09 maggio 2022

ANCORA SULLA GUERRA ...

 



UNA CONTRADDIZIONE FONDAMENTALE DEL CAMPO OCCIDENTALE

di Sergio Benvenuto

 

Oggi molti accusano le leadership occidentali di essere state cieche su Putin, di non averne capito, ben prima, l’inaffidabilità. Ricordano il discorso da lui tenuto a Monaco di Baviera nel 2007 (al Congresso sulla Sicurezza), nel quale aveva teorizzato apertamente il suo voler cambiare l’ordine mondiale. Si ricorda come l’Occidente (nel quale si include oggi anche Giappone, Corea del Sud, Taiwan e Oceania) non abbia quasi reagito ad atti eloquenti come la guerra russa contro la Georgia (2008) conclusasi con l’annessione dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia alla Russia. L’occupazione russa della Crimea nel 2014 produsse solo blande sanzioni, e di fatto l’appoggio armato russo ai separatisti del Donbass ucraino non è stato mai sanzionato. Per non parlare dell’appoggio determinante russo al regime di Bashar al-Assad in Siria, personaggio non meno tirannico e non meno baathista (cioè fascista) di Saddam Hussein[1]. Mentre accadeva tutto questo, alcuni stati europei – in particolare Germania e Italia – si legavano economicamente mani e piedi al gas e al petrolio russi. Come spiegare questa sordità al ciclone putiniano che prima o poi avrebbe investito l’Occidente?

 

 In parte essa era effetto di quella che chiamerei la dottrina Merkel, la quale a sua volta era un corollario del progetto liberale di globalizzazione. Merkel, e tanti con lei, hanno pensato che il solo modo di dissuadere e imbrigliare le politiche egemoniche di Mosca, della Cina e di qualsiasi altro fosse quello di puntare sull’interdipendenza economica. Per la globalizzazione liberale, come per la visione marxista, quel che conta in ultima istanza è l’economia, e siccome le economie russa e cinese hanno bisogno di quelle occidentali, il solo modo di mantenere la pace è legare all’Occidente entrambi gli stati con vincoli economici. Prima le serie minacce cinesi a Taiwan, poi l’attacco all’Ucraina, hanno messo seriamente in crisi questa visione ottimistica di quella che qualcuno ha chiamato “fine della storia”, ovvero l’accesso alla Pace Perpetua attraverso la globalizzazione dei mercati.

 

Un’altra ragione non meno essenziale per cui l’Occidente non ha reagito di fronte all’annessione della Crimea e ai tentativi di annessione russi delle repubbliche secessioniste del Donbass è il fatto che l’Occidente non ha una posizione chiara, coerente, sulle secessioni. E’ animato da due principi contrastanti. Uno è il principio dell’auto-determinazione dei popoli, l’altro è quello del mantenimento dell’integrità degli stati.

 

Dopo tutto, l’Ucraina ha reagito al secessionismo del Donbass non così diversamente da come ha reagito il governo spagnolo ai secessionismi basco e catalano: negando ogni possibilità di separazione di queste regioni. Molti dirigenti separatisti catalani sono in galera, altri esuli. Nessuno in Europa si è alzato per difendere l’autodeterminazione dei popoli basco e catalano, attraverso un referendum per esempio. Un problema simile si porrebbe nel caso che la Scozia votasse a maggioranza un’uscita dal Regno Unito. O della Corsica nei confronti della Francia.

 

Il prototipo storico di questo principio di integralità degli stati è quello della Civil War americana (1861-1865). Oggi tutti siamo contro la secessione dei Confederati perché questi volevano mantenere la schiavitù, mentre Lincoln è uno dei padri della patria americani. Anche americani del Sud che non possedevano schiavi si arruolarono nell’esercito confederato sulla base del principio dell’auto-determinazione del proprio popolo. Ma questo implica anche che, di fatto, gli Stati Uniti non ammettono che uno o più stati decidano di separarsi. Se l’Alaska, mettiamo, decidesse di staccarsi dagli USA con un voto popolare, Washington dovrebbe mandare un esercito per riportarla tra le stelle americane.

