Dopodomani ai Cantieri Culturali della Zisa si parla di Giovanni Verga.
Qui di seguito ripropongo un bel saggio di Bernardo Puleio, pubblicato lo scorso 1° maggio sulla rivista DIALOGHI MEDITERRANEI, che mette a fuoco i rapporti tra il grande scrittore catanese e Leonardo Sciascia. (fv)
Verga e Sciascia, tra storia e identità siciliana
«Sempre più, col passare degli anni, sento la musicalità di Verga. Sul tessuto, aspro e serrato, della sua prosa s’è deposto non so che di soffice; il suo linguaggio invecchiando s’è vellutato, come certi vini troppo forti alla svinatura.
Il barbaglio verista, i programmi pessimisti, le intenzioni sociali, i grumi di dialetto, tutto s’è disciolto in un chiaroscuro profondo e continuo; al di sopra dei significati che sbiadiscono, emerge una cadenza allettatrice e triste, una melodia nostalgica e sirenica, nella quale – intercettata da lontananze dolcemente funeree – mi pare di cogliere ciò che v’è di più inestinguibile nell’accento di Verga» (G. A. Borgese, Corriere della sera, 26 luglio 1931).
Gli alberi genealogici rivelano molto della identità, nella continuità come anche nella innovazione, tra i diversi rami appartenenti alla stessa pianta. Gli alberi genealogici della storia letteraria siciliana hanno ramificazioni complesse e a volte anche piuttosto contorte. Per esempio, la linea verista di Verga – Capuana e De Roberto viene conflittualmente contestata da Pirandello col quale si apre una nuova genealogia. E se è vero che Pirandello, della generazione precedente stima Capuana, è anche pur vero che il drammaturgo agrigentino intravvede nell’autore del Marchese di Roccaverdina come anche delle novelle e soprattutto del Decameroncino [1] una linea di rinnovamento e di spostamento graduale rispetto ai modelli letterari precedenti. Con l’autore de I Malavoglia i rapporti rimasero sostanzialmente complicati, caratterizzati da una certa incomunicabilità [2].
E Sciascia? Sciascia amava Pirandello considerato, sia pure nella logica di un conflitto aperto e stimolante, come una figura paterna [3] da contestare anche ma, alla fine, da riapprezzare e riconoscere come punto imprescindibile di riferimento. E se uno ama Pirandello non può amare Verga, parafrasando un’intervista rilasciata dallo stesso Sciascia [4] che mette a confronto modelli dialettici, rami diversi difficilmente congiungibili di diverse identità letterarie appartenenti a genealogie distanti.
In questo saggio, verranno analizzati alcuni elementi di confronto e di scontro tra il maestro di Racalmuto e lo scrittore catanese. Sia pure nella diversità dei paradigmi, degli obiettivi dell’opera letteraria, ma anche nella diversità della prospettiva di analisi dei problemi sociologici, si cercherà di considerare l’opera di Verga come un imprescindibile, anche nella diversità, test di confronto, soprattutto nella designazione sciasciana dell’uomo siciliano, un paradigma antropologico plurisecolare, atemporale, metastorico. E si può anticipare che alcune delle riflessioni che scaturiscono dall’opera verghiana, abbiano costantemente attraversato la scrittura di Sciascia.
Al contempo, si cercherà di vedere come, attorno al 1960, in occasione del festeggiamento dei cento anni della spedizione garibaldina e dell’Unità d’Italia, evento nei confronti del quale il progressista Sciascia è assolutamente refrattario e fortemente critico, in un’ottica polemica, Verga e, soprattutto la novella Libertà, abbiano costituito uno spunto fondamentale per la sua riflessione anti risorgimentale. Si vedrà, infine, come, soprattutto nella seconda metà degli anni ‘70, quando lo scrittore si chiude in un pessimismo anti storicista ed esistenziale, Verga diventi prototipo nel tracciare una identità siciliana fissa e inamovibile [5] che troverebbe il suo antesignano nell’opera del dimenticato Argisto Giuffredi, autore dei misconosciuti Avvertimenti cristiani, cioè insegnamenti cristiani, rivolti ai figli, opera in cui, attorno al 1580, prende forma una critica alla pena di morte, 180 anni prima di Cesare Beccaria [6].
