16 maggio 2022

DENTRO IL CINEMA DI PASOLINI

 









DENTRO IL CINEMA DI PIER PAOLO PASOLINI

di minima&moralia pubblicato lunedì, 16 Maggio 2022 · 


Riproponiamo un pezzo uscito sul numero di marzo di Linus, che ringraziamo.


La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita”.

Così scriveva Pier Paolo Pasolini, nel 1967, sovrapponendo l’esistenza al cinema, quella nuova lingua che lo stava divorando, come una febbre. L’ultimo respiro che coincide con l’ultima, definitiva dissolvenza a nero, fissando per sempre i momenti decisivi di una biografia, e collocandoli nella giusta successione. Dando forma all’informe, facendo di un presente indefinito, un passato chiaro e stabile.  Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci: così concludeva il suo testo, raccolto in Empirismo eretico.

Ancora oggi, a quasi mezzo secolo dalla sua fine, così tremendamente cinematografica, e così agganciata, comunque la si voglia archiviare, alle tappe cruciali della sua esistenza, la vita e l’opera di Pasolini continuano a scrutarci dentro. Lampanti e oscure, come le profezie dei suoi film legati al mito.

Non si rassegna a dissolversi, forse più di tutto, il corteo inquieto dei suoi corpi cinematografici. Stretti nel loro tempo, splendidamente inattuali, e quindi vivi per sempre, i suoi personaggi sembrano convivere dialogando, in uno strano montaggio interno.

Bisognerebbe forse essere impudenti, con il monumento Pasolini. Continuare ad amarlo, lui che si sentiva una forza del passato, animati da un sentimento non decorativo. Percepirlo come un oggetto di complessità irriducibile, eppure capace di generare ancora nuova storia. Provare ancora ad interrogarli, i suoi fantasmi impressi su pellicola.

A un primo sguardo, alcuni di loro appaiono datati. Incastrati in concettose operette morali, in allegorie nazionalpopolari di sapore gramsciano, per cui forse non esiste più un alfabeto condiviso, che consenta di decifrarle pienamente.

Eppure, se li si guarda più a lungo, o con maggiore leggerezza, alcuni di loro brillano ancora, come sopravvissuti al loro creatore. Reperti in movimento di un’antropologia iconografica, raccolta da un trituratore di linguaggi, capace di fagocitare e ricreare ogni disciplina. Del cinema, a catturarlo, era anche la fragilità della pellicola: “Poco più robusta di un’ala di farfalla, affidata a un circuito, altrettanto labile. Tutto il cinema è fragile.  Destinato a sparire presto, rispetto alla tenuta secolare della letteratura”. Una fugacità dolorosa, che lo invitava alla sfida, all’ennesimo gioco estremo: fissare frammenti labili di attualità, trasformandoli in qualcosa di ieratico, e assoluto. Abbandonandosi ad un cinema vissuto come spasmo fisico da set, accollandosi il peso fisico della cinepresa Arriflex. Lo sguardo nel mirino doveva essere il suo, mentre scorrazzava in lungo e in largo per tutti i terzi mondi possibili, dalle borgate di Roma, all’India, allo Yemen, passando per la Palestina e il cuore dell’Africa. Cercava, tra corpi, volti e azioni, scintille di autenticità. Le scovava a tratti, negli estremi: nel massimo della finzione costruita da attori  consumati, nella smorfia casuale di un adolescente, o nella ritualità automatica di un gesto tramandato nei secoli.

Captando l’ultimo alito di poesia in un Totò usurato dai troppi film e rivitalizzato dall’affiancamento di quel garzoncello scherzoso di Ninetto Davoli, sbucato dalla borgata, col sole in fronte. Non ci sono limiti, per Giotto Pasolini, mentre affresca il suo cinema. Può doppiare Orson Welles con la flemma di un letterato, e selezionare il proprio Giasone tra gli atleti olimpici. Scova quanto di ancestrale si annida nel divismo di Maria Callas, per farne la propria Medea. Consacra, in forma estrema, la malinconia invincibile di Silvana Mangano. Oppure infila, un po’ contronatura, Anna Magnani tra veri popolani. Forse sbagliando, ma rendendola Mamma Roma per sempre. Sceglie un timido, anonimo figurante di Cinecittà, prete mancato nella vita, per cucirgli addosso il ruolo di un raggelante, fin troppo esatto, ferocissimo presidente di Banca, doppiato da Marco Bellocchio.

