ph. Sergio Daniele Donati
L'amico Sergio Daniele Donati, animatore del blog https://www.leparoledifedro.com , ieri mi ha gentilmente inviato una sua poesia, pubblicata l'anno scorso nel suo blog, che ho letto con vivo interesse. Alcuni versi mi sono subito apparsi, per la loro potenza, presi direttamente dalla Bibbia. D'altra parte Sergio è stato sempre fiero delle sue radici ebraiche e sappiamo quanto sia forte in ogni ebreo il rapporto con le sacre scritture. (fv)
Ripropongo di seguito con particolare piacere i suoi bellissimi versi:
SE IL LIBRO E' CASA
Se
il libro è casa,
liberi,
anche da chiuso,
a
pagine intonse,
la
stanza del ritiro
dalle
scorie del pensiero.
E
apra le finestre,
alle
parole non dette
perché
si affaccino sul mondo,
e
non planino nel silenzio
sulla
superficie del sogno.
Se
la casa è libro,
riveli
le storie,
incagliate
tra denti e lingua,
e
srotoli papiri e pergamene.
Perché
il racconto
abbia
inizio,
e
il Canto
canti
il canto.
Tacciano
i sorrisi,
si
stemperino i ricordi,
e
inizi la danza
della
narrazione antica.
Dalla
macchia bianca,
su
bianco,
la
prima lettera osserva,
la
bacchetta in mano.
Sola
- ancora per poco -
rumina
sul foglio
il
suo progetto di creazione.
E
borbotta per sé
i
nomi delle moltitudini,
dei
figli della mitosi.
Ascolta
i passi ancora lontani
dell'universo
della separazione.
È
l'attimo in cui
tutto
si ferma, per non morire,
prima
d'esser nato.
Immersi
in liquidi confusi
ci
si nutre del pensiero d'una madre
che
immagina ogni nostro volto
e
sceglie ogni nome
con
cura maniacale.
Dal
grande al piccolo,
un
progetto di distillazione cala
sulle
parole umane.
Evaporano
fumi e veleni
e
restano gocce e resine nell'astuccio
e
sul pennino di rame brunito,
Prima
d'ogni esistenza
la
penna descrive per sé i nostri occhi.
Siamo
cercati
e
descritti e accolti
da
penne divine
prima
di conoscere il canto
del
merlo all'alba,
prima
che ci solletichi frenetico
il
brusio delle piante a primavera.
Eppure
la fiamma si spegne e,
immemori
dell'oro che le ricopre,
tastiamo
i muri della stanza del ritiro
come
fossero pareti
di
carceri umidi,
nidi
di prigionie autoimposte.
La
prima lettera tace e osserva
il
nostro cammino brancolante
in
una cecità sorda.
Che
le palpebre si alzino
per
incontrare la luce
è
miracolo raro,
da
chiamare nelle notti senza stelle.
Là
nella cella cieca
non
esiste memoria, né ricordo.
Solo
il brusio indistinto
dei
nostri desideri di evanescenza.
Ci
rivolgiamo alla prima lettera,
di
cui distinguiamo i contorni regali,
con
una preghiera rabbiosa,
perché
ci liberi le palpebre
e
ci doni di nuovo
accesso
alle luci tenui
della
rinascita.
E
ci aspettiamo che la scrittura elevi
il
nostro stato animale
a
rango angelico.
È
là, in quello spazio stretto,
in
quell'eterno istante di sospensione,
che
la prima lettera emette per noi
il
suo vagito,
ci
libera gli sterni,
scoperchia
il secchio dei nostri abissi,
alza
le nostre palpebre serrate e
-
salda la sua mano sulla nostra nuca -
ci
volge lo sguardo verso il basso.
La
penombra guida e la luce acceca
se
entra a contatto
con
una mente ancora povera.
Inizia
allora, da uno sguardo
fisso
su un abisso senza termine
il
passo lento della scrittura
che
percorre le nostre vertebre
con
vibrazioni e pizzicati d'arco.
Inizia
là, da uno sguardo coraggioso
sulle
nostre balbuzie
il
lento cammino che ci porta
eretti
e libera spazi nei nostri stomaci
perché
sia scritta nella pelle
la
coreografia antica
di
ventidue danzatrici dell'onirico.
Fuori
da ogni seduzione,
inizia
là ogni liberazione.
Niente
si scrive se le vene
non
donano rossi inchiostri
e
niente è la parola
che
non incontra
il
frutteto fatato del limite.
Sergio Daniele Donati
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