 

Ma d’altro canto l’Europa e l’America sono il prodotto di una serie di secessioni di popoli da stati-matrice. Come l’America potrebbe condannare senza remore la determinazione della Crimea a staccarsi dall’Ucraina (anche se dopo un referendum controllato dai russi) quando gli Stati Uniti stessi sono l’effetto di una guerra d’indipendenza contro la madrepatria inglese? Come potrebbe condannarla l’Europa, che include l’Irlanda, riconosciuta obtorto collo indipendente dal Regno Unito nel 1921?  L’Europa non si è affatto opposta, tutt’altro, agli irredentismi sloveno, croato, bosniaco, montenegrino, kosovaro… nei confronti della Jugoslavia. Né criticò il sanguinoso distacco del Bangladesh dal Pakistan nel 1971.

 

Questo è tanto più vero per l’Italia, che si è formata attraverso la secessione del Lombardo-Veneto, e quindi di Trieste e del Trentino, dall’impero austro-ungarico.

Questa accettazione deriva in gran parte dal principio che un popolo può scegliere di separarsi da un altro, ma anche da una sorta di buon senso storico: i confini degli stati non possono rimanere gli stessi per sempre. Credere che la Catalogna o i Paesi Baschi debbano far parte eternamente del regno di Spagna, come la Scozia del Regno Unito, o le Fiandre essere per sempre unite alla Vallonia,… è un’ingenuità storica. Panta rei.

 

Quel che chiamiamo Occidente ha quindi due principi contraddittori di legittimità. Essi del resto si intrecciano a due altri principi non meno contraddittori, per altri versi più fondamentali. Chiamerei uno la pace vestfaliana, il secondo la missione universalista.

Henri Kissinger[2] ha insistito sul valore della pace di Vestfalia (1648): essa pose fine alla guerra dei Trent’Anni che aveva devastato il Centro Europa. Una guerra considerata religiosa, tra cattolici e protestanti (ma non solo religiosa, le guerre sono sempre molto complesse). La pace di Vestfalia impose il principio dell’“eius regio, cuius religio”, ovvero, ogni sovrano ha diritto di avere la propria religione (obbligando magari i suoi sudditi a questa religione). Si imponeva così il principio della tolleranza religiosa tra stati, ovvero, sia i cattolici che i protestanti rinunciavano a esportare – diremmo oggi – le loro confessioni in aree di diversa fede religiosa. Questo principio vestfaliano in versione moderna suonerebbe: eius regio, cuius ideologia, dove l’ideologia (liberalismo economico, socialismo, stato confessionale, democrazia, ecc.) prende il posto della religione. E’ questo principio che spinse Kissinger e Nixon all’alleanza con la Cina di Mao negli anni 1970, principio che ha ispirato per oltre un quindicennio la dottrina Merkel in Europa (legare la Russia sempre più autocratica di Putin a un’interdipendenza economica con l’Europa occidentale) e la pacifica rivalità dell’Ovest con la Cina. Ovvero, i paesi non devono cercare di cambiare il regime di un altro, ma accettarne la legittimità politica.

 

Questo principio vestfaliano è scricchiolato quando si è imposto il principio dell’ingerenza umanitaria: un paese può intervenire in un conflitto interno di un altro stato quando si tratta di impedire un massacro di massa. Poi, nel marzo 2022, Biden a Varsavia ha detto di fronte a tutto il mondo che Putin non è un leader legittimo, ma un macellaio che va rimosso… Dichiarare un leader di un altro paese illegittimo spezza il principio dell’eius regiocuius ideologia.

Questo fu il principio che le potenze democratiche (Francia, Gran Bretagna e USA) applicarono fino al 1939 alla Germania di Hitler e all’Italia di Mussolini: anche se erano dittature, le riconoscevano come legittime. Ragion per cui decisero tutte di partecipare alle Olimpiadi di Berlino del 1936. Fu solo quando Hitler decise di invadere la Polonia che Francia e UK dovettero fargli la guerra, ovvero quando Hitler infranse il principio vestfaliano della non-aggressione di altri stati sovrani. Spesso mi chiedo: se Hitler avesse deciso di sterminare tutti gli ebrei tedeschi, ma solo quelli tedeschi, le potenze democratiche sarebbero rimaste a guardare? Il principio vestfaliano è che al proprio interno ogni sovrano, foss’anche un tiranno, può fare quello che vuole. Del resto, anche quando Saddam Hussein massacrava al proprio interno sciiti e curdi, l’Occidente lasciò fare.