Argisto Giuffredi nel designare alcune indicazioni su temi come la famiglia e la roba, diventa agli occhi di Sciascia, il prototipo dell’uomo verghiano, cioè dell’autentico uomo siciliano come sempre è stato e sarà. Quindi, aldilà della diversità di prospettiva tra i due scrittori, al di là della differenza ideologica tra il conservatore Verga e il progressista Sciascia, nel corso degli anni matura un consenso del maestro di Regalpetra nei confronti dell’autore di Mastro Don Gesualdo e della Roba che, per primo, avrebbe tracciato l’identità assolutamente veritiera e inamovibile dell’animo del siciliano.
È proprio a partire da Verga o, per meglio dire, da un giudizio formulato su Verga, che Sciascia comincia ad elaborare le sue riflessioni sulla difficoltà di essere siciliani, su come si possa essere siciliani, interrogativi che attanagliano lo scrittore di Racalmuto a partire da Il Quarantotto, uno dei racconti inseriti nella silloge Gli zii di Sicilia, passando attraverso Il consiglio d’Egitto ma, che, in generale, ne connotano integralmente l’opera. Ecco, per esempio, un passo tratto dal saggio Come si può essere siciliani [7]:
«Pure parlando di Verga, e del romanzo di cui è protagonista Mastro Don Gesualdo, ad un certo punto David Herbert Lawrence dice: “Gesualdo è un uomo comune, dotato di energia eccezionale. Tale è, naturalmente, nell’intenzione. Ma egli è siciliano. E qui salta fuori la difficoltà”. La difficoltà. Non si poteva dir meglio, e con una sola parola. (…) Sicché alla domanda “Come si può essere siciliano?” un siciliano può rispondere: “Con difficoltà”».
Sul tema del focolare domestico, Sciascia ingaggia una lotta contro Verga. Nel 1975, il poeta Stefano Vilardo, per molti anni maestro elementare a Delia, in provincia di Caltanissetta, amico di Sciascia fin dagli anni della frequenza, nel capoluogo nisseno, dell’Istituto magistrale, pubblica una raccolta di versi (Tutti dicono Germania Germania, Garzanti), che descrive il dolore e la fatica dei tanti emigranti partiti per la Germania, in cerca di miglior fortuna. Il libro suona come condanna per quei politici (sanguisughe velenose), i cui discorsi, preelettorali, distribuiscono miele di parole.
La prefazione di Sciascia è coltissima ed è giocata tutta su un duplice binario: da un lato, una stratificata intertestualità di citazioni (la parte del leone la fa Gramsci, seguono Cesare Balbo, Gioacchino Volpe, Dominique Fernandez e Antonio Castelli) che diventa parte, integrante del ragionamento del prosatore, cui si unisce l’attualizzazione del problema dell’emigrazione siciliana. Contro ogni retorica dilagante, lo scrittore fa suo il punto di vista, giudicato, positivo, di Gramsci, che denuncia l’incapacità delle classi dirigenti italiane colpevoli, di non avere saputo dare disciplina nazionale al popolo, di non avere saputo creare «una situazione economica che riassorbisse le forze di lavoro emigrate, in modo che questi elementi sono andati perduti in grandissima parte, incorporandosi nelle nazionalità straniere in funzione subalterna».
Le riflessioni dei Quaderni divengono tutt’uno col discorso di Sciascia: anzi, tra i due autori, si pone un collegamento stretto, come se il siciliano riprendesse un discorso fatto dal sardo. E certamente, in questa ripresa di tematiche gramsciane, avrà giocato un ruolo importante la pubblicazione, in quel 1975, della monumentale edizione critica dei Quaderni, curata, pregevolmente da Gerratana.