Stando, per convenzione, a quella storia lineare, illusione laica che Pasolini aborriva, si constata che il suo cinema dura quindici anni, dal 1961 al 1975, in parallelo alla sua ultima, incendiaria stagione di vita. Oscillando fra quelli che potrebbero ritenersi i suoi film più compiuti: Accattone e Salò.  Dal sole spietato di un’estate romana, alla bruma mortuaria delle campagne emiliane, dall’anarchia della miseria a quella del potere senza limiti. Dal dannato della terra Franco Citti che chiude l’ultima fuga schiantandosi sull’asfalto di Testaccio, esalando tutto il suo romanesco sollievo: “Ah, mo sto bene”, ai quattro repubblichini sadiani intenti a ballare motivetti di tetra leggerezza, a suggello di un estenuante rituale di soprusi, coprofagia e torture mortali.

La prima folgorazione pasoliniana per il cinema si era consumata in Friuli, nel primo dopoguerra, davanti ai film del neorealismo. Elettrizzato da quello schermo che si riempiva d’aria aperta, di facce ruvide e ambienti veri, polverizzando di colpo anni di claustrofobica autarchia, stucchi, retorica e telefoni bianchi, Pasolini orientò la sua vocazione di narratore. Intravedendo quel linguaggio specifico che avrebbe maturato definitivamente a Roma, qualche anno dopo, smarrendosi e ritrovandosi nelle borgate. La pubblicazione di Ragazzi di vita, nel 1955, lo porta all’attenzione dei cinematografari, smaniosi di rendere più morboso il popolaresco oleografico del neorealismo rosa, che già cominciava a stuccare il pubblico.

La penna pasoliniana, la sua presa diretta sul mondo periferico, torna utile per rendere più vere le notti brave, e quelle di Cabiria. Ma a Pasolini non basta mettersi al servizio dell’estetismo di Bolognini, delle sue prostitute da passerella e dei suoi malandri troppo glamour. Non lo soddisfa del tutto nemmeno addensare le ombre più scure dell’onirismo felliniano.  La vocazione sansebastianesca lo chiama ad esporsi in prima persona, per inventare, da sfacciato neofita quarantenne, il suo cinema. Travasando su pellicola, in Accattone, l’amato mondo epico sacrale di borgata.

Il cinema, per lui, non è una nuova tecnica da imparare: lo vede come una lingua, capace di rappresentare la realtà “non attraverso dei simboli, come sono le parole, ma attraverso la realtà stessa. Vivendo sempre al livello, e nel cuore della realtà”. Bei concetti, che non bastano a sedurre Federico Fellini, amico e suo primo potenziale produttore: “Sei troppo sgrammaticato” sentenzia inorridito davanti ai suoi provini malfermi, ai raccordi di montaggio sbagliati, delle sequenze di prova di Accattone.