 

Ma con la Rivoluzione francese un altro principio, che chiamerei missione universalista, si è imposto: quello che oggi chiamiamo dell’universalità dei diritti dell’uomo. Questi assumono oggi forme precise: diritto delle donne all’eguaglianza almeno giuridica, diritto a esprimere liberamente vari orientamenti sessuali, libertà di culto religioso e di opinioni politiche, diritto dei dissidenti di criticare il proprio sistema politico, diritti di sopravvivenza delle minoranze etniche e linguistiche. I paesi occidentali considerano questi principi validi per tutta l’umanità, anche in paesi i cui regimi sono diversi da quelli democratici. Spesso si dice “l’Occidente sbaglia a voler esportare il proprio modello di democrazia”, e in effetti l’Occidente [inteso nel senso allargato di cui sopra] ha esportato il proprio modello sulla punta delle armi (fu il caso con Germania, Italia e Giappone dopo il 1945, il caso dell’Iraq nel 2003), ma di solito l’Occidente tollera le non-democrazie che non gli sono ostili – Arabia Saudita ed Emirati arabi, Singapore, Cina, molti stati africani… Allo stesso tempo però l’Occidente denuncia le violazioni dei diritti alla dissidenza. Da qui l’appoggio sia ai dissidenti cinesi che a quelli russi contro Putin, l’appoggio alle proteste di Hong Kong contro il governo cinese (2019-2020), ai diritti dei tibetani e degli uiguri, degli anti-castristi a Cuba, ecc. Regimi autarchici come quello russo, cinese o del Myanmar sono profondamente irritati da queste interferenze occidentali nel loro modo di gestire le opposizioni, perché loro contano sul principio vestfaliano della non-ingerenza negli affari interni di un altro paese.

 

In effetti, dalla fine del Settecento in poi si sono propagate ideologie politiche universaliste che ricordano l’universalismo del primo cristianesimo (quando si trattava di evangelizzare tutti i popoli pagani): la democrazia pluralista, il socialismo, il liberalismo della società aperta. Il XX secolo ha visto la supremazia di due paesi che si sono costituiti su questa base missionaria, l’URSS e gli USA. Questo lo si vede anche dai loro nomi. In “Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche” non c’è alcun riferimento alla nazione russa, qualsiasi nazione poteva far parte, in fondo, dell’URSS[3]. D’altro canto, in Unione degli Stati Americani c’è un solo riferimento geografico, quello all’America. Ma gli USA si sono voluti sin dall’inizio un prodotto ideologico, in quanto tale esportabile: qualunque paese dei continenti americani poteva essere parte degli USA (presupposizione che è alla base della dottrina Monroe).

 

Nel XX secolo abbiamo visto il sorgere di un altro stato missionario: lo Stato Islamico. Che non è l’ISIS o Daesh, ma l’Iran. Il fatto che lo stato islamico per ora si identifichi all’Iran, un tempo Persia, è cosa contingente e provvisoria. Il progetto esplicito è di creare un mondo islamico dominato completamente dalla Sharia.

Tutte queste ideologie hanno uno spirito missionario: il loro progetto è considerato il migliore per tutti gli esseri umani, per cui dovere degli stati portatori di queste ideologie è “convertire” gli altri popoli a questo sistema. Sia esso la democrazia pluralista, il cui stato-guida è gli Stati Uniti; sia il socialismo, di cui lo stato-guida è stato a lungo l’Unione Sovietica; ma anche l’Islam fondamentalista, il cui stato-guida è l’Iran. Queste ideologie universaliste puntano di fatto a una Rivoluzione permanente: il mondo non sarà in pace finché tutti i popoli non si saranno convertiti alla democrazia liberale, o al socialismo, o all’Islam (da poco più di un secolo, il cristianesimo sembra aver rinunciato a questa conquista missionaria del mondo).

