il sistema del profitto conservando una società di classe, ovvero il bisogno del potere. Non si può abolire il potere conservando il mondo patriarcale e maschile (D’Eaubonne 1980, p. 98).
Nelle sue opere, La femme avant le patriarcat (1976) ed Écologie-féminisme (1978), un testo poco noto che è stato ripubblicato di recente con introduzione di Serge Latouche3, D’Eaubonne aveva fatto risalire la causa diretta della distruzione della terra al controllo patriarcale della fertilità della terra e della fecondità femminile. Quando (tra il 3.500 e il 2.500 avanti Cristo) l’uomo sottrasse alle donne la produzione agricola, le tecniche conservative e le diversificazioni colturali lasciarono il posto a quelle sempre più intensive; alla zappa si sostituì l’aratro e fu introdotta l’irrigazione. Quando l’uomo scoprì di avere un ruolo nella riproduzione, la natalità iniziò ad aumentare; credendosi l’unico agente della procreazione, non solo un collaboratore, egli considerò la donna e la terra come ricettacoli della sua forza vitale. Da allora il predatorio modo di appropriazione divenne il paradigma dell’economia e di tutte le relazioni di sfruttamento; la donna, “schiava prima della schiavitù”, fu ridotta all’insignificanza e la terra a materia inerte da sfruttare. Nacquero nuove strutture mentali caratterizzate dall’“illimitimisme”, dall’assenza di limiti nella ricerca del potere – sulle donne, sulla natura, su altri gruppi e popoli –, uno sfruttamento estremo basato sulla sete dell’assoluto, un’illusione prometeica che nel suo delirio di appropriazione avrebbe portato all’annientamento della vita. In questa
“corsa verso l’infinito, l’aggressività competitiva è indispensabile […] e la competizione comporta la progressiva intensificazione della violenza e il massacro” (D’Eaubonne 2018, p. 163).
Fin dal suo sorgere, continua la femminista francese, il sistema patriarcale impose una logica intrinsecamente conflittuale e manichea in tutte le forme di pensiero. Questo modo di ragionare consiste nello sviluppare due dimensioni contraddittorie in cui l’una esclude l’altra (ivi, p. 97), un modo di pensare che rende l’eguaglianza e la relazione impensabili.
La concezione del capitalismo come espressione ultima del patriarcato è centrale negli scritti delle ecofemministe di Bielefeld (Werlhof 2007; Mies 2014). In Patriarchy and Acccumulation on a World Scale, un’opera apparsa per la prima volta nel 1986, Maria Mies sosteneva che il cuore della crisi ambientale risiede nella negazione della dipendenza dalla sfera della natura, dal corpo, dal lavoro delle donne e dalla riproduzione, nel falso senso di autonomia maschile sotteso all’antropocentrismo che aveva origini antiche.
La mia tesi è che il capitalismo non può funzionare senza patriarcato, che lo scopo di questo sistema, ovvero il processo di accumulazione infinito non può essere raggiunto senza che siano conservate, o ricreate, le relazioni patriarcali tra uomo e donna, possiamo anche parlare di neo-patriarcato. Il patriarcato rappresenta l’invisibile sostrato del sistema visibile del capitalismo (Mies 2014, p. 38).
La critica delle ecofemministe della scuola di Bielefeld al paradigma della crescita illimitata che distrugge la vita sulla terra ha tratto ispirazione dalla filosofia che ha guidato le lotte delle donne dei paesi del Sud del mondo, dai movimenti di resistenza di vastissima portata da esse promossi per difendere l’economia di sussistenza, riconnettere produzione e consumo, conservare la vita, dare dignità e senso al loro lavoro, acquisire maggiore indipendenza, porre un freno alla violenza.
Prendendo le mosse dai mutamenti nei paesi del Sud del mondo, dal dibattito in seno al movimento femminista sul lavoro di produzione e di riproduzione che si era sviluppato nel decennio precedente e dall’analisi del pensiero di Rosa Luxemburg sulle “economie naturali”, Maria Mies, Veronika Bennoldt Thomsen e Claudia von Werlhof – si sono soffermate sul significato che assumono nell’accumulazione capitalistica le relazioni di lavoro non salariate.
Luxemburg non era femminista, ma la sua analisi è stata cruciale per comprendere perché le donne, come lavoratrici non pagate, le colonie e le risorse naturali devono essere sfruttare per consentire la crescita capitalistica (Mies 2014, p. XVII).
