Buon compleanno, Pier Paolo
di Claudia Calabrese
Caro Pier Paolo, anche nel giorno del tuo centesimo compleanno, sento il bisogno di avvicinarmi a te e alla tua opera attraverso la musica e i suoni, che hai tanto amato; permettimi di farlo, oggi, in un modo nuovo, lascia che io almeno nel giorno della tua nascita immagini di parlarti, forse anche per travalicare la tua morte. Così. Pensoso, dalle viscere del cielo, cerchi ancora una musica che sappia indicare i fili che uniscono Carne e Cielo e ci chiedi una nota, un suono che anche tu possa riconoscere come tuo per fare insieme un po’ di cammino…
Chi fui? Che senso ebbe la mia presenza
in un tempo che questo film
rievoca ormai così
tristemente fuori tempo? [1].
Chi fui? Ti chiedi. E lo chiedi anche a noi. Sei un poeta, per noi un folle amore soffiato dal cielo. Sin da quando scopri, a tre anni, che l’infinito, il cielo, è custodito nel ventre materno, il ritmo vitale si annuncia a te con un suono che proviene dal silenzio e si annida nella carne, nella realtà diresti tu, generando un conflitto che è umanissimo e di straziante bellezza. Perciò, sin dai tuoi esordi artistici, fai aderire l’orecchio al suolo – «Solo una cosa ho avuto nel mondo. Ma che cosa? […] l’orecchio… sentivo i gabbiani che cantavano, le voci dei contadini, dei pescatori, le campane e le canzonette…» – e cerchi tra i tuoi contemporanei l’arcaico, a un tempo umano e celeste, e la sorgente della parola poetica nella quale più si condensa la sostanza sonora.
Sentiamo ancora, nei tuoi versi, le pulsazioni del ‘grembo sonoro’ di Casarsa, il modo in cui risuonano sulle cose, nell’aria, nelle voci e nei volti degli abitanti, nei cortili e negli attrezzi di lavoro, nelle feste da ballo, nelle chiese, nei campi, nel canto degli uccelli, in riva al fiume, nelle foglie, nelle montagne e nelle rogge.
Oggi il mondo è cambiato, è globale: guerra, violenza, fame, ingiustizie, pandemie, spingono gli uomini alla ricerca di una salvezza che è rischio di vita e di graffianti umiliazioni. L’egoismo moltiplica i morti, in terra e in mare. La superficialità dilaga e la solitudine è tanto più feroce quanto più le persone sono immerse nella folla, il sacro è ignorato, anzi degradato a visione magica, dentro la quale ognuno mette le proprie fobie e l’infelicità è l’altra faccia del benessere. Tu ci guardi e ascolti… Sei soddisfatto della tua vita e della tua opera? Non so… Sono certa che rifaresti tutto con lo stesso amore. Sai bene che la realtà è sfuggente e insondabile, il mondo si trasforma continuamente, spinto da forze indecifrabili, e ogni singolo uomo deve prima di tutto cercare di comprendere. L’hai fatto fino all’angoscia, fino alle lacrime, hai cercato di coinvolgere i tuoi contemporanei, provocandoli sì, ma con mitezza e umiltà, eppure quanta ostilità, incomprensione… Le tue parole, le immagini che hai costruito si sono logorate diventando a volte deserti di ghiaccio. Cosa rimane di quel tentativo? Ripercorro la tua vita come in un film e mi rimangono fra le mani alcune parole, nemmeno le migliori, logorate, ignorate:
La morte non è
nel non poter comunicare
ma nel non poter più essere compresi [2].
Chi volevi essere quando hai aperto poeticamente i tuoi occhi sul mondo e cantavi come un Usignolo? Un Cristo, un povero Cristo: c’era un destino in te, i sogni fanciulleschi mai dimenticati… Ti sei trovato dentro una realtà sociale inscalfibile: cosa può fare un uomo? Non potevi certo decidere il tempo in cui nascere, potevi solo essere te stesso.
Noi staremo offerti sulla croce, alla gogna,
tra le pupille limpide di gioia feroce [3].
Caro Pier Paolo, hai cercato amore e tenerezza e li hai donati fino alla fine: nel fuoco della tua poesia, nelle tue scorribande notturne. E sì che all’inizio, nel grembo di Casarsa, che sentivi come una proiezione del grembo di tua madre, eri uno spirito gioioso alla ricerca del cuore segreto della realtà, di una realtà contadina, sempre uguale a se stessa nel corso del tempo, come, forse sbagliando, credevi. E cercavi nel rapporto tra parola e suono, tra parola e musica una sorta di Aleph, di recinto sacro, dove si annida la relazione profonda tra uomo e natura, tra Carne e Cielo.
La morale celeste
fa scoppiare le parole d’amore; le rompe, le disperde,
le alza, le soffia. […]
Volano le parole come nuvole [4].
È lì che sei ora? Lì dove la parola non è contaminata dall’esperienza umana e canti
Tutto il mio folle amore lo soffia il cielo, lo soffia
il cielo. Così [5].
Quale cielo, Pier Paolo; dove ti trovi? Sei stato uomo, ma ora… senti ancora, come allora?