Gli altri due elementi positivi della prefazione sono le osservazioni del Fernandez, a proposito dei Malavoglia, e le lettere degli emigranti pubblicate da Antonio Castelli, col titolo di Entromondo. In particolare il giudizio del critico francese suona come aperta, e da Sciascia condivisa, critica nei confronti di Verga [8]:
«Il maggiore dei Malavoglia, sin dal tempo in cui è ancora un bravo ragazzino e sta alla larga dalle osterie, si mette in testa di lasciare Acitrezza e tentare fortuna altrove. L’autore, lungi dall’incoraggiarlo in questa sana decisione, l’accusa di volere abbreviare i giorni a sua madre, di abbandonare alla deriva i suoi fratellini, di infischiarsi del focolare domestico, e infine d’essere un ambizioso, un pretenzioso, che sarà punito per avere disprezzato l’onorevole miseria di cui i Malavoglia si sono sempre accontentati …. I Malavoglia apparvero nel 1881. Ebbene in quello stesso anno, l’Europa mandava 85.000 emigranti in America; tre anni dopo 200.000; nel 1900 l’Italia, da sola, 200.000, di cui circa una metà siciliani».
La critica del Fernandez a Verga può essere sintetizzata nell’accusa di mancanza di senso storico e di opportunità, nella follia, spacciata per virtù, di preferire l’onore di tenere vivo il focolare domestico a qualsiasi benessere economico. In un discorso sull’emigrazione, Verga è il rappresentante del conservatorismo autoctono, della volontà di restare e sopravvivere a qualunque condizione.
Sciascia, prima attraverso Gramsci (l’emigrazione è un male necessario, imposto dall’incapacità delle classi dirigenti, in particolare, dalla borghesia, di sapere compiere una politica nazionale- popolare), poi, attraverso la tagliente lama del critico francese, muove una pesante critica all’agiografia verghiana del guscio familiare, così chiosando: «Fernandez chiama quella di Verga “une bévue histoique de taille”, una grossa cantonata storica. E non il solo Verga l’ha presa».
A partire dal 1960 Sciascia effettua una lettura critica del Risorgimento non solo come occasione mancata ma anche e soprattutto come inganno di questa Italia contro l’altra Italia, di una parte preponderante a discapito del sud. In questo contesto Verga sia pure polemicamente è un punto di riferimento imprescindibile [9].
Nel saggio I fatti di Bronte (1960), viene presentata una critica caustica, che sarà anche alla base della sceneggiatura curata dallo scrittore del film Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato (1972) per la regia di Florestano Vancini, film sostanzialmente sempre censurato e trasmesso, dopo molti anni di ritardo, in orari notturni dalla Rai.
«Nella presente euforia celebrativa, in questo spreco di eloquenza e di quattrini (le celebrazioni dell’Unità d’Italia stanno costando più di quanto sia costata l’unità stessa), è giusto ricordare la prima pagina di nera ingiustizia scritta da questa Italia contro l’altra Italia. Ingiustizia non soltanto perché una rivolta di popolo mossa da giuste e ancora vive cause, è stata sanguinosamente repressa, ma anche soprattutto perché uomini sono stati giudicati e condannati per colpe che non avevano commesso e per idee e sentimenti da cui erano lontani e addirittura nemici» [10].
Ed amara risultava la conclusione [11]: «Con tutto il rispetto per Bixio: nasceva così il vero italiano e l’onesto sentire italiano di cui abbiamo poi visto nel fascismo più perfetti esemplari ed effetti».
