Dimenticare Pasolini
15 MAGGIO 2022ALESSIA CERVINI, PPP 100
di ALESSIA CERVINI
Maresco/Pasolini di Franco Maresco.
Molti anni dopo la sua morte e un secolo dopo la sua nascita, è ancora complicato rispondere a una domanda apparentemente semplice: chi era Pier Paolo Pasolini? Il 5 marzo scorso – giorno della nascita del poeta – Cinema Ritrovato-Fuori Sala ha proposto un omaggio a Pasolini firmato da Franco Maresco che è una risposta (una delle possibili, ovviamente) alla enigmatica domanda. Il lavoro consiste in una serie di documenti preziosi – interviste, soprattutto, oltre a quel meraviglioso film che è Arruso (2000) – realizzati, raccolti negli anni, e cuciti insieme per questa occasione da Franco Maresco.
A fronte della sua apparente semplicità, il film propone, allo spettatore del 2022, ipotesi complesse attorno all’eredità tanto discussa del pensiero e dell’opera di Pasolini. La prima, fra queste ipotesi, porta forte il segno del pessimismo – o meglio ancora del nichilismo – che contraddistingue tutto il lavoro di Maresco, che è poi lo stesso del Pasolini ultima maniera, che arriva a descrivere, con toni sempre più apocalittici, la fine di un mondo – quello del sottoproletariato globale, delle sue tradizioni, dei suoi miti fondativi – che nessuna idea di progresso è in grado di giustificare realmente. Una storia tramandata per millenni si chiude a opera di un potere che poggia le sue basi sullo stesso vuoto che ha creato. È il potere letteralmente senza fondamento delle società a capitalismo avanzato; un potere senza legittimazione e per questo irrevocabile, senza regole e dunque testualmente anarchico – come lo definisce Pasolini, in più di un’occasione. Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) ne è la rappresentazione impietosa e inquietante, e custodisce forse il compito più scomodo (perché infinito, o addirittura impossibile) che l’opera di Pasolini ci lascia in eredità: pensare il vuoto, a partire dal vuoto.
In questa prospettiva, quello di Pasolini è dunque anzitutto il nome di una mancanza che non si può colmare e che la sua morte violenta e prematura ha fatto deflagrare. Dopo quella scomparsa, generazioni intere di orfani hanno dovuto imparare a vivere e a immaginare un mondo senza Pasolini. Cosa avrebbe fatto, detto, pensato Pasolini, in questa o quella circostanza? Continuiamo a chiedercelo tutt’ora, tutte le volte che qualcosa ci sembra, per qualche motivo, di difficile comprensione. Al contrario, per essere davvero fedeli a Pasolini, al suo pensiero e alla sua opera, dovremmo invece provare a dimenticarlo una volta per tutte, a lasciarlo scivolare nel vuoto che risuona non soltanto attorno alla morte, ma anche attorno alla vita del poeta, in ciò che detto, scritto, filmato.
È l’ipotesi provocatoria da cui il lavoro di Maresco prende avvio, a cui alludono in modo molto velato anche le tante voci che nel film si susseguono, in modo particolare quella di Letizia Battaglia. La sua intervista chiude quella che – vista dalla fine – ha il carattere di una vera e propria opera/mondo che racchiude in sé tutte gli amori, i tic, le ossessioni del suo autore. In questo caso, per esempio, si tratta di una parte del girato rimasto fuori dal film che, qualche anno fa, Maresco ha dedicato alla fotografa (La mia battaglia – Franco Maresco incontra Letizia Battaglia, 2016), reinserito qua per omaggiare, insieme a Pasolini, anche lei, nata ancora il 5 marzo, ma del 1935. Letizia Battaglia racconta del suo primo e unico incontro con Pasolini, l’11 dicembre del 1972 al circolo Turati di Milano, nel corso di un dibattito pubblico, sul tema “La libertà di espressione tra repressione e pornografia”, durante il quale Pasolini è duramente contestato per il suo ultimo film, I racconti di Canterbury (1972). La sequenza di 32 scatti realizzati da Letizia Battaglia racconta di un uomo in difficoltà, solo con i propri pensieri, incastonato nel buio che lo circonda: lo sguardo accigliato, le mani sul viso.