Come i poveri povero, mi attacco
come loro a umilianti speranze,
come loro per vivere mi batto
ogni giorno [6].
L’eternità del mondo popolare che, a volte, hai chiamato “viscere” erano le tue stesse viscere… Ma il Novecento è stato un secolo tremendo che ha sconvolto ogni rapporto sociale. E ora il nostro tempo è ancora più violento: avevi ragione, il Capitale, con le sue leggi, è esploso, ha travolto ogni uomo e ogni cosa è merce, compresa l’anima, i corpi… Ancora come allora mi sembra di sentirti gridare
Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi abbandonati
sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli [7].
E il tuo grido è come un pianto, come oggi è quello dei bambini, delle donne, degli uomini che scappano dalle bombe, che esplodono e piangono. Come la scavatrice. Eri tu la scavatrice Pier Paolo, era tuo il pianto. Come potevi accettare senza reagire che gli uomini, tuoi fratelli, fossero ridotti a merce che consuma altra merce, e venissero sradicati dalla loro stessa umanità dalla ‘mutazione antropologica’, che stava avvenendo a opera del grande Capitale, e gettati in un futuro da marionette? Eri solo, consapevole e personalmente ferito…
Solo come un cane, per dir meglio, arido
come paglia secca, o come luce
che non dà luce a nulla [8].
[…] Aiuto, avanza la solitudine!
Non importa se so che l’ho voluta, come un re. […]
Ho voluto la mia solitudine.
Per un processo mostruoso
che forse potrebbe rivelare
solo un sogno fatto dentro un sogno…[9].
Per essere poeti, bisogna avere molto tempo:
ore e ore di solitudine sono il solo modo
perché si formi qualcosa, che è forza, abbandono,
vizio, libertà, per dare stile al caos [10].
Sì, è la solitudine dei poeti, che compiono viaggi dove nessuno è ancora arrivato. E guardano alle loro spalle per vedere se qualcuno li segue… Viaggiavi, Pier Paolo, soprattutto nel Terzo Mondo alla ricerca della forza vitale, dell’arcaico e del sacro che speravi si trasferissero nel futuro, dell’anima che l’Occidente pareva aver perduto. Cercavi di comunicare con quel mondo. Anche là, cercavi con ogni mezzo, anche con la musica, di farti comprendere… Un giorno in India, ricordi quel ragazzino?
teneva in mano uno zufolo, o un flauto […] Era
incerto se suonare o no: e i suoi compagni sorridevano
intorno, lo incoraggiavano. Poi si decise. […] Era una vecchia
melodia indiana […] una frase spezzata,
strozzata e accorante, che finiva sempre, come ogni aria
indiana, con una specie di lamento quasi gutturale,
un dolce, patetico rantolo: ma, dentro questa tristezza, era
contenuta una specie di nobile e ingenua allegria.
Il ragazzo suonava il suo flauto, e ci guardava.
Pareva che, suonando a quel modo, ci parlasse [11].
Suoni comunicanti nelle profondità dell’esistenza… suoni compresi con l’attenzione di chi sta dentro la fucina di una Storia avversa e cerca di costruire la propria identità nel confronto/scontro con il mondo che diventa sempre più concentrazionario. La curiosità, l’amore e la conoscenza interagiscono continuamente. Man mano che gli uomini acquisiscono una coscienza della propria condizione nasce in loro il desiderio di cercare qualcosa che assomigli all’eterno e all’infinito. Spero ancora accada all’uomo immerso dentro l’immondezzaio delle guerre. Ciò che conta, ciò che conta veramente è il momento attuale della relazione, dell’interazione… non basta la sua storia passata. Ecco com’è che “il divenire”, nel fuoco del “qui ed ora”, influenza a sua volta, quando si manifesta, “l’essere” e lo spinge ad evolversi…
Solo l’amare, solo il conoscere conta, non l’aver amato,
non l’aver conosciuto. Dà angoscia
il vivere di un consumato amore.
L’anima non cresce più [12].
L’abbiamo dimenticato, caro Pier Paolo: “amore”, “conoscenza”, “anima”, sono parole consumate e stravolte dall’uso. Come “angoscia” del resto. Penso che queste parole, così importanti, debbano essere poeticamente ricollocate nel nostro tempo, nella vita quotidiana. Anche per le parole, queste in particolare, vale la tua affermazione che la morte è nel non poter più essere compresi. O nell’essere continuamente travisati, aggiungo. Tu pensavi al culmine di una disperazione che non minava la tua vitalità che la musica fosse l’unica azione espressiva/ forse, alta, e indefinibile come le azioni della realtà [13]. Una musica che, cantando e reinterpretando le parole, può ricollocarne nel tempo i significati, interrogandosi sul senso profondo, ancorato alle viscere del cielo. Ho detto può, ma volevo dire deve.
Sento che ti chiedi ancora chi fosti. Sei un poeta, Pier Paolo. Per noi, un folle amore soffiato dal cielo… Buon compleanno!
Il ricordo di un grande, incompreso poeta, ritratto da una autentica poetessa.
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