Il lavoro domestico delle donne in Occidente e la produzione di sussistenza nei paesi del Sud del mondo rappresentano la base materiale del processo di valorizzazione e accumulazione. La principale contraddizione nel capitalismo, dunque, non è quella tra il lavoro salariato e il capitale, ma tra il capitale, le varie forme di lavoro e, in definitiva, la vita stessa4.
Si è così andato affermando nel pensiero ecofemminista una nuova prospettiva, la prospettiva della sussistenza, che si può applicare in ogni sfera dell’attività umana e che individua una via di liberazione nella semplicità volontaria, nell’autosufficienza, nella riduzione dei consumi che causano povertà, distruzione dell’ambiente e accrescono le forme più brutali di dominio sulle donne e prefigura un’economia morale basata su principi etici che superi l’attuale divisione sessuale del lavoro. Il distacco dalla sussistenza e dalla riproduzione della vita è il terreno su cui si è sviluppata l’economia capitalistica che propone una nuova trascendenza che uccide la vita oggi e trasferisce le sue false promesse nel futuro. Al contrario, la politica che pone al centro i valori della sussistenza segue l’immanente, i bisogni reali delle persone reali, attribuisce valore a tutti i viventi e alla natura e può prendere avvio solo dal basso. Solo l’abbandono della produzione di merci e la rivitalizzazione dell’economia di sussistenza, che è stata a lungo oppressa e distrutta, potrà impedire che il sistema mondiale capitalistico giunga alle sue ultime conseguenze divenendo un sistema di guerra globale.
Femminismi e decrescita
Nella convinzione che la crescita economica non sia un processo neutrale rispetto al genere numerose femministe negli ultimi anni si sono interrogate sull’incontro possibile tra femminismo e decrescita, ma questo incontro si è rivelato difficile (Bianchi 2015).
Nel 2016, alla quinta Conferenza internazionale della decrescita a Budapest è nata FaDA, Feminisms and Degrowth Alliance, una rete di studiose e attiviste ormai diffusa in molti paesi con lo scopo di includere l’analisi di genere e la riflessione sul rapporto patriarcato-capitalismo nel pensiero della decrescita. Benché il dialogo sia ormai avviato, le argomentazioni femministe ed ecofemministe non sono ancora parte integrante della proposta di decrescita (Saave-Harnack – Dengler – Muraca 2019; Dengler 2021). Alle stesse conclusioni sono giunti gli studi di altre autrici, come quello di di Patricia Ellis Perkins (2017) e di Marisol Bock (2021). La letteratura ecofemminista, ha scritto Perkins, è per lo più ignorata, in particolare quella sul tema della dipendenza del capitalismo dal lavoro non pagato delle donne e dai “servizi ecologici non pagati” (2017). Eppure, le riflessioni ecofemministe sulla storia, l’economia, la scienza e l’ecologia potrebbero essere fonti importanti di ispirazione per l’attivismo e il pensiero della decrescita.
Di fronte all’intensificazione del riarmo, alla moltiplicazione dei conflitti e all’aggravamento della crisi ecologica, una convergenza profonda delle due linee di pensiero appare cruciale.
Solo il riconoscimento dell’interconnessione tra tutti i rapporti di dominio (di genere, di classe, di razza, di età, di specie), solo l’abbandono di un modo di pensare che separa le relazioni di potere tra uomini e donne, tra umani e mondo naturale, tra umani e animali, tra metropoli e colonie, potranno condurre a una strategia di pace inclusiva, coerente ed efficace.
Riferimenti bibliografici
Bianchi Bruna, Ecofemminismo e decrescita. Una convergenza possibile?, “DEP. Deportate, esuli, profughe”, 27, 2015, pp. 245-258, https://www.unive.it/pag/fileadmin/user_upload/dipartimenti/DSLCC/documenti/DEP/numeri/n27/26_rir_26-Bianchi-intervento.pdf.
Bock Marisol, Contributions from Feminist and Plural Peace Perspectives to Promote Degrowth – a Dialogic Approach in Times of Multiple Interlocking Crises, phD, Universitat Jaume 2021.
Caloz-Tschopp Marie-Claire, Frontex. Une société capitaliste du mensonge. L’effet bumerang et la révolution d’aujourd’hui. Relire Hannh Arendt, Rosa Luxemburg, Cornelius Castoriadis, Laurent Monnier, Rada Iveković, Anne Amiel…, 28 aprile 2022, https://www.sosf.ch/cms/upload/20220428_MCCT_essai.pdf.
D’Eaubonne Françoise, Écologie et féminisme. Révolution ou mutation? (1978), Éditions Libre et Solidaire, Paris 2018.