 

Da qui il carattere spesso contraddittorio e ondivago delle politiche estere occidentali. Da una parte esse non cercano affatto di indebolire il sistema politico neo-confuciano della Cina di oggi, e hanno puntato finora a tenere buoni rapporti con il regime sempre più autocratico di Putin; dall’altra i paesi occidentali appoggiano le rivendicazioni delle donne, degli LGBT+, delle minoranze marginalizzate o segregate (come i Rohingya del Myanmar, i curdi di vari paesi…), la lotta a costumi considerati lesivi della dignità della donna (ad esempio, l’escissione genitale femminile, oppure la proibizione del costume indiano del sati[4]). Da una parte la Realpolitik vestfaliana, dall’altra la missione di liberare il mondo non-occidentalizzato dalle limitazioni istituzionali delle libertà. In effetti l’Occidente ha una visione individualista della libertà: un paese è libero se sono liberi tutti i suoi individui.

 

L’invasione russa dell’Ucraina ha comunque trovato una risposta unitaria da parte dei paesi occidentali perché in essa si sono cumulate due trasgressioni gravi dei due principi contraddittori dell’Occidente, sia della pace vestfaliana, sia della missione universalista. La tempesta perfetta. Il fatto di aver invaso un paese sovrano riconosciuto dall’ONU per imporvi un cambio di regime rompe il principio vestfaliano di riconoscere come legittimi i regimi politici degli altri stati. Il fatto di aver invaso un paese democratico, con un presidente plebiscitato da un voto popolare non manipolato, appare un attacco a quella democrazia pluralista che l’Occidente persegue come fine ultimo della propria missione storica, come “fine della storia” nel doppio senso di fine. E’ vero che Bush Jr. e Blair nel 2003 avevano infranto il principio della pace vestfaliana nei confronti del regime di Saddam Hussein in Iraq (da notare che il futuro presidente Obama votò contro quell’invasione; paesi occidentali, tra cui Francia e Germania, criticarono l’impresa). Ma la loro infrazione appare a molti meno grave perché tutti riconoscevano che Saddam era un dittatore sanguinario, mentre non si può dire altrettanto del presidente Zelenskj. L’aggressione anglo-americana all’Iraq è assolutamente condannabile, ma la tempesta non era perfetta come ora con l’Ucraina.

 

Resta però una carta ideologica nelle mani di Putin: fare appello al principio democratico di auto-determinazione delle popolazioni della Crimea e del Donbass. Un appello a cui l’Occidente non può restare del tutto indifferente. (Forse per questa ragione i russi, sconfitti per ora nel Nord dell’Ucraina, paiono concentrarsi nella guerra a Sud-Est, tra Crimea e Donbass.) Questa pretesa liberatrice da parte di Putin di popolazioni che non vogliono essere ucraine è sicuramente molto più forte e convincente dei tanti vetusti carri armati mandati a farsi bruciare in Ucraina.

 

Ma se l’Occidente sostiene la tesi “fate scegliere democraticamente ai cittadini del Donbass se vogliono vivere come ucraini o come russi”, che cosa dirà allora ai catalani, ai baschi, agli scozzesi, ai corsi… quando chiederanno la stessa cosa? Sostenere quindi, anche se obliquamente, la sovranità ucraina sul Donbass, segue il principio che chiamerei lincolniano dell’integrità delle nazioni.

 

Note

 

[1] Qualcuno ha detto di recente che se l’Occidente avesse salvato Aleppo dalla distruzione da parte dei russi in appoggio al regime di al-Assad, oggi Putin si sarebbe guardato dall’invadere l’Ucraina pensando di non essere seriamente sanzionato per questo. Obama avrebbe dovuto reagire quando i siriani superarono la famosa “linea rossa” dell’uso di armi chimiche.  C’è una differenza però: che i ribelli di Aleppo si rifacevano a ideologie islamiste, per gli occidentali non meno nefaste del nazionalismo panarabista di al-Assad. In Ucraina l’Occidente ha sentito di difendere un paese che era politicamente del tutto occidentalizzato.

[2] H. Kissinger, World Order, Penguin Books, 2015.

[3] Mi chiedo anzi perché Stalin non abbia integrato i paesi satelliti – Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, Bulgaria, Germania orientale – come stati dell’URSS. Probabilmente il riconoscimento della legittimità di nazioni separate ha avuto la meglio sul progetto universalista dell’URSS di essere il magnete di ogni socialismo.

[4] Era il rito hindu con cui la vedova poteva chiedere di essere bruciata viva assieme al marito morto in India. Contrariamente a quel che molti credono, il sati era un atto volontario della donna, non un’imposizione a ogni vedova. La pratica venne proibita dal governatore britannico nel 1829.



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