E’ uscita da poco per la collana “novecento/duemila” delle Lettere una nuova edizione di uno dei libri più belli, necessari e dirompenti della poesia italiana del secondo Novecento: L’osso, l’anima di Bartolo Cattafi, originariamente apparso nel 1964. Lo cura, con la consueta attenzione e dedizione al “suo” autore , il condirettore di collana Diego Bertelli, che qualche anno fa ha curato anche l’edizione di Tutte le poesie di Cattafi. Propongo volentieri alcune poesie del libro seguite da un estratto del saggio finale di Bertelli. Rileggiamo Cattafi. (Massimo Gezzi).
Pezzo ripreso da https://www.leparoleelecose.it/?p=44205
Da L’osso, l’anima di Bartolo Cattafi
Qualcosa di preciso
Con
un forte profilo,
secco, bello, scattante,
qualcosa di
preciso
fatto d’acciaio o d’altro
che abbia fredde luci.
E
là, sul filo della macchina, l’oltraggio
d’una minima stella rugginosa
che più corrode e corrompe più s’oscura.
Un
punto da chiarire, sangue
d’uomo, briciola
vile oppure grumo
perenne, blocco di coraggio.
Favola
Era una zona franca, senza reti
d’ascisse
d’ordinate.
L’insetto impazzì. Visse
da solo, ronzando
nella bianca
libertà, rimpiangendo iridati
pericoli di morte.
Un prisma
Man mano che giungevano alla mente
erano
ben disposte, illuminate.
Vi furono scosse, trambusto, quei colori
che dividono le cose
divennero
indistinti.
La vita porta disordine, dolore.
Colpimmo
all’impazzata
finché durò la carica al congegno.
Rovistando
– inventario
di cocci, osservazione
di perduti pianeti,
rimembrare
parole lontane in mezzo ai libri –,
ci ferimmo col
filo
tagliente dell’errore.
Avemmo sempre un triste
intermediario
un prisma dalle troppe divergenze.
Da qui non puoi
Da qui non puoi vederlo
devi
ancora salire
o scendere gradini:
rotola perduto,
spinto da qualche vento sulla sabbia
sull’acqua
trascorsa
della tua clessidra.
Intanto ami, abbracci, ignori
perché di là dal morbido, dal tenero, dal caldo
avverti
un’ambigua rigidezza.
Non sai ch’è morto e ignori
l’anima
aguzza, d’acciaio,
che
ti scruta e attende
il come il quando il dove.
Ipotesi
Avanzammo le ipotesi migliori.
Non
ressero,
al lume dei fatti
andarono in frantumi.
Avanzammo le altre, le peggiori.
La mente è un’abile
astuta acrobata. Teme l’abisso, il vuoto.
Ricompose col mastice i frantumi.
Al mercato
C’è un calmiere che regola i rapporti
col
prossimo tuo e con te stesso.
Sei solo e vinto,
debole,
deforme,
devi andare al mercato.
Stordirti
e scegliere
le voci nel brusio.
Stipulare contratti,
vendere, comprare
i beni che consumano la vita.
Delle pene
Alla
prova dei fatti
non ci fu di che essere allegri:
torti, errori,
viltà,
debolezze del cuore,
insanie che inquinarono la mente.
Pagammo
in disparte nascondendo
le voci, l’ammontare,
i conti
d’impossibile chiusura.
Vorremmo
un’era
forte, aperta, precisa,
di pubblica chiarezza per le
pene.
Non più pagare mediante equivalenze,
con
conguagli privati, silenziosi,
ma tormenti, tenaglie squillanti
maschera
gogna ruota rogo.
Visibile a tutta la città
la corda che ci
tira per il collo.
Anabasi
Aruspici
ed auguri s’opposero.
Sulla soglia un piede s’impuntò,nel
viaggio
avemmo presagi che solo pochi ignorano.
Anabasi
e non un’ombra
di rimpianto per i calmi
quartieri, l’estivo
l’invernale.
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