Verga e il Risorgimento, scritto nel 1960, fa parte della silloge Pirandello e la Sicilia. Il saggio si apre con un confronto tra Rapisardi e Verga. Il confronto si articola lungo due temi. Da una parte, un’argomentazione brancatiana erotica relativa ad una triangolazione: Verga era stato l’amante di Giselda Fojanesi, una istitutrice toscana che poi, proprio su consiglio dell’autore di Eva, Eros e Tigre reale, sarebbe diventata la moglie di Rapisardi. Ma la liaison sarebbe ripresa, con grande scandalo, dopo le nozze dell’amico Rapisardi. Scrive Sciascia [12]:
«Tanto amava Rapisardi, il popolo catanese, che quando si seppe del tradimento della moglie, e il terzo era per l’appunto Giovanni Verga, ad esprimere solidarietà al poeta tradito i catanesi gli portarono sotto casa una festosa fiaccolata: il che per un popolo che solitamente disprezza e dileggia i cornuti, è una strabiliante prova di affetto. Nemmeno la tresca con la moglie di un amico, azione che di solito rende stimabile un uomo, in una società fatta di miti e vagheggiamenti erotici, riuscì a sollevare Giovanni Verga nella stima dei suoi concittadini: diventò anzi motivo di accresciuta avversione».
Quindi Sciascia sposta l’attenzione sul piano letterario, osservando che Rapisardi, autore di testi inneggianti a Lucifero, in realtà, appare meno rivoluzionario ed eversivo di Verga che, nei Malavoglia, descrive l’affondamento della Provvidenza [13]:
«Mandando a picco, in una burrasca di mare, sotto i segni della fatalità, la Provvidenza manzoniana, cioè la barca dei Malavoglia denominata Provvidenza, Giovanni Verga faceva in effetti più rivoluzione di Mario Rapisardi. Nella Provvidenza che va a fondo c’è più Risorgimento che nelle esaltazioni di Lucifero e di Satana».
Sciascia traccia una sorta di annotazione paradossale. Verga, nel suo immobilismo, pone comunque aldilà della sua consapevolezza storica, un problema storico: la questione meridionale e la questione del Popolo siciliano dentro la storia [14].
«Intanto, facendo a meno di vedere in quale misura ed entro quali limiti agiscano nell’opera di Verga gli ideali del Risorgimento, una semplice ma essenziale considerazione s’impone: ed è che pur operando su una realtà di cui la storia pareva aver respinto definitivamente e senza appello le istanze (si pensi alla sanguinosa repressione di Bixio delle rivolte contadine nel circondario etneo: repressione che, suggerite in ugual misura dalla preoccupazione della guerra in corso e dalle esigenze dei latifondisti, veniva a fondare in Sicilia un sistema di tipo coloniale le cui più feroci applicazioni ricordiamo nei moti contro la leva militare e in quella dei Fasci dei Lavoratori), pur rappresentando come fatale e irrimediabile l’esclusione dalla storia irrevocabile l’immobilità economica e politica del Popolo siciliano, Verga inconsapevolmente portava questo popolo nel flusso della storia: ponendolo, nella luce della poesia, come “problema storico” nella coscienza della nazione dell’umanità. (Sappiamo bene che c’era già una “questione meridionale”: ma sarebbe rimasta come una vaga “leggenda nera”, dello Stato italiano, senza l’apporto degli scrittori meridionali)».
Attraverso Verga, Sciascia legge i fatti risorgimentali, la spedizione garibaldina, come uno strumento non di modernizzazione, non di progresso, non di retorica idealizzazione demagogica della nascita della nazione, ma come, in un’ottica di feroce colonizzazione, un marchio di infamia. Scrisse nel 1963, epoca in cui era molto vicino al Partito Comunista, un saggio intitolato Verga e la libertà. Il testo sciasciano, facilmente reperibile e scaricabile su internet, costituiva l’introduzione all’opera storica del brontese Benedetto Radice intitolata Nino Bixio a Bronte. È un testo sul quale Sciascia ritorna più volte e da cui trae ispirazione per la sceneggiatura del già citato film Bronte. Fu totalmente legato a questo suo saggio che volle inserire nella silloge La corda pazza del 1979 [15].