Ci vorrà un altro irregolare, come Alfredo Bini, perché Pasolini possa esordire al cinema, portando sullo schermo quel sottoproletario metafisico di Franco Citti. Povero cristo che trascina la sua camminata indolente, ai margini della città di Dio, in una via crucis rovesciata, drammatizzata dalla sacralità di Bach.  Pasolini lo ha scelto per i suoi occhi neri di putto, infantili ed intensiper la sua corporeità da figura di Masacci. Lo considera il suo Toshiro Mifune, indovinando in lui un lutto sottile per se stesso, misterioso e inestinguibile. Da samurai disonorato, che forse ha perso ai dadi katana e corazza, in qualche altra vita, e adesso striscia passi e parole nella polvere del Pigneto. Doppiato abilmente da Paolo Ferrari, Accattone parla un romanesco aspro e preciso, inedito, elaborato da Pasolini con la consulenza del suo lessico vivente Sergio Citti, fratello del protagonista. Incontrandolo anni prima, nelle sue ricognizioni ai margini della grandiosa metropoli plebea, Pasolini aveva trovato in lui “un’aridità stoico epicurea: curiosa della vita e priva di ogni illusione su di essa”. I Citti gli sembravano avvolti dal soffio mortuario e vitale dello scetticismo belliano, libero dal pensiero angoscioso del domani, di uno sviluppo imposto da modelli esterni, consumistici o ideologici che fossero. Pasolini trasferì questo spirito in Accattone e nel suo mondo, inquadrando il suo pappone con una frontalità pittorica sacrale, collocandolo al centro di ogni prospettiva. I raccordi di montaggio un po’ ruvidi, le sgrammaticature, non tolgono incanto religioso al suo film. C’è una sequenza onirica, quasi bunueliana, in cui il protagonista vede il suo funerale. Pasolini strappa via l’audio, lasciando come unica pista sonora il silenzio artificiale di una sala di sincronizzazione. Rotto solo, in primissimo piano, dall’ansimare di Accattone, immerso nel suo sogno angoscioso.

Il cinema pasoliniano, nel suo nascere, ricodifica il già visto: lo stabilimento balneare tiberino del Ciriola, all’ombra di Castel Sant’Angelo, era stato, solo qualche anno prima, il teatro delle schermaglie amorose dei Poveri ma belli di Dino Risi. I due bulletti da rotocalco, Renato Salvatori e Maurizio Arena, ammaliati dalla maggiorata Marisa Allasio, sono disposti a ripiegare, nell’ovvietà del lieto fine, sulla solidità del focolare, custodito dalle brave ragazze di casa Alessandra Panaro e Lorella De Luca. Per Pasolini quello stesso barcone diventa un luogo di prove mortali, da consumarsi tra un’abbuffata e una partita a carte, mandando a battere le rispettive donne per tenere lontano l’odioso spettro del lavoro. Un verismo prosaico, disturbante. Eppure, quando Citti si riempie di cibo, adornandosi poi di tutto l’oro malguadagnato che ha, tra catenine e bracciali, quel suo tuffo a volo d’angelo nel Tevere, quel suo rinnovare la quotidiana scommessa con la morte che gli grava addosso, genera una strana commozione. Sembra un lampo di poesia bestemmiata, che promette di risuonare per sempre. Dopo il tuffo, intorno a lui, gli amici sghignazzano del suo esser sopravvissuto, come avrebbero coperto di risate la sua morte. Accettandola, senza lambiccarcisi troppo, come un mistero necessario dell’esistenza.

Come la stessa vita che gli è piovuta addosso, del resto. Ridono forte, di quel “riso malandrino che abolisce ogni regola della vita, in un’allegria stoica e antica. Facce di peoni, di mozzi del Potemkin, di frati”. Più miserabili che poveri. E forse anche brutti, a guardarli con occhi convenzionali. Eppure eterni, forse per eccesso di verità. In quel mondo marginale e rimosso, osservato a lungo e da molto vicino, Pasolini scorge, nitide e violente, le contraddizioni dell’esistere. Anche ne La Ricotta il protagonista è un sottoproletario. Stracci, comparsa ingaggiata in un film biblico, nella parte del ladrone buono, muore crocifisso su di un Golgota allestito nella periferia romana, fulminato da una blasfema indigestione. Tra le risate di scherno degli altri figuranti, si è ingozzato di ricotta e dei resti dell’Ultima Cena. “Povero Stracci! Crepare, non aveva altro modo per fare la rivoluzione!” è l’epitaffio bofonchiato ai piedi della croce da Orson Welles, qui nei panni del regista del  peplum cristologico. La sua battuta incappa nelle maglie di una censura biecamente sentimentalista, e diventa: “Non aveva altro modo per ricordarci che anche lui era vivo”.