– La natura della crisi, “DEP. Deportate, esuli, profughe”, 48, 2022, pp. 93-98, https://www.unive.it/pag/fileadmin/user_upload/dipartimenti/DSLCC/documenti/DEP/numeri/n48/12_Eaubonne.pdf
Dengler Corinna, Degrowth, in Günseli Berik – Ebru Kongar (eds.), The Routledge Handbook of Feminist Economics, Routledge, London – New York 2021, pp. 369-377.
Di Benedetto Giovanni, La primavera che viene. Attualità di Rosa Luxemburg, Mimesis, Milano 2021.
Gimbutas Marjia, Le dee viventi (1999),Medusa, Milano 2005.
Goldblum Caroline, Françoise d’Eaubonne & l’écoféminism, Éditions le passager clandestin, Paris 1919.
Luxemburg Rosa, Juniusbrochüre (1915), in Rosa Luxemburg, Scritti scelti, a cura di Luciano Amodio, Einaudi, Torino 1976, pp. 463-520.
– L’accumulazione del capitale. Contributi alla spiegazione economica dell’imperialismo (1913), Einaudi, Torino 1968.
– Una Anticritica, in L’accumulazione del capitale, cit., pp. 473-588.
Mies Maria, Patriarchy and Acccumulation on a World Scale. Women in the International Division of Labour (1986), Zed Books, London 2014.
– Krieg ohne Grenzen. Die neue Kolonisierung der Welt, PapyRossa, Köln 2005.
Pérez Orozco Amaia, La subversión feminista de la economia. Sobre el conflicto capital-vida, Traficantes de suenos2014.
Perkins Patricia Ellie, Degrowth, Commons and Climate Justice: Ecofeminist Insights and Indigenous Political Traditions, 2017, https://www.nottingham.ac.uk/climateethicseconomics/documents/papers-workshop-4/perkins.pdf
Saave-Harnack Anna – Dengler Corinna – Muraca Barbara, Feminisms and Degrowth. Alliance or Foundational Relation?, “Global Dialogue”, vol. 9, 1, 2019, pp. 29-30, https://globaldialogue.isa-sociology.org/articles/feminisms-and-degrowth-alliance-or-foundational-relation.
Turchetto Maria, Contro la catastrofe – con la testa e con il cuore, Prefazione a Di Benedetto, La primavera che viene, cit.
Werlhof Claudia von, Vom Wirtschaftskrieg zur Kriegswirtschaft. Die Waffen der “Neuen-Welt-Ordnung”, in Maria Mies, Krieg ohne Grenzen. Die neue Kolonisierung der Welt, cit., pp. 40-48.
– No Critique of Capitalism Without a Critique of Patriarchy! Why the Left Is No Alternative, “Capitalism, Nature, Socialism”, vol. 18, 1, 2007, pp. 13-27.
Note
1 L’opera a lungo è stata poco letta; dal 1972 al 2012 nessuna ristampa è apparsa in italiano.
2 Si veda anche il volume di Giovanni Di Benedetto, apparso pochi mesi prima dello scoppio del conflitto (2021),
3 Su Françoise d’Eaubonne come anticipatrice della decrescita si veda: Goldblum 2019.
4 Su questo tema si veda il volume dell’ecofemminista spagnola Amaia Pérez Orozco (2014).
*Testo dell’intervento all’incontro web “Guerra, nonviolenza, decrescita“ (con Mario Agostinelli, Bruna Bianchi, Enrico Euli e Daniela Padoan) promosso dall’Associazione della decrescita il 19 maggio)
Ora la guerra di Putin divide anche la diaspora comunista nel mondo
Dimitri Deliolianes
il manifesto, 27 maggio 2022
L’invasione russa in Ucraina rischia di gettare per aria i faticosi tentativi dei partiti comunisti di trovare una nuova identità e forma organizzativa tre decenni dopo la fine dell’Unione Sovietica. Fermo restando che l’italiana Rifondazione comunista, il Pcf e il Pc spagnolo (che fanno parte della Sinistra europea) e il Partito comunista cileno hanno subito condannato l’invasione russa senza aspettare sollecitazioni, pochi giorni dopo lo scoppio della guerra, 42 partiti comunisti ed operai e 30 organizzazioni giovanili hanno approvato un documento in cui si condanna l’invasione russa, considerata «imperialista». Tra i firmatari ci sono partiti deboli ed altri più consistenti. Per l’Italia hanno aderito il Fronte Comunista e il Fronte della Gioventù Comunista (fuoriuscita dal partito di Marco Rizzo); tra i partiti più consistenti si segnala il PC sudafricano. Non hanno firmato invece due partiti importanti come i comunisti dell’India e il Partito Comunista Akel di Cipro.