«La signora duchessa stava in Inghilterra: e a Bronte, ad amministrare il gran feudo che graziosamente Ferdinando (III di Sicilia, IV di Napoli, I delle Due Sicilie) aveva donato all’ammiraglio Nelson, stavano, come già il loro padre, Guglielmo e Franco Thovez, inglesi ma ormai così bene ambientati da poter essere considerati notabili del paese. Ed è a loro che si deve il particolare rigore che Garibaldi raccomandò a Bixio per la repressione della rivolta di Bronte e che Bixio ferocemente applicò: alle sollecitazioni del console inglese, a sua volta dai fratelli Thovez sollecitato. […] Sui fatti di Bronte, pur non tacendo a carico di Bixio anche i più rivoltanti dettagli (come, per esempio, l’atroce risposta al ragazzo che chiedeva il permesso di portare al Lombardo delle uova, alla vigilia dell’esecuzione: “Non ha bisogno di uova, domani avrà due palle in fronte”), il Radice insomma si china come su “un’ingiustizia che poteva esser veduta da quelli stessi che la commettevano”: così come il Manzoni, cui questa frase appartiene, sul processo degli untori».
Il Radice aveva sei anni nel 1860; Giovanni Verga ne aveva venti: e i suoi ricordi della rivolta di Bronte e del circondario etneo, della repressione garibaldina, del processone che poi si tenne a Catania, dovevano essere ben vivi quando, nel 1882, scrisse la novella Libertà.
«[…] Non sarebbe per noi una sorpresa, anzi, se dalle sue carte (di Verga) venisse fuori qualche redazione della novella di data più remota; o degli appunti, delle note, che in qualche modo dessero conferma a questo nostro sospetto: che in Libertà le ragioni dell’arte, cioè di una superiore mistificazione che è poi superiore verità, abbiano coinciso con le ragioni di una mistificazione risorgimentale cui il Verga, monarchico e crispino, si sentiva tenuto. Tale mistificazione, e addirittura una radicale omertà, consigliava il sentimento della nazione (anche di quella parte della nazione che poteva effettualmente considerarsi vinta), oltre che il proprio di galantuomo, nel senso che lo stesso Verga dà alla parola galantuomo; senza dire dei protagonisti: da Bixio, che alla Camera, appena due anni dopo i fatti, dava di sé immagine ben diversa da quella che il popolo di Bronte ricordava: “Potrei citare fatti dolorosi in cui mi son trovato nella necessità di far fucilare. […] E dire al Radice che l’ingiustizia di Bronte poteva anche esser veduta da quelli che la commettevano ma non per ciò essere evitata, che era nell’ordine di una concezione dello Stato-padronale, di classe – cui il garibaldinismo più o meno coscientemente concorreva, sarebbe stato come dire al Manzoni che il processo agli untori appunto veniva a provare l’assenza, nelle cose umane, nella storia, della sua Provvidenza”.
[…] Sui fatti di Bronte dell’estate 1860, sulla verità dei fatti, gravò la testimonianza della letteratura garibaldina e il complice silenzio di una storiografia che s’avvolgeva nel mito di Garibaldi, dei Mille, del popolo siciliano liberato: finché uno studioso di Bronte, il professor Benedetto Radice, non pubblicò nell’”Archivio Storico per la Sicilia Orientale” (anno VII, fascicolo I, 1910) una monografia intitolata Nino Bixio a Bronte; e già, a dar ragione delle cause remote della rivolta, aveva pubblicato (1906, “Archivio Storico Siciliano” ) il saggio Bronte nella rivoluzione del 1820.
[…] Verga descrive la fucilazione di un nano sostituendo così il pazzo, non si fucilava mai un pazzo per carità di patria, ma la sua coscienza è turbata e grande è la sua arte. […] Oltre l’arte, che in questa novella è grande, si sente l’evento fisico, ottico; la “cosa vista”. E c’è un particolare che poteva sì, da quel grande scrittore che era, inventare o intuire, ma il fatto è che è stato detto nel processo, da uno degli imputati (giudici e giurati avranno sogghignato di incredulità, ma il giovane Verga ne avrà sentito la profonda e tragica verità): “[…] «Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant’anni – e tremava come una foglia”. L’uccisione, questa, del giovane figlio del notaio: il notaio Cannata, uno dei più odiosi notabili di Bronte.