A oggi, quelle immagini sono, senza ombra di dubbio, un documento imprescindibile per costruire un ritratto complesso e non rappacificato di Pasolini che, allo stesso modo, molto dicono di chi quelle fotografie le ha realizzate. Per qualche strana ragione, però, che forse ha a che fare proprio con il loro soggetto, quelle foto sono state dimenticate per parecchi anni, per riemergere solo molto più avanti nella memoria della fotografa. Il mistero di quella dimenticanza è lo stesso che circonda ancora le circostanze dell’omicidio di Pasolini, la notte del 2 novembre, all’idroscalo di Ostia, dove forse il regista era andato per recuperare le bobine trafugate del suo film testamento. Di questa ipotesi parla fra gli altri Pino Pelosi – per la giustizia italiana, il solo responsabile della morte di Pasolini – nell’intervista realizzata ancora da Maresco, che è uno dei momenti più impressionanti del lavoro di cui stiamo parlando. Pelosi è “un povero Cristo” e Pasolini il fantasma che non lo ha mai abbandonato, da quella notte di molti anni fa. Suo malgrado, Pelosi è stato condannato a coincidere con Pasolini, con la sua storia e la sua morte, e quando risponde alle domande di Maresco, parla già dagli inferi, dove è finito molto prima di smettere di respirare.
Poiché Pasolini non c’è, ha smesso di esserci troppo presto, in verità è ovunque e per questo non possiamo liberarcene. Ce n’è, per esempio, una parte importante in ciascuno degli interlocutori di Maresco: in Pino Pelosi come in Letizia Battaglia, che al poeta ridà voce quando, nelle ultimissime battute del film, legge (come aveva fatto Pasolini) Strappa da te la vanità, il componimento poetico di Erza Pound: «Quello che veramente ami non ti sarà strappato, quello che veramente ami è la tua vera eredità». Versi che sono forse la chiave con cui leggere l’intera operazione di Maresco, attraverso le voci di quanti prendono parola nella sua opera corale: quella di Sergio Citti che di Pasolini ha ereditato lo sguardo da regista, quella di William Dafoe che a Pasolini ha restituito un corpo, quando ne ha interpretato il ruolo nel film di Abel Ferrara.
E c’è, neanche a dirlo, molta parte di Pasolini in Maresco: nel suo pessimismo, nella sua solitudine, ma soprattutto – mi arrischio a dire – nel lavoro di creazione linguistica che porta avanti ormai da oltre trent’anni, almeno dalla nascita di Cinico TV, andato in onda, per la prima volta, il 7 aprile del 1992. Da allora, Maresco non ha smesso di inventare lingue e linguaggi che fa parlare a tutti quanti stanno al suo gioco, in questo caso, come in ogni altro. Qui addirittura quello a essere inventato è un formato cinematografico inedito, perché Maresco/Pasolini, a detta almeno del suo autore, non è un film, non è un documentario, ma è tutte queste cose insieme, e anche di più. Maresco/Pasolini è forse semplicemente una scatola magica, dentro cui si intrecciano storie e fili diversi: scioglierli non è possibile, ed è un bene che sia così, perché possiamo continuare a vedere, ascoltare, o più semplicemente a vivere. Diversamente da un film questo lavoro (così come il cinema) non finisce.
Quello che Maresco allestisce è un grande palcoscenico su cui salgono, nel corso di tanti anni, attori, figuranti e comparse, ciascuna delle quali porta con sé la propria testimonianza, custodita magari per lungo tempo, e la regala alla macchina da presa che ferma e, posta sempre alla stessa distanza, osserva e registra tutto (apparentemente poco o nulla) ciò che accade davanti all’obiettivo. Sopra questo palcoscenico ogni cosa diventa possibile, perché si è già dentro l’opera, prima ancora che qualcosa succeda realmente. Per questa ragione, tutti rispondono alle domande di Maresco con lo stesso candore e la stessa ingenuità, persino: perché c’è un’opera, sempre in via di costruzione, a cui prendere parte.
Maresco ha inventato un modo per interrogare il reale e i suoi protagonisti, in questo senso ha immaginato un mondo e creato una lingua. Prima di lui, con analoga lucidità di sguardo e pari attitudine all’interrogazione incessante, soltanto Pasolini ha fatto lo stesso. Che l’opera, forse, non è il romanzo, la poesia, il film, ma la vita stessa. Lo sapeva Pasolini, lo sa Maresco e lo conferma, in un piccolo, struggente racconto, Sergio Citti. Durante le riprese del Decameron (1971), Pasolini segue con la macchina da presa la camminata di Franco Citti, Ciappelletto, per le strade di Bolzano. La pellicola finisce e Tonino Delli Colli lo fa notare a Pasolini che continua, però, nonostante tutto, a girare. Il cinema continua, oltre la fine della pellicola, perché coincide con la vita e con il suo affannoso respiro. Per questo, dopo Pasolini, siamo ancora qua a fare e a parlare di cinema.
Maresco/Pasolini. Regia: Franco Maresco; origine: Italia; anno: 2021; durata: 144′.
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