di Tano Siracusa
Una notte, alcuni anni fa, passata a guardare dal finestrino dell’aereo in volo da un paese del centro Africa verso la Spagna.
Per ore in fondo alla notte si vedeva solo qualche fioco grumo di luci, ogni tanto qualche raro bagliore, la stessa notte che come un fiato caldo scendeva sulla terra, nei villaggi, nelle città, come una grande mano nera a coprire il sonno dei viventi, animali e uomini, e che scoperchiava nel cielo la moltitudine delle stelle.
Poi all’improvviso era stato un susseguirsi di ricami luminosi, i loro disegni, le forme bizzarre, fantastiche, curiosamente armoniose, un cielo capovolto dove le stelle brillavano a volte come diademi e collane, come costellazioni di preziosi offerti allo sguardo degli angeli e degli insonni in volo sulla civiltà: una dopo l’altra le città della Spagna, poi dell’italia, lo sfarzo delle nostre luci sparate sul palcoscenico vuoto della grande gara a promuovere, vendere e consumare un’enormità di merci intrise di simboli, destinata ad alimentare un’enormità di rifiuti da smaltire. C’era un di più, un’ evidenza dell’eccesso nello spreco di energia utilizzata per illuminare le nostre notti.
Forse è venuto il momento non solo e non tanto di tenere il passo del consumo energetico riesumando il carbone e altre fonti inquinanti e rischiose, quanto e soprattutto di riconsiderare gli standard di consumo energetico cui siamo abituati.
La cosiddetta transizione ecologica rischia di fallire in partenza se non si prova a riformulare contestualmente l’orizzonte dei nostri desideri e dei nostri bisogni, di noi parte ricca dell’umanità, cominciando intanto a riconoscere e neutralizzare gli sprechi, come l’inquinamento luminoso che con il buio ha cancellato il cielo e le stelle sopra le nostre città.
La transizione ecologica è difficile, spiegava stamattina un bravo giornalista rispondendo a un ascoltatore radiofonico, perchè ci obbliga a cambiare le nostre abitudini. Peccato risulti così difficile aggiungere che fra queste abitudini c’è quella allo spreco, al consumo superluo di energia per alimentare un mercato gonfio di oggetti supeflui.
«L’austerità per definizione comporta restrizioni di certe disponibilità a cui ci si è abituati, rinunce a certi vantaggi acquisiti: ma noi siamo convinti che non è detto affatto che la sostituzione di certe abitudini attuali con altre più rigorose e non sperperatrici, conduca a un peggioramento della qualità e della umanità della vita».
E’ una dichiarazione di Enrico Berlinguer, quando gli italiani la domenica andavano in bicicletta per la crisi petrolifera. Erano anni in cui gli angeli e gli insonni volando sopra il nostro continente vedevano gioielli più piccoli, meno splendenti, più diradati, anche se dentro quelle luci, dopo il lungo buio della guerra, c’era stato il primo boom economico, la festa degli anni ’60, il lusso della disobbedienza e contestazione giovanile.
Erano anni in cui mentre il Club di Roma presentava il suo Rapporto sui limiti della crescita e Pasolini distingueva e opponeva sviluppo e progresso, dal capo del principale partito di opposizione si indicava come opportunità strategica l’orizzonte dell’austerità; e senza tanti drammi la domenica gli italiani andavano in bicicletta. Senza neppure un leader statunitense che riconosce oggi la terza guerra mondiale come unica alternativa alle sanzioni antirusse e al conseguente contraccolpo sulle nostre economie.
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