[…] Ed esattamente Verga ricorda come il notaio morì – “si era rialzato due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio” – come esattamente ricorda l’esclamazione di uno dei rivoltosi, a scrollarsi del rimorso di avere ucciso il ragazzo incolpevole: “Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui!”.
[…] Ma la mistificazione più grande (in cui, ripetiamo, le ragioni della sua arte venivano a coincidere con le ragioni diciamo risorgimentali, cioè di una specie di omertà sulla effettuale realtà del Risorgimento) è nell’avere eliminato dalla scena l’avvocato Lombardo: personaggio che non poteva non affascinarlo in quanto portatore di un destino, in quanto vinto».
Sui fatti di Bronte e sull’operato dei garibaldini in Sicilia, Sciascia si avvicina a Gramsci [16]. Tuttavia, nel saggio Verga e la memoria, contenuto nella raccolta Cruciverba, Sciascia individua in un testo verghiano, un punto di riferimento autorevole e assolutamente condivisibile, in una sorta di critica al Risorgimento italiano. Si tratta di una novella poco nota, La chiave d’oro, scritta da Verga nel 1883, comparsa per la prima volta nel settimanale La domenica letteraria e quindi poi inserita nei Drammi intimi. In questa novella si racconta di un campiere, Surfareddu, un criminale mafioso che non esita ad uccidere un povero ladro di olive entrato nell’appezzamento di proprietà di un canonico di cui Surfareddu è il guardiano. Commesso l’omicidio, il campiere scappa e il canonico si trova a dover affrontare la giustizia rappresentata da un giudice borbonico assolutamente corrotto. In cambio di una chiave d’oro, il giudice che è un “galantuomo”, perché si accontenta di poco, chiuderà gli occhi. Ed ecco cosa scrive Sciascia tenendo conto del testo verghiano [17]:
«E alla non fatta giustizia del giudice borbonico, succede l’indulto di Garibaldi. La parabola si compie spietatamente, tremendamente con questa frase: “Nel frutteto, sotto l’albero vecchio dove è sepolto il ladro delle olive, vengono cavoli grossi come teste di bambini”. Non c’è il destino, non c’è la fatalità ci sono gli uomini, la società, la storia. Non troveremo, nell’opera di Verga, accusa più netta e terribile di questa, contro la classe dei “galantuomini”, contro la loro “giustizia”. Un “galantuomo”, il giudice che dà un prezzo abbastanza modico alla propria corruzione e si sente che a giudizio del canonico e di Surfareddu , del “servo di Dio”, del mafioso, anche Garibaldi, per l’indulto che tocca a questo e per la terra che lascia a quello, può essere considerato, nonostante tutto quel che prende nome di rivoluzione, ma soltanto nome, un “galantuomo”».
Resta, infine, da ultima, ma non per ultima, un’altra problematica: si tratta dell’asse antropologico, della linea della identità siciliana che lo scrittore di Racalmuto individua in una sorta di atemporalità storica. Di questa linea di immobilismo Verga è uno dei riferimenti essenziali, un indizio della refrattarietà del siciliano alla storia, alla evoluzione della storia. Ma occorre procedere con ordine. La riflessione sciasciana parte da un testo poco noto: gli Avvertimenti Cristiani (presumibilmente scritti intorno al 1580) redatti dal palermitano Argisto Giuffredi. Il primo ragguaglio che il Giuffredi indirizza ai figli riguarda la roba [18]:
«La prima cosa dunque ch’io vi ricordo, è che la roba, la quale io, come ministro in questa parte di Dio ed a suo nome vi ho data, ve la presto perché l’adoperiate in suo santo servizio, in sostentamento della vostra vita e in sussidio dei poveri; e finalmente perché voi la diate ai vostri figli, se n’avrete, o fratelli o parenti o altri prossimi, fra’ quali i miserabili siano sempre da voi preferiti; ed anco l’anime de’ fedeli defunti che sono in Purgatorio. Avvertendovi che quanto manco lascerete ai sopradetti figli, parenti, poveri e defunti di quello che ora per mia mano Iddio vi dà, tanto ruberete loro, se però la consumerete male. Or quando però Iddio vorrà farvi perdere questa vostra sostanza, non sarete lor tenuti di farlo, come veramente sareste, se voi giucaste, puttaneggiaste e gittaste via malamente la roba, che da Dio per mia mano avete avuta. Né sia qui alcun di voi che risponda, che non possan lasciarsi altrui così le virtù come la roba, poi che principalmente è necessario che lo erede vi sia atto; perciocché io vi replico, che sì come è vero che è di bisogno che sia atto l’erede e capace delle virtù, così voi siete tenuti per via di maestri, di buoni esempi, di ottime conversazioni e di molta fatica e vigilanza vostra farveli capaci».
