BERLINGUER e la NATO.
Un equivoco che dura ancora
Guido Liguori
Per i drammatici fatti d’Ucraina e la rinnovata centralità assunta dalla Nato, è tornata a circolare la tesi della presunta scelta che Enrico Berlinguer avrebbe compiuto nel 1976 in favore dell’alleanza militare guidata dagli Stati Uniti. In realtà si tratta di una semplificazione che distorce la realtà. Vale la pena di chiarire la vicenda, anche per un «giudizio equanime» sul segretario comunista in vista dei cento anni dalla nascita, il prossimo 25 maggio.
Ricostruiamo i fatti. Anzi, due antefatti. In primo luogo, negli anni ’70 il Pci – pur ribadendo il giudizio negativo su Nato e Stati Uniti – non chiedeva più «l’uscita dell’Italia dalla Nato», ma il superamento di entrambe le alleanze militari esistenti. Nella convinzione che una uscita unilaterale potesse far tornare il rischio di guerra, in anni in cui invece in Europa si viveva una stagione di speranze di pace, con gli accordi di Helsinki del 1975, firmati da trentacinque paesi, tra cui Stati uniti, Urss e tutti gli Stati europei tranne Albania e Andorra.
Il secondo antefatto è l’incidente di Sofia, accaduto nell’ottobre 1973: in visita ufficiale in Bulgaria l’auto in cui viaggiava Berlinguer fu travolta da un camion militare, l’interprete sedutogli accanto morì e il comunista italiano si salvò per miracolo. Come si sarebbe saputo decenni dopo, egli maturò la convinzione (senza prove, e dunque a lungo taciuta, tranne che a pochi familiari e amici) di essere stato vittima di un attentato commissionato dai sovietici. Certezze non ve ne sono nemmeno oggi, ma è assodato che Berlinguer fosse un personaggio scomodo a Est come a Ovest, critico acerrimo dell’invasione di Praga nel ’68 non meno che del golpe in Cile, fautore di una «distensione dinamica» in cui la volontà dei popoli non fosse soffocata dalla «cortina di ferro».
E veniamo alla celebre intervista rilasciata a Pansa del Corriere della Sera pochi giorni prima delle elezioni del 20 giugno 1976. La dichiarazione sulla Nato era tesa a persuadere l’elettorato moderato per tentare il sorpasso sulla Dc? Anche. Ma il modo in cui Berlinguer pose la questione non era contingente. Al giornalista che gli chiedeva se non temesse che Mosca gli facesse fare la fine di Dubcek replicava: «Noi siamo in un’altra area del mondo… non esiste la minima possibilità che la nostra via al socialismo possa essere ostacolata o condizionata dall’Urss». L’Italia non apparteneva al Patto di Varsavia e dunque si potevano escludere atti militari sovietici. Continuava Berlinguer: «Io voglio che l’Italia non esca dal Patto Atlantico “anche” per questo, e non solo perché la nostra uscita sconvolgerebbe l’equilibrio internazionale. Mi sento più sicuro stando di qua», sapendo però che se «all’Est, forse, vorrebbero che noi costruissimo il socialismo come piace a loro», in Occidente «alcuni non vorrebbero neppure lasciarci cominciare a farlo, anche nella libertà». Era quindi chiaro che gli Usa continuavano a essere un nemico delle sinistre e della democrazia, come il Cile aveva dimostrato.
E infatti lo stesso giorno in cui uscì l’intervista Berlinguer in tv ribadì che vi erano «tentativi di interferire nella libera scelta del popolo italiano» anche in Occidente, ricordando tra l’altro che «questo Patto Atlantico che viene presentato come scudo di libertà è un patto che ha tollerato per anni la Grecia fascista, il Portogallo fascista». Un giudizio inequivoco sulla Nato, dunque: nessuna conversione. Ma con la consapevolezza che anche il «socialismo reale» male avrebbe tollerato la «via democratica» del Pci.
Non vi fu nessun filo-atlantismo in Berlinguer, quindi, come oggi si dice, ma solo la necessità di destreggiarsi tra due potenze ostili e con estremo realismo: il passaggio verso un «socialismo nella libertà» era stretto, tra Est autoritario e Ovest a libertà limitata. Pesava in questo giudizio l’onda lunga di Praga – aggravata forse dai sospetti per lo strano incidente di Sofia. E la consapevolezza che tutto sarebbe stato tentato per fermare il Pci. Non solo la «strategia della tensione». Pochi giorni più tardi, il 27 giugno, al G7 di Puerto Rico, i leader di Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Germania Ovest si riunirono segretamente e convennero sulle misure punitive che sarebbero state prese nei confronti dell’Italia se il Pci fosse andato al governo: si sarebbe provocato il fallimento economico del paese (un po’ come per la Grecia in anni recenti). Fu il leader socialdemocratico tedesco Schmidt a rendere pubblico l’avvertimento: un vero e proprio «terrorismo economico».
Va anche detto che i sovietici non mostrarono sorpresa o rammarico per le affermazioni di Berlinguer sulla Nato. Anch’essi forse pensavano che era un’affermazione comprensibile alla vigilia di elezioni tanto importanti. Affermazioni non gratuite, ma anche non del tutto felici, possiamo aggiungere, per i molti malumori che provocarono nel Pci stesso. Anche perché i media misero in rilievo solo una parte del ragionamento di Berlinguer, lasciando in ombra quella sulla democrazia dimezzata dei paesi occidentali. Viste nella loro interezza, le dichiarazioni del segretario del Pci adombravano la ricerca di una «terza via» tra imperialismo americano e socialismo autoritario sovietico. Ma l’equivoco dura in parte anche oggi. È ora di rimuoverlo.
Da il manifesto, 18 maggio 2022
Nessun commento:
Posta un commento