Pasolini affida al più bigger than life dei registi attori della sua epoca, attutito dal doppiaggio compassato di Giorgio Bassani, il ruolo di un suo strano alter ego: un cineasta che odia superomisticamente la ferocia ignava dell’uomo medio. Cristiano problematico, cede però al compiacimento della confezione colta, estetizzando la crocifissione, citando Pontormo e Rosso Fiorentino. Quando deciderà di maneggiare davvero la vicenda di Cristo, partendo dal Vangelo secondo Matteo, Pasolini andrà in direzione opposta, affidando la parte da protagonista Enrique Irazoqui, ingaggiato per la sua faccia Messia dipinto da El Greco, scabra come i sassi di Matera, set principale del film. E’ un Gesù di dura forza morale, che non risparmia se stesso. Le sequenze della Passione vengono girate con grande pudore formale, come se un trafelato cineoperatore stesse raccontando l’evento da inviato speciale a Gerusalemme, ricavandosi una visuale tra la folla in subbuglio.  Il messaggio cristiano mescolato a quello marxista, e la vocazione ad immolarsi, lasciandosi mangiare, da maestro, in salsa piccante, sono al centro di Uccellacci e uccellini.

Stavolta l’alter ego di Pasolini è un corvo, doppiato con morbida petulanza emiliana da Francesco Leonetti. Il nero pennuto è un marxista pieno di dubbi, aperto ad ogni contaminazione, che odia Stalin e sa che il suo tempo sta finendo. Ma, forse, non le sue idee.

Si sceglie come allievi Totò e Ninetto Davoli, seguendoli su viadotti autostradali in costruzione, in una Roma marginale e disseminata di cartelli che indicano quanto siano distanti, e, in fondo vicine, le capitali del terzo mondo. La coppia, composta dal vecchio attore e dal pischello, mostra una chimica che li rende eterni, come personaggi di una striscia di fumetti che potrebbe durare all’infinito. Pasolini lo aveva intuito: con loro avrebbe voluto inaugurare il filone tragicomico della sua cinematografia, trascinando il loro comico stupore in lungo e in largo per un’Italia apocalittica. Il progetto sfumerà con la fine improvvisa del Principe De Curtis.

Ninetto ci mette la malizia beffarda, e la scanzonata gioia di essere al mondo. Totò la dolenza crepuscolare di una grande maschera, una marionetta disarticolata dai movimenti ormai limitati. Eppure capace di slittare, in un rotear di pupille, dalla follia all’umanità più profonda. Logorato dalla ripetitività di un cinema industriale, e dall’indifferenza cattiva dei critici, trova in Pasolini un genio oscuro e affascinante, a cui si affida istintivamente.

Nel film Totò e Ninetto sono padre e figlio, poveri, ma non abbastanza, persi in una vita che non sentono il bisogno di capire troppo a fondo, gelosi della propria innocente inconsapevolezza. Il corvo analitico gli racconta storie medievali, di un mondo eternamente scandito dai soprusi, dall’uccellaccio che pappa l’uccellino. I due finiranno per mangiarsi lui, proseguendo il loro cammino verso un orizzonte utopico molto incerto.

Di certi altri film pasoliniani restano lampi: in Teorema, la corsa finale, adamitica, con urlo disperato, del solitamente azzimato Massimo Girotti, alle pendici del Vulcano. Protervo industriale milanese, viene messo a nudo, fuor di metafora, dall’arrivo in casa di un seducente ospite inatteso. Capitani d’industria poco rassicuranti sono anche Alberto Lionello, con baffetti hitleriani, in carrozzella spinta da Marco Ferreri, e Ugo Tognazzi. Protagonisti di Porcile, sembrano disegnati da Grosz e recitano alla Brecht. Nel cast c’è anche il feticcio di Truffaut, Jean Pierre Leaud. Rampollo di Lionello, è carnalmente innamorato dei maiali domestici, che finiranno per divorarlo. Il sesso torbido, vitale, liberatorio, irrisione innocente del potere, unico antidoto rimasto all’omologazione: Pasolini lo vede come un’utopia, e gli dedica la sua trilogia della vita. Partendo dal Decameron, passando per Canterbury, approdando alle Mille e una notte. Poi, forse, quando percepisce di aver propiziato il filone pecoreccio del decamerotico, culminante in titoli come I racconti di Viterbury, si vede costretto all’abiura. Sente che il sesso, attraverso una falsa permissività, è diventato un prodotto di consumo come un altro, perdendo la sua fosca magia. E’ tempo di alzare la posta, traslando le sadiane centoventi giornate di Sodoma nei giorni cupi Repubblica Sociale Italiana.  Salò, girato nel fatidico 1975, vede come protagonisti un duca, un banchiere, un presidente di tribunale e un monsignore. Espressione di un potere degenerato, senza limiti, rastrellano un gruppo di ragazzi scelti, e li recludono in una villa lussuosa. Qui li tortureranno fino alla morte, incasellandone i supplizi in un regolamento stilato ad hoc. Strutturato per giornate e gironi danteschi, in una spirale che passa dagli stupri sistematici, alla coprofagia, fino all’assassinio. Una gigantesca allegoria dell’anarchia del potere, dei rituali rovesciati di una sacra rappresentazione.