Passo da cui si evincono, schematicamente due fondamentali cose: l’esercizio della virtù (la moderazione di stampo etico) e l’essere virtuosi, consistono nella conservazione della roba. Nel saggio La vita di Antonio Veneziano (1967), raccolto nella silloge La corda pazza, dopo avere dichiarato che il Giuffredi ebbe, malgrado lui, vita tribolata, pur essendo prudente verso i potenti, quanto agli Avvertimenti, Sciascia precisa [19]:
«un singolare e prezioso documento da cui vien fuori, tre secoli prima dei Malavoglia, di Mastro don Gesualdo, quello che possiamo chiamare l’uomo del Verga. Che è poi, effettualmente l’uomo siciliano; e lo ritroviamo tale e quale nel 1945, in quell’acuto ragguaglio di Sebastiano Aglianò sulla Sicilia».
Nel saggio L’ordine delle somiglianze, inserito nel volume Cruciverba (1983), perfettamente in linea col libro-intervista La Sicilia come metafora (1979), lo scrittore ritiene che giudizi e rappresentazioni sull’uomo siciliano, a distanza di cinque, dieci o venti secoli, da Cicerone a Scipio Di Castro, da Argisto Giuffredi («palermitano, autore di un malnoto libro di Avvertimenti cristiani, da cui viene fuori, nel XVI secolo, quello che possiamo dire l’uomo verghiano»)[20], a Verga, a Pirandello, Brancati e Lampedusa, mantengono inalterate, la loro verità, in quanto rappresentano un modo di essere siciliano, caratterizzato da un’apparente illusione che è, in definitiva, un’aporia
«Perché altro non può essere che apparenza, che illusione, una così indefettibile continuità, una così assoluta refrattarietà alla storia di quella parte della realtà umana che chiamiamo Sicilia, che pure è situata nel crogiuolo della storia. Ma il fatto è che questa apparenza, questa illusione, sorge dalla realtà siciliana, dal “modo di essere” siciliano: e dunque ne è parte intrinsecamente. Ci troviamo insomma, in un circolo vizioso, in una specie di aporia; che è poi la sostanza di quella nozione della Sicilia che è insieme luogo comune, “idea corrente”, e motivo di univoca e profonda ispirazione nella letteratura e nell’arte» [21].
Proviamo a riepilogare: nel saggio del 1967, Giuffredi è l’anticipatore dell’uomo del Verga, soprattutto, per quanto attiene alla prudenza, la roba, la famiglia, l’uso dei proverbi; ma, il suo limite è costituito dall’uso rigido di regole inamovibili, quindi dal non saper cogliere le contraddizioni della storia, come fa il Guicciardini (la storia, la capacità di sapere leggere la storia, è sentita come un valore), mentre, nel saggio del 1983, lo scrittore palermitano, insieme ad altri letterati e artisti siciliani, costituisce un tassello della sicilianità [22], un’illusione, se vogliamo un’aporia, del modo di essere, di percepire la realtà storica della Sicilia, che consiste nella refrattarietà alla storia.