Più di recente, il giornale «Rizospastis», organo del Partito Comunista di Grecia (Kke) ha dedicato degli articoli di critica ai due partiti comunisti russi che non hanno sottoscritto il documento. I comunisti greci contestano ai compagni russi il supporto che offrirebbero a Putin e alla «guerra imperialista». Il partito russo che ha attirato i colpi più duri è stato il Partito Comunista Operaio della Russia (Pcor). Si tratta di un partito di dimensioni ridotte, a cui non è permesso presentarsi alle elezioni. Il Pcor concorda con i greci e gli altri partiti nel definire «imperialista» l’aggressione russa ma subito ci aggiunge che «l’intervento armato della Russia contribuisce alla salvezza della popolazione del Donbass». Per questo, il partito russo assicura che «non si opporrà a tale reale sostegno», al contrario, «nel momento in cui le condizioni hanno reso necessario esercitare violenza verso il regime fascisteggiante di Kiev, noi non ci opponiamo nella misura in cui ciò favorisce il popolo lavoratore».
Una presa di posizione piuttosto confusa. La confusione emerge anche dal fatto che l’organizzazione giovanile del Pcor ha invece aderito al documento dei 42, mentre la questione della guerra ha creato intensi scontri nella direzione del partito russo con le dimissioni di due membri dell’Ufficio Politico. La «deriva nazionalista», denuncia «Rizospastis», ha portato il Pcor a organizzare di recente una manifestazione «per la vittoria» insieme al movimento nazionalista «Altra Russia», l’erede del partito Nazional-Bolscevico di Limonov.
Più attenta la critica dei greci verso il partito russo più importante, il Partito Comunista della Federazione Russa (Pcfr), presente nella Duma e in vari parlamenti nazionali. Il Pcfr si è rifiutato di definire «imperialista» il conflitto, sostenendo che si tratta di una «guerra di liberazione nazionale contro l’internazionale del nazismo e il nuovo ordine degli Usa e della Nato». La Russia, sostengono i russi, «è uno dei Paesi più poveri d’Europa» quindi non si può usare il termine «imperialista», che peraltro «Lenin ha usato per la Grande Guerra», quindi del tutto «inappropriato» nell’attuale conflitto. A riprova aggiungono che «gli oligarchi russi si sono schierati contro l’operazione militare in Ucraina», dato che hanno subito «severe sanzioni». Sono i punti salienti della puntuale risposta del Pcfr alle accuse dei compagni greci. Accusati di sostenere Putin, i comunisti russi rispondono che è il presidente russo che ha ceduto alle loro pressioni ed è andato incontro alla «popolazione sofferente» del Donbass e di Lugansk, dove il Pcfr si vanta di avere «centinaia di militanti che combattono i nazisti». Aggiungono che il governo di Mosca ha tentato ripetutamente di mettere argine all’espansione della Nato ad est ma senza risultato. Oltre alle due regioni dell’Ucraina con popolazioni russe, i comunisti russi descrivono l’Ucraina come un paese totalmente in mano agli interessi occidentali, dove l’uso della lingua russa è proibito, come proibita è anche l’attività dei comunisti, mentre Kiev starebbe preparando in proprio armi nucleari e biologiche.
Quanto alle accuse greche di «flirtare con idee e forze nazionaliste», la risposta dei russi è tranciante: «Dichiariamo con orgoglio di essere la maggiore forza patriottica della sinistra in Russia». Alla fine della sua polemica risposta, il Pcfr esprime il suo «profondo rispetto verso il Kke, partito che ha contribuito come nessun altro alla rinascita del movimento internazionale ed operaio dopo il crollo dell’Urss». È un riconoscimento non formale. Se questa polemica ha un significato politico, questo consiste nel fatto che il Kke, (5,3% alle ultime elezioni) ha effettivamente svolto un ruolo di primo piano nell’aggregare e sostenere vari partiti comunisti in Europa e oltre. In Italia collaborava prima con il Partito Comunista di Marco Rizzo, la cui organizzazione giovanile Fgc fuoriuscita dal partito, appare tra i firmatari del documento internazionale.
Anche tale testo di condanna dei 42 partiti è stata opera dei comunisti greci, aiutati dai PC turco e messicano e dal Partido del Trabajo spagnolo. Ora che la guerra ha collocato i pilastri del comunismo postsovietico su posizioni diametralmente opposte il tentativo di ripresa deve superare un altro grande ostacolo.
Articolo ripreso da http://machiave.blogspot.com/2022/05/comunisti-divisi-sullucraina.html