I potenti esaltano la propria aberrazione, costruendosi una giurisprudenza su misura. Tra citazioni filosofiche e leggi ad personam, con un’ironia tragica quasi insostenibile, il diritto, nato per abolire la barbarie in nome della civiltà, serve solo per giustificare l’abuso. Trasformando il sesso, ultima libertà individuale possibile, in strumento di coercizione.

Definire Pasolini come un profeta, è ormai quasi un tic, inveterato nei decenni. Eppure in questo film, che la morte violenta ha trasformato nel suo ultimo urlo, appaiono sinistre risonanze con la contemporaneità. Spiare dall’alto gente reclusa, con occhi meccanici, cercando, da voyeur, di catturare un attimo di sesso, o di violenza. Lo fanno i signorotti di Salò, ma è anche il principio di fondo dei tanti grandi fratelli e affini, spuntati come micosi negli ultimi decenni. E poi ci sono file di uomini e donne, giovani e anziani, che premono alle porte degli studi televisivi, per sedersi su tristi troni, e offrirsi alla scelta, come oggetti sessuali. Cercando di assomigliare tutti allo stesso modello omologante, in cui il pusher di periferia è indistinguibile dal creatore di start up, o dal calciatore, come la velina dalla blogger, o dalla parrucchiera.

Tutti smaniosi di darsi in pasto, non si sa bene a chi: agli altri concorrenti, al pubblico televotante, alla gogna virale del web e dei meme, oppure a quelle signore che dominano lo studio, e somigliano un po’a novellatrici sadiane.

Tutto invita a dimenticare per sempre la dignità del privato, la possibilità di vivere con pudore, e quindi con maggiore gusto e pienezza, sentimenti e perversioni. Anche la trasgressione artistica, persino rozzamente blasfema, oggi è misurata in talent e ridotta a sterile prodotto da supermercato. Così l’Osservatore romano può comodamente superare a sinistra, per arguzia, un maudit da operetta con il nome rubato a un armatore. Nel cinema, la soffice ma pervicace dittatura del mercato suggerisce di non toccare zone oscure, della storia recente italiana e del suo presente, che pure offrirebbero ricca materia per sceneggiature. Lo aveva presentito, tutto questo, la Pizia Pasolini? Sapeva davvero, anche se non aveva le prove?

Vai a sapere. La vita è inconoscibile, e forse nemmeno la morte è un final cut chiarificatore.

La vita finisce dove comincia: questa sacra, sofoclea circolarità doveva averla colta Edipo Citti, a cui nemmeno l’accecarsi aveva aperto definitivamente gli occhi sulla verità ultima delle cose. “Siamo in un sogno, dentro un sogno” mormora Totò Jago, verde di bile, all’Otello Ninetto, di Cosa sono le nuvole? 

E forse ha ragione quando spiega, a modo suo, che la verità interiore di una figura umana rimane sacra, perché indicibile, avvolta nell’indeterminatezza poetica. Davanti al pupo Ninetto, che sente un soffio di vita crescergli dentro, Totò sentenzia grave. “Ecco, quella è la verità. Ma non bisogna nominarla, perché appena la nomini, non c’è più”.



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