Ne deriva che parlare della Sicilia, come categoria dello spirito, attraverso la sicilianità e i suoi miti, aspetto ontologicamente e ideologicamente contraddittorio per uno scrittore che ha fatto del vaglio della ragione il suo asse di riferimento, diventa non solo lecito, ma indispensabile, se si vuol capire la realtà storica isolana.
Occorre sgombrare il campo da un equivoco: l’attenzione alla roba, l’ideologia dell’accumulo e della propagazione e del mantenimento dell’asse patrimoniale familiare, non è un elemento peculiare della mentalità siciliana (e qui bisogna evitare pericolose generalizzazioni: l’uomo del Verga, quello dei Malavoglia o di Mastro don Gesualdo, a cui fa riferimento Sciascia, lotta per la sopravvivenza o per trovare, nell’accumulo della ricchezza, una psicologica meta di salvezza, per rimuovere la paura atavica della povertà; il Giuffredi è invece, un signore, un gentiluomo, che svolge attività pubblica, è uomo di successo che si scontra con tutte le contraddizioni e le iniquità, proprie del potere e delle sue angherie nella Sicilia del sedicesimo secolo), ma caratterizza la forma mentis dei ceti medi di altre regioni, si pensi, in primo luogo, alla Toscana.
Precisato che il termine roba, indicava, come ci informa, Michele Amari [23], una moneta pregiata, in buona lega, adoperata dagli Arabi, durante la loro dominazione in Sicilia, occorre sottolineare che la parola è di derivazione francese (robe) ed indica vestito, panno (ancora oggi si dice guardaroba, utilizzando il termine nell’accezione originaria). Nella Commedia, roba è utilizzato due volte, attendibilmente, nel senso di stoffa, vestito, abito [24]. Nel Decamerone, il termine è presente 15 volte: in due circostanze, assume il significato di ricchezze, mercanzie, patrimonio [25].
È importante osservare che, nei Libri della famiglia, Alberti esalta il valore della masserizia, la capacità di acquistare ricchezze, di mirare al guadagno, come valore proprio della Toscana (le armi e lettere vengono poco apprezzate):
«Né anche fa la terra nostra troppo pregio de’ litterati, anzi piuttosto pare tutta studiosa al guadagno e cupida di ricchezze. O questo paese che lo dia, o pure la natura e consuetudine de’ passati, tutti pare che crescano all’industria del guadagno, ogni ragionamento pare che senta della masserizia, ogni pensiero s’argomenta ad acquistare, ogni arte si stracca in congregare molte ricchezze» [26].
A questo proposito, l’Alberti precisa che i Toscani, per abitudine, ardono dal desiderio di procurarsi e di conservare la roba: «[i Toscani sono incendiati] ad avanzarsi e conservarsi roba, e a desiderare ricchezze, colle’ quali e’ credono meglio valere contro alle necessità, e non poco potere ad amplitudine e a stato in fra i suoi cittadini» [27].
La difesa dell’asse patrimoniale, in un momento difficile per le finanze e la banca dei Medici, spinge Lorenzo, malvolentieri a continuare l’attività politica del padre, come si evince dai Ricordi: […] «malvolentieri accettai e solo per la conservazione degli amici e sostanze nostre, perché a Firenze si può malvivere senza lo Stato»[28].
Sia pure in contesti contrassegnati da economie diverse, la continuità nelle attività di famiglia, strettamente connessa al mantenimento della roba, caratterizza l’ideologia delle classi medie e dei dirigenti italiani, nel periodo umanistico-rinascimentale.
Ma, nel nome di concetti come roba e famiglia, Sciascia ha voluto costruire un albero genealogico che trova in secoli e in personaggi completamente diversi, da Cicerone ad Argisto Giuffredi fino a Verga, una linea di continuità nel tracciare un solco di una identità siciliana inamovibile e conficcata in radici tanto profonde quanto non scalfibili dal divenire storico.
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