04 maggio 2022

PER BIANCAMARIA FRABOTTA

 



PER BIANCAMARIA FRABOTTA

di Marco Corsi

La poesia non è fatta per essere ricordata, ma per vivere di bocca in bocca, nelle letture silenziose, sulla pubblica piazza, con toni pacati oppure oscenamente, in allegria, nella tensione, nella più evidente indifferenza. Ecco, gli occhi di Biancamaria non potranno mai risultare indifferenti, neanche ai più indifferenti alla letteratura, perché in quegli occhi ha sempre vissuto l’intelligenza della poesia, con studio, rigore e passione. Ma soprattutto con una straordinaria e pungente umanità attraverso la quale, lei, Bianca, ha saputo farsi interprete partecipe del nostro tempo. Dal movimento femminista degli anni Settanta ai classici, trovando una strada naturale nell’esperienza dei giorni, la sua poesia si è fatta sempre più prossima alla vita, filosofica e a suo modo religiosa, eleggendo a proprio vessillo, negli ultimi anni, il “buen retiro” di Cupi. Quella casa a due passi dall’Uccellina divenuta un luogo di incontri e di amicizia, una spiaggia di poeti senza lido. Gli eterni lavori, I nuovi climi, e poi Da mani mortali sono libri di una maturità estrema e bucolica, profondamente coerente rispetto alla tensione degli esordi. I primi flutti di Affeminata e de Il rumore bianco erano già felicemente approdati nel porto de La vindanza, primo libro uscito nello Specchio Mondadori nel 1995, uniti da quella solida struttura gemellare che congiunge il poemetto Eloisa, che chiude la raccolta dell’82, a quello autobiografico, in senso pieno e compiuto, eponimo al libro uscito più di un decennio dopo. Un libro di assalti e rinunce, ruvidamente attaccato al polipaio della vita, alla sua profondità insondabile, araldica, turbolenta, come un anticiclone. Fu così che si rivelò in maniera forte la sua voce, che già risuonava da decenni sui banchi della Sapienza, a Roma, indicando ai suoi studenti più di una via d’accesso alla poesia, promuovendone lo studio, affidando tesi di laurea su qualcosa di vivo, niente a che fare con la filologia.

Le ragioni del fare poesia sono infaticabili, un «cantiere sempre aperto», manutenzione costante alla vita, quella «sedentaria», quella nomade, quella «ammaestrata» e accudita con prudenza, anche attraverso le parole. Non stupisce dunque il profondo legame della poesia di Bianca con le tante “terre contigue” che ha attraversato, trovando nella distanza un centro inesauribile. Così è stato anche ne La materia prima, raccolta inedita pubblicata nel complessivo Tutte le poesie del 2018, e così sarà ancora nel libro che tra poco vedrà la luce per consegnarci ancora, intera, la sua voce: Nessuno veda nessuno.

Sarà ancora occasione per trovarci annullati nel suo nome, tutti parte del coro umanissimo dell’esistenza.

 

*

 

da Il rumore bianco (1982)

 

per adelaide

 

Come deve farsi esile, minuta la vita
nel filo scabro di un rigo di poesia
non come una giovinetta tuffarsi
ma assottigliarsi fino a sparirsi
a tradirsi, non il collo maudit
di Ade che ride sotto il cappello
ma un’ode minore, minima, un soffio
eppure una gabbia per le tue movenze
di felino domestico, pulcino danzante, elegante
non chiedermi più, accontentati
la metamorfosi delle tue forme leggiadre
mima, perdonami: è mimesis anch’io.

 

da La viandanza (1995)

 

AUTORITRATTO IN TERZA PERSONA

 

Ieri vantava l’aderanza allo specchio
la sazietà dei piedi ben fatti, patti
in vista di ulteriori concessioni, tempi
più lunghi e magari il tiro
corretto al selvatico bilancio d’età.
Oggi nutre raminghe speranze di sparire
nelle sembianze di un gatto, un colpo di tosse
il lento vogare di un cappello a mezz’aria.
Domani non ci sarà più tempo
per l’uso pigramente italiano
del verbo, il sereno ottativo
del dovrei essere stato.
Ma divampando potesse essere lei una
combusta orma al fuoco dell’ellisse
temeraria, mite ombra e pur sostanza
di quel sole che non teme eclisse.

 

da Terra contigua (1999)

 

Arrogante garrivi alle stelle la tua dolce nenia
il fiore ancora in nuce nello scapo
e la felicità, l’ottusità d’una caccia svogliata
mai così rasente alle promesse dell’età sfacciata
ti annoiava e ti seguiva come una cagna fedele
nel subbuglio dei tuoi astratti furori.
E ti eludeva anche da quel suo astuto
gioco a tutti commestibile, ma non a te
che la morte segreta stornavi ad ogni giro
e t’era consorte l’incanto, l’incubo dei bari.
Tu non volevi altro se non l’impossibile
la tratta di favore, il pagamento del riscatto
minacciando altrimenti colpi di testa
colpi di teatro memorabili che l’indomani
bruciavi al nuovo giorno sotto dettatura.
Non tolleravi la dittatura del giorno.
E libertà t’erano gli scuri chiodati
il fresco osceno invito della notte.

 

da La pianta del pane (2003)

 

Quasi che il sonno, l’uno all’altra
li rapisse, nel buio intrecciano le dita
si sfiorano con la punta del piede
e pensano – gli estremi si toccano
nel cuore della notte.
Uno dei due già sogna anche per l’altro.
Incline più al contagio che al presagio
s’addormenta l’amore coniugale
mano nella mano, la vita cinta
come per una danza, mentre l’altra
vita preme ai cancelli del rimosso
e li piega. Entrambi sul fianco sinistro.
L’alba li sveglia un poco più fratelli.

 

da Da mani mortali (2012)

 

Oltre la soglia del letargo, una foglia
pende ancora a lato del legno, trema
si rimette al vento con l’astuzia dei deboli.
Ha conosciuto la pietra e l’agio delle erbe
la prima generazione dei biancospini.
Irti più del filo spinato che li regge
proclamano la resistenza all’inverno
mentre un riemerso brulichio di molti
silenziosamente li lavora nel tepore.
La pianta è un cantiere sempre aperto
a chi vi torna senza avere memoria.
Sappi che frenerò ogni desiderio
di spronarla, questa ottusa pazienza
di durare, per ora, senza dare ombra.

 

da La materia prima (2018)

 

Parlò per bocca tua e disse.
Non stai morendo Bianca.
E fu vero il mio nome.
E fu pace dalla prima linea
ai miei mozzati respiri
fu silenziato il silenzio.
Senza il tuo amore
il suo pensare secondo
l’agire, mio teste
di chiara visione
m’avrebbe rapito, quella
druda, col passo pesante
del suo fiato. Eccomi. Eccoti.
Chiama me, smunta e di poco
sangue. Non posso fermarmi.
Devo andare al confronto
al conforto sicuro
abbandonare la guida del giudizio.
Ma tu insistetti, mio maratoneta
sgomitando, maleducatamente.
Imparate maldestri innamorati.
Non ci si può limitare
a guardare quello che succede.

 

I testi sono tratti dal volume Tutte le poesie. 1971-2017, postfazione di Roberto Deidier, nota biobibliografica di Carmelo Princiotta, Mondadori, Milano 2018.


Pezzo ripreso da  https://www.leparoleelecose.it/